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La musica sessantottina: Fabrizio de André

4 Agosto 2018 - Autore: Oscar Sanguinetti

di Oscar Sanguinetti

Esponente senza dubbio più raffinato della “covata” di cantautori genovesi del dopoguerra — che si apre con Umberto Bindi (1932-2002), continua con Sergio Endrigo (1933-2005), Bruno Lauzi (1937-2006), Gino Paoli, marginalmente con Luigi Tenco (1938-1967) e, perché no?, con Paolo Villaggio (1932-2017) —, le sue canzoni hanno inciso in maniera determinante nella formazione di quel sentimento collettivo, di quell’insieme di giudizi epidermici, di quella “ideologia popolare” che ha “preparato” e alimentato la ribellione giovanile del Sessantotto.

Fin dal suoi primi dischi, i testi di “Faber” — l’appellativo affibbiatogli dall’amico d’infanzia Villaggio — danno voce e una veste poetica e musicale di alto profilo a temi fino ad allora ignoti o esclusi dalla canzone italiana, perennemente imbevuta di amore e di sentimento, anche se per lo più in forme espressive da cartolina o, come si dirà poi, da fotoromanzo, ossia oleografiche e sdolcinate. La sua vita ribelle e trasgressiva — è noto il tempestoso rapporto con il padre, imprenditore di successo ed esponente del Partito Repubblicano Italiano —, che si traduce in scelte esistenziali radicalmente provocatorie, come la temporanea convivenza more uxorio con una nota prostituta genovese, si traspone in immagini e in idee che esprime nei suoi testi e nelle sue musiche.

Con la sua voce profonda e di grande presa emotiva, con le sue melodie originali e affascinanti, De André è il cantore delle le periferie degradate, dove regnano il vizio e la miseria — La città vecchia —, dei matrimoni riparatori — Marcia nuziale —, prostitute gioiose e redentrici — Via del Campo e Bocca di Rosa —, gorilla in libertà che brutalizzano anziane compiacenti — Attenti al gorilla —, amori appassionati — Canzone dell’amore perduto —, pacifismo — La guerra di Piero —, il suicidio — Preghiera in gennaio, scritta nel 1967, dopo la tragedia dell’amico Tenco —, la droga — l’album Tutti morimmo a stento, proprio del 1968 —, i condannati a morte — La ballata del Miché —, la pedofilia — La leggenda di Natale  —, e tanti altri sono i migliori saggi del suo primo periodo artistico. Di formazione cattolica, non mancano nella sua produzione anche canzoni a sfondo religioso, come l’esplicita Si chiamava Gesù o Spiritual, che rivisita con spirito curioso ma con acre critica. Anche i suoi testi apparentemente meno “politici” — Fila la lana o La morte — e magari anche giocosi — come Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers —, in realtà sfiorano temi esistenziali letti in una prospettiva nuova, pessimistica e dissacrante.

Credo che l’album che forse ha più in profondità “lavorato” la mia generazione e, in particolare, i giovani cattolici, sia stato La buona novella, ampia rilettura in chiave naturalistico-pauperistica del Vangelo, ispirata ai testi apocrifi. L’opera, pur in una forma poetica e musicale di alto pregio — forse il vertice artistico del cantautore genovese —, contiene una serie di giudizi sulla fede che ricalcano in larga misura gli stereotipi della cultura progressista — allora in ascesa dopo il Concilio Vaticano II —, spingendosi fino agli estremi dell’eterodossia e della critica, se non materialistica, almeno naturalistica, della religione. Più che i documenti della Chiesa che si andava rinnovando, saranno giudizi distorcenti di questo tipo, qui espressi in forma raffinata e, quindi, più efficace, che contribuiranno a plasmare la visione della religione e della Chiesa nei giovani figli del baby boom.

Fabrizio De André “prepara” il Sessantotto, ma non ne segue l’esplosione in chiave politica, né in quella esistenziale da “comune hippy”: piuttosto la sua prospettiva continua a essere rigorosamente individualistica e in certa misura libertaria in senso classico: si sa che in gioventù ha letto autori come Max Stirner (Johann Kaspar Schmidt; 1806-1856), né è mancata nel 1957 una sua effimera iscrizione alla Federazione Anarchica Italiana di Carrara. Però lo accompagna, quasi inseguendo i frammenti disparati nati dal Big Bang sessantottino.

Negli anni 1970 rielabora, collaborando con i migliori musicisti, popolari e non — per esempio Nicola Piovani — del tempo, le sue canzoni più antiche, ma sviluppa temi espressivi e musicali nuovi, tutti però sempre modulati sul filo di quel perenne pessimismo di fondo, quasi leopardiano — musicherà l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (1868-1950) nell’album Non al denaro, non all’amore, né al cielo —, che la drammatica vicenda del rapimento subìto in Sardegna con la moglie feconda e arricchisce di ulteriori spunti. Così pure s’interesserà dall’ampia gamma di suggestioni che nascono dal folklore ligure, e dal suo dialetto originario, così simile ad altri dialetti alto-mediterranei.

Inviso alla sinistra sessantottina, che lo accusa di individualismo, e, comprensibilmente, alla destra — anche se è ascoltato e amato da non pochi dei giovani anti-comunisti —, la sua vena artistica si collocherà — almeno in via tentativa — sempre più in alto nella sfera della poesia cantata, nonostante le intermittenti incursioni su temi di cronaca. Non sempre la sua vena manterrà le promesse della stagione giovanile, ma il livello delle composizioni di De André si manterrà sempre diverse spanne al di sopra della media, non solo delle canzoni da festival, ma anche della canzone “impegnata” in generale.

Resta il fatto che la sua sensibilità poetica e le idee che essa veicola saranno uno dei più potenti solventi della prospettiva di fede o solo di ogni ordine interiore, nonché un efficiente fattore di destabilizzazione, quando non di rovesciamento, dei giudizi sulla realtà, ossia della cultura, che erano cosa normale a livello popolare nei primi decenni del dopoguerra.

Sabato, 4 agosto 2018

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