Dialogo a distanza tra “L’aula vuota” di Ernesto Galli della Loggia e “L’appello” di Alessandro D’Avenia.
di Luca Finatti
In tempi di azzeramento della presenza scolastica, si sente spesso risuonare la frase: “Com’era bello andare a scuola!”, tra genitori, allievi e insegnanti, con il tono nostalgico di chi si accorge finalmente di un bene che forse non riteneva tale e che ora teme irrimediabilmente perduto.
Ma davvero la bellezza c’entra ancora con la scuola?
Scorrendo le numerose recenti pubblicazioni sulla decadenza dell’istituzione scolastica sembrerebbe proprio di no.
Ne è convinto Ernesto Galli della Loggia, storico ed editorialista del Corriere della Sera, che nel 2019 ha pubblicato un saggio con un titolo, letto oggi, quasi profetico: L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola.
L’autore ripercorre in modo sommario le tappe che hanno snaturato la riforma Gentile, unica finora capace di dare un’identità precisa alla scuola italiana, centrata sulla cultura umanistica, mentre i tentativi successivi non hanno prodotto nulla di altrettanto valido.
Prima l’indottrinamento ad opera dell’egemonia culturale del Partito Comunista Italiano, poi l’antiautoritarismo sessantottino e ora una visione liberal-progressista-europeista, che ha sistematicamente spostato l’attenzione dai contenuti alle ormai onnipresenti competenze, hanno condotto la scuola italiana ad inseguire ossessivamente un’ideologia dell’inclusivismo ad ogni costo, che disprezza il merito e non riesce a ottenere neppure grandi miglioramenti nelle competenze scientifiche e tecnologiche, nonostante la sbornia digitale con cui ci si sta illudendo d’innovare la didattica.
La scuola è brutta, secondo Galli della Loggia, perché ha rinunciato al suo compito fondamentale, quello di istruire e trasmettere la bellezza della conoscenza, che è tale se non è forzatamente finalizzata a uno scopo pratico: “bisogna intendersi se il compito primario dell’istruzione debba essere pressoché unicamente quello della preparazione al lavoro […] o se invece il significato e lo scopo della scuola stiano, come io credo, essenzialmente altrove. Cioè innanzitutto nell’impartire un quadro di cultura generale che serva a rendere ognuno consapevole della propria condizione umana in generale, del proprio passato, del contesto sociale e storico in cui si trova a vivere e che lo ha formato, del mondo che abita […] La scuola deve principalmente preparare alla vita, non al lavoro”1.
Purtroppo ciò è accaduto perché i primi attori scolastici, i docenti, non sanno più interpretare il proprio ruolo principale: “[…] la dimensione dell’autorità costituisce un che di ineliminabile dal rapporto docente-allievo e quindi dall’orizzonte della scuola. Lo sa bene qualunque bravo insegnante, il quale, ogni volta che fa lezione, sperimenta come il proprio sapere e la propria capacità di dargli voce possiedano l’intima forza di avvincere e di imporsi alla mente, e dunque anche all’animo, dei suoi allievi. […] Questa è l’autorità di cui la scuola vive e sulla quale si fonda. È l’autorità del sapere accumulato nel corso del tempo, incarnato in una persona che trasmette quello stesso sapere a coloro che ora si affacciano alla vita. Una persona che per ciò, e pur a dispetto di tutte le miserie che possono affliggere la sua quotidianità, diviene per i giovani quello che da sempre si chiama