Cinquant’anni dopo
Quando Alleanza Cattolica cominciava a operare negli Anni Sessanta del secolo scorso, il mondo europeo, seguendo a stretto giro gli Stati Uniti d’America, si apprestava a conoscere quella Rivoluzione antropologica e culturale di cui ricordiamo il 50° anniversario nel 2018.
Nel mondo di allora regnava ancora in buona misura il senso comune, condiviso anche fra avversari politici. Gli uomini e le donne erano pacificamente ritenuti diversi e complementari, tanto che per «fare famiglia» bisognava che si unissero certo fisicamente, ma meglio se ciò avveniva anche spiritualmente: l’indissolubilità e la fecondità del matrimonio erano caratteristiche ricercate e condivise, in particolare nell’Italia del secondo dopoguerra, quella detta «del baby boom», quando in Occidente era abituale per tante famiglie avere molti figli. Ma quel mondo portava dentro di sé una malattia che non riuscì a curare: il laicismo, o, per usare un termine di Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005), il «secolarismo», cioè la «[…] mutilazione di quella parte inalienabile dell’uomo che tocca la sua identità profonda: la dimensione religiosa» (1). Il laicismo, o secolarismo, fu una delle cause più importanti della fase rivoluzionaria scoppiata nel 1968.
Una rivoluzione culturale
Il Sessantotto cambiò il quadro esistenziale di ciascuno, non tanto quello politico, sì che, cinquant’anni dopo, del Sessantotto dobbiamo studiare soprattutto la deriva antropologica, molto più invasiva di quella politico-terroristica che durò in effetti pochi anni, tranne che in Italia.
In Europa quella rivoluzione antropologica esplose a Parigi, nel «maggio» del 1968, e ciò spinse Alleanza Cattolica, che muoveva allora i primi passi come associazione organizzata, a scegliere la cultura come aspetto fondamentale privilegiato del proprio apostolato. Cultura non in senso intellettualistico, ma come concezione della vita, quell’insieme di criteri e di giudizi che spingono ogni uomo a prendere le decisioni nel corso della sua vita, sia quelle importanti sia quelle secondarie.
La cultura ha a che fare con la religione e con la politica, con la contemplazione e con l’azione, con l’economia e con l’arte, con il modo di parlare e con quello di vestire, perché investe tutti i settori della vita umana e li condiziona.
Un mutamento radicale
La Rivoluzione culturale del 1968 — che in quegli anni devastava la Cina comunista facendo migliaia di vittime e azzerandone il millenario retaggio di civiltà — cambiò profondamente il modo di vivere degli abitanti dell’Occidente, non solo traducendosi in rivoluzione sessuale, ma anche lasciando segni di profondo mutamento negli atteggiamenti esistenziali e nel costume delle due generazioni successive. Il venir meno della lettura e della riflessione, della sottolineatura della virilità e della femminilità, l’arroganza — il «tutto subito» e il paradise now — dei militanti dei primi anni della «contestazione» e la mancanza di autostima subentrata, per contraccolpo, nei giovani dei decenni successivi, «stravolti» dalla droga e privi di ideali: per questi e per tanti altri aspetti si può dire che il mondo in cinquant’anni è mutato radicalmente.
Il mondo che alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso ancora conservava tracce di civiltà ispirata al Vangelo oggi è morto. Certo, restano i segni del mondo precedente, come pure quelli di un «altro mondo»: le cattedrali e i castelli, i libri e i dipinti, le sculture e le chiese, i centri storici delle città e quel poco di epica patria che viene ancora insegnata nelle scuole.
Quando Alleanza Cattolica muoveva i primi passi lo faceva per difendere i brandelli sopravviventi di quella civiltà uscita da secoli di evangelizzazione e di inculturazione della fede. I «miti» di riferimento erano i difensori di quella civiltà, che si erano battuti con eroismo contro chi voleva distruggere i fondamenti della vita comune.
