Da Avvenire del 06/02/2021
«Amata e martoriata Siria», come la definì il 14 marzo del 2021 papa Francesco a 10 anni dall’inizio della guerra civile. Martoriata – ricordò il Papa durante quell’Angelus – da «una delle più gravi catastrofi umanitarie del nostro tempo». E flagellata, pure, da una crisi politica che pare non trovare sbocchi e che stringe come in una morsa la sempre più esigua Chiesa siriana.
Una composita comunità – sono ben sei i riti cattolici a cui si devono aggiungere quelli ortodossi e la presenza protestante – che vive “stretta tra due fuochi”. Da un lato la repressione di un regime poliziesco che con il sostegno militare di Russia e Iran controlla più del 70 per cento del territorio: si moltiplicano i dossier internazionali che accusano il governo di Damasco di essere responsabile di crimini di guerra, torture e della sparizione forzata di migliaia di persone. Tra il 2011 e il 2015, denuncia un rapporto di Amnesty International, si stima siano morte nelle carceri governative più di 17mila persone. L’altro fronte sono le milizie jihadiste, sostenute dalla Turchia per avere il controllo del Nord Ovest della Siria, mentre il recente assalto al carcere siriano di Hassaké da parte di affiliati del Daesh dimostra come la presenza jihadista non sia certo scomparsa con la liberazione nell’ottobre del 2017 di Raqqa, la “capitale” del Califfato.
Simbolo di questa tragedia è la popolazione civile di Idlib, due volte profuga e due volte vittima. L’ultima “provincia ribelle” è diventata il rifugio di chi ha scelto la fuga dalle forze governative spalleggiate dai russi, dopo la prima fase della primavera araba siriana: «oppositori-terroristi» secondo la retorica del governo di Damasco. Molto spesso profughi senza patria ed ora sotto il ricatto o sotto la “protezione” delle milizie jihadiste: i «dimenticati di Idlib» che papa Francesco ha voluto ricordare in piazza san Pietro l’8 marzo del 2020, vittime di una «situazione umanitaria» che colpisce «tante persone inermi». Le recentissime morti per assideramento di minori nelle tende dei campi profughi sono l’icona di questo «martirio» di un popolo.
Una tragedia che ha annichilito ogni forma di libera espressione compresa quella di una comunità cristiana che cerca, al più, di garantire le condizioni minime di sopravvivenza con il regime e teme il risveglio jihadista nella terra che per tre anni aveva più di un terzo del suo territorio e sotto il terrore jihadista. I cristiani, storicamente élite colta e con un importante ruolo culturale – ad esempio fra i fondatori del partito Baath nel 1940 ci fu il cristiano ortodosso Michel Aflaq – ora non hanno intellettuali capaci di elaborare un vero pensiero politico. Così a un regime che cerca di perpetrare se stesso, secondo autorevoli osservatori si è contrapposta una opposizione «senza programma». I richiami della gerarchia cattolica – con la creazione a cardinale nel 2016 del nunzio apostolico Mario Zenari quale segno di particolare attenzione della Santa Sede per quella terra – sono stati per preservare l’unità nazionale e favorire la riconciliazione, ma con grande cautela rispetto a temi come la democrazia e la laicità dello Stato. Quando nel 2012 Bashar al-Assad promulgò la nuova Costituzione – approvata con il referendum del 26 febbraio 2012, testimonianza per il regime della volontà di riforma – si sottolineò la riforma dell’articolo 8 che eliminava il monopartitismo e riconosceva il pluralismo. Nessuna riforma è stata invece prevista per l’articolo 3, secondo cui il presidente «deve appartenere alla religione islamica».
Cristiani siriani, come su una zattera enella tempesta e con la sindrome di abbandono: la sola rotta per il futuro – come indicato pure dal Documento di Abu Dhabi – è «piena cittadinanza » senza che il termine minoranza diventi nei fatti, a Damasco, come ad Aleppo, ad Hassaké come a Idlib, sinonimo di discriminazione.