Da La bianca Torre di Ecthelion del 05/04/2018. Foto da articolo
Un carapace duro come l’acciaio e irsuto di aculei ne protegge il corpo a sei zampe. Da un capo saetta una coda squamosa a punta di lancia, dall’altro sbava una testa di leone: questo drago chimerico e anfibio si chiama Tarasque (tarasca o tarasco) e nel secolo I d.C. terrorizzava la regione gallo-romana tra Avenio, Arelate e Acquae Sextiae, cioè tra Avignone, Arles e Aix-en-Provence, nella Gallia narbonese che un tempo i Romani avevano chiamato Provincia, la Provenza. La fiera era originaria della Galazia, una regione dell’Anatolia centrale, nata dall’immonda unione fra l’Onachus, un bisonte mostruoso capace d’incenerire tutto ciò che toccava, e il Leviatano della Bibbia. Dall’Oriente, si era accasata sulle rive paludose del Rodano, facendo tana in una grotta nei pressi del villaggio di Nerluc. Da lì sortiva per divorare uomini e armenti.
Nessuno guerriero seppe abbatterla finché un giorno si fece innanzi una fanciulla mite. Anch’ella veniva da lontano, anch’ella da oriente. Senza né armi né scudo, levò il capo e alzò lo sguardo al cielo. Con gesti lenti e solenni spalancò le braccia, richiudendole poi giunte sul petto. Fissava il mostro e il mostro la fissava. Fu allora che proferì parole appena percettibili intonando poi un canto melodioso che le acque del Rodano si fermarono ad ascoltare, e gli alberi e i fiori della riva s’incantarono a mirare. Le belva fu come paralizzata. Il suo odio sparì e la sua ferocia scemò. Marta, così aveva nome la donna, salmodiò un secondo canto, e poi un terzo, e poi un altro ancora, e poi ancora. Cantava lodi al Signore, Dio degli eserciti e della misericordia, Dio dei cuori e delle menti, Dio fattosi uomo in Oriente, là morto e risorto, e qui portato da stranieri.
La Tarasque non fu più se stessa. Perse forza e perse dimensioni. Si fece piccola; piccola e docile. Marta aveva fatto quel che gli eroi non erano stati capaci di fare: l’aveva domata. La condusse in paese come un agnellino, ma qui la gente, al vederla, inorridì. Ricordò i lutti e gli scempi, e le scagliò addosso pietre, e bastoni, e infine lance, martoriandola, sgozzandola, uccidendola. Marta non seppe trattenerli, ma colse l’occasione per raccontare al villaggio la potenza del Dio-uomo, Colui che aveva domato la fiera, e di come quel Dio vero rinnovasse le cose e i tempi con il proprio sacrificio che aveva vinto la morte e il peccato. Marta convertì il villaggio, e il villaggio volle ribattezzarsi Tarascona, in onore del mostro vinto da Dio e soprattutto del Dio che vince i mostri.
Questa è la pia leggenda di santa Marta di Betania come ce la tramanda la Leggenda aurea del beato Jacopo da Varagine (1228-1298), il quale la identifica con l’emorroissa guarita da Gesù nel Vangelo. Un bel libriccino pubblicato in Francia ce ne restituisce intatta l’immagine profonda e sublime fra tradizione e fede: Marthe de Béthanie. Le pouvoir de l’amour, scritto da Olivier Joachim per i tipi delle Éditions Artège di Parigi e Perpignano. Non fa l’agiografo, l’autore, anzi: nativo di Avignone, insegna Fisica nelle classi preparatorie del Liceo San Luigi di Parigi. Le “classi preparatorie” sono corsi d’insegnamento a carattere universitario tenute nei licei e il buon re crociato san Luigi (1214-1270) ha degna memoria poco distante dai luoghi della Tarasque, ad Aigues Mortes, una delle sue roccaforti strategiche da cui salpò per la settima crociata e dove ancora il canale di sbocco al mare si chiama Grau-du-Roi. Tutt’intorno è una salina, all’epoca preziosa più dell’oro.
Il sottotitolo scelto da Joachim per la novantina di pagine che compongono il suo libro non ha proprio nulla di melenso. Il potere dell’amore di cui gronda è uno e uno solo. L’amore della fede e ‒ cosa meno scontata ‒ l’amore per la fede, quella che sconfigge anche i mostri.
La tradizione vuole che santa Marta sia giunta sulle coste provenzali nell’anno 48. Con lei, c’era il fratello, san Lazzaro, l’uomo per cui Gesù pianse lacrime vere, che visse il dramma di morire due volte e che ebbe la grazia di fare esperienza fisica della risurrezione. E c’erano pure le sorelle Maria (identificata talora con santa Maria Maddalena) e santa Maria Salomé, cioè la madre dei figli di Zebedeo, la terza delle “tre Marie” ai piedi della Croce (una tradizione la vorrebbe anche suocera di san Pietro), poi santa Maria Jacobé (un’altra “Maria del mare”) che per il beato Jacopo è la cugina della madre di Gesù (le reliquie delle Marie furono rivenute nella prima metà del secolo XV dai sovrani di Napoli alla presenza del legato pontificio) e dunque alcuni altri discepoli.
In patria la persecuzione era iniziata e fu così che quei primi cristiani vennero per supplizio imbarcati sopra un barcone senza né remi né vele giungendo miracolosamente salvi in Camargue. Secondo una versione del racconto, che Joachim riprende, al miracolo si sarebbe disposta la volontà di Claudia Procula, la moglie di Ponzio Pilato affascinata dai seguaci di Gesù (le Chiese ortodosse la venerano come santa), la quale, di origine narbonese, amica in Terrasanta di Marta e delle sorelle, forse affidò quel drappello alle cure di un marinaio che le conducesse.
Sia come sia, il nocciolo della questione è che a quel piccolo gruppo di spaesati viene fatto risalire l’inizio dell’evangelizzazione delle Gallie. Un’evangelizzazione difficile, tra pericoli, insidie, pagani e briganti. La storicizzazione del mito afferma che la Tarasque era in realtà un gruppo di sbandati della tribù dei Salii empi ma soprattutto furfanti che taglieggiava le zone: fa niente, il miracolo di santa Marta non è minore. Ed è di questo che esso parla. Di come Dio vinse il paganesimo attraverso la soavità e la preghiera della dolce Marta. Del resto in Camargue (terra di marinai il cui stemma è un’ancora-croce) tutto parla di questa vicenda fantasticamente vera. A Tarascona un mostro di pietra accanto al castello sul fiume ricorda il mondo della vita senza la vera fede e ovunque nelle chiese si venerano le Marie, la Maddalena, Lazzaro.
Joachim dedica il libro al filosofo cattolico francese René Girard (1923-2105), grande devoto di santa Marta di Betania, e dalla sua penna si sviluppa un racconto moderno, avvincente e accattivante. È la storia di come i primi discepoli portarono il cristianesimo in un angoletto di Europa senz’averne l’aria e di come da lì esso sia divampato come un incendio benefico. Fa bene tornare con la fede a rivisitare queste tradizioni: rende caldo, vissuto, tramesso il credere. Fa tornare a tempi perduti che vogliamo ritrovare.
Marco Respinti