Ma la civiltà che difendevano i vandeani e gli insorgenti — i tirolesi di Andreas Hofer (1767-1810), i barbets piemontesi e i sanfedisti del Regno di Napoli —, così come quella che oltre un secolo dopo difendevano le tante resistenze anticomuniste battutesi con coraggio disperato contro gli epigoni della Rivoluzione bolscevica del 1917; quella civiltà era nata molti secoli prima dall’evangelizzazione operata dagli apostoli e dai discepoli del Signore, dai Padri della Chiesa, dagli apologisti, dalle famiglie, dai monaci e dalle vergini consacrate, che giorno dopo giorno, dopo i primi tre secoli di persecuzione, resero possibile ciò che potremmo chiamare, pur con i limiti propri di ogni esperienza umana, il «millennio della fede», noto ai più come «Medioevo». Se oggi della civiltà cristiana sono rimaste in Occidente soltanto tracce esteriori, è forse venuto il tempo di prestare attenzione a chi e a come l’ha costruita.
«Et et», naturalmente, una cosa e l’altra. Conoscere la Vandea e l’epopea delle insorgenze sarebbe poco utile senza conoscere coloro che hanno edificato quella società, ancora nelle grandi linee cristiana, che essi hanno tentato di difendere.
I maestri della Contro-Rivoluzione ci hanno insegnato a non lasciarci prendere dalla nostalgia, soprattutto se non abbiamo conosciuto il mondo perduto. La Contro-Rivoluzione non è un ritorno al passato, ma all’origine. Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica, invitava a ricominciare da dove la Rivoluzione aveva iniziato a far deviare la società: si trattava per gli apostoli del Novecento di rinnovare lo spirito dell’origine del cristianesimo, l’entusiasmo presente negli Atti degli apostoli, la disponibilità al sacrificio dei martiri, la risposta alle esigenze di spiegare la fede degli apologisti e dei primi Padri, greci e latini. Ma soprattutto rinnovare l’opera delle famiglie, dei monaci, dei primi catechisti, di quelli insomma che hanno faticosamente costruito la cristianità che sorse dalla fine del mondo antico.
Costruire ambienti
Il Sessantotto, rivoluzione eminentemente individualistica e interiore, ha anche distrutto gli ambienti, in particolare quelli fondati semplicemente sull’amicizia, che nascevano spontaneamente soprattutto fra i giovani, sostituendoli con nuove aggregazioni artificiali fondate sull’ideologia, sulla musica o sullo sport. Queste ultime due forme sono sopravvissute alla fine dell’epoca delle ideologie.
Vittima di questo cambiamento culturale è stata l’amicizia, intesa come un legame che nasce fra due o più persone non per un fine esterno — perché si tifa per la stessa squadra o si ama la stessa musica —, né per ragioni ideologiche — come avvenne con i movimenti giovanili nati appunto nel 1968 —, ma come valore in sé, ragionevole e contemporaneamente misterioso, come l’amore fra un uomo e una donna, che è certamente ragionevole eppure va oltre, perché non ci si innamora di tutte o di tutti indistintamente, ma di quella persona in particolare.
L’amore di amicizia è un valore umano importante, che il processo rivoluzionario ha contribuito a spazzar via dalla nostra società, subordinandolo al superiore interesse di partito o di classe, oppure al profitto, che non tollera sentimentalismi, e a tante altre cose ritenute più importanti.
Chiunque sia cresciuto nell’epoca delle ideologie, il Novecento, ha subìto questa prospettiva antropologica che ci veniva veicolata, a volte assorbendola in modo anche incosciente.
Certamente l’amicizia ha bisogno pure di contenuti. Ma quella sintonia che nasce fra due o più persone è un bene in sé, anche se deve essere coltivato e alimentato. È un bene che permette di vivere una «vita buona», che ha nelle relazioni un aspetto fondamentale.
Tanti ricordano molto bene come la ventata delle ideologie moderne, durante e dopo il Sessantotto, irruppe impetuosa e frantumò amicizie che duravano da anni, entrando addirittura nelle famiglie, creando inimicizie tra fratelli e soprattutto inoculando l’odio fra le generazioni.
Il valore dell’amicizia
Se l’odio è la benzina che alimenta le rivoluzioni, l’amicizia ne è un naturale antidoto. Oggi è necessario ricostruire ambienti e rifondarli a partire dall’amicizia. Certo, essa non basta per dare forza e solidità a questi ambienti: ci vuole la fede e la Grazia che ne discende e ci vuole una salda consapevolezza che gli ambienti sono luoghi umani che aiutano a vivere meglio, indispensabili perché l’uomo è un essere sociale che si perfeziona attraverso le relazioni con i propri simili. Tuttavia, un ambiente cresce a partire dall’amicizia fra più persone, come una famiglia nasce dall’amore fra un uomo e una donna. Entrambi devono avere delle ragioni, ma la loro «ragione ultima» va oltre la ragione.
Certamente serve anche la consapevolezza «politica» dell’importanza degli ambienti, del bisogno di costruirli e della necessità di proteggerli. Essi nascono nella società come dei «corpi intermedi» fra il singolo, la collettività e lo Stato, con diverse finalità, professionali, ricreative, sportive, caritative e di tanti altri tipi. Spesso rispondono a nuovi bisogni che si manifestano nel tempo. Il compito della politica dovrebbe essere quello di aiutare questi ambienti a rispondere sempre meglio ai bisogni per cui sono nati, mentre spesso gli Stati cercano di rispondervi in prima persona, facendo peggio di quello che gli ambienti nati nella società farebbero per vocazione e così contraddicendo un principio fondamentale della dottrina sociale della Chiesa, la sussidiarietà.
Alleanza Cattolica cercherà di dedicare questo cinquantesimo anniversario del Sessantotto alla riflessione sulla definitiva scomparsa della cristianità occidentale, portando attenzione alla prima evangelizzazione da cui essa è sorta, per trovare nell’esempio dei protagonisti di quella stagione uno stimolo all’apostolato (2). Lo farà sull’esempio di un suo indimenticabile militante, Enzo Peserico (1959-2008) (3), che al Sessantotto e alla costruzione di ambienti, soprattutto giovanili e familiari, ha dedicato la sua vita e il suo impegno, e che con queste parole concludeva il suo testo ancora prezioso, dedicato a quell’epoca: «È esattamente questo che ci viene chiesto, in un mondo costruito per eliminare la possibilità stessa della trascendenza: desiderare la santità, desiderare per sé e per gli uomini tutti la pienezza del vero, del bene e del bello e quindi coltivare un grande desiderio a sostegno e come punto di arrivo dell’apostolato culturale: costruire una civiltà naturale e cristiana, la civiltà della verità e dell’amore» (4).
Note:
(1) San Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti ad un colloquio internazionale promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura e dalla Pontificia Università Urbaniana, del 2-12-1995, n. 1. La penetrazione del laicismo nella vita pubblica italiana nel secondo dopoguerra venne analizzata dai vescovi italiani in una lettera pastorale del 1960: cfr. Francesco Pappalardo, L’analisi del laicismo in una lettera pastorale dei vescovi italiani del 1960, in Marco Invernizzi e Paolo Martinucci (a cura di), Dal «centrismo» al Sessantotto. Atti del convegno Milano e l’Italia dal «centrismo» al Sessantotto, Milano 30-11/1°-12-2006, organizzato dall’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale, Ares, Milano 2007, pp. 341-370.
(2) Cfr., per esempio, Benedetto XVI, Boezio e Cassiodoro, in questo numero di Cristianità, alle pp. 72-76.
(3) Cfr. Andrea Arnaldi, Enzo Peserico (1959-2008), in questo numero di Cristianità, alle pp. 43-48. Cfr, pure In memoriam di Enzo Peserico, in Cristianità, anno XXXVI, n. 346, marzo-aprile 2008. pp. 12-13.
(4) Enzo Peserico, Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione, presentazione di M. Invernizzi, prefazione di Mauro Ronco, Sugarco, Milano 2008, pp. 166-167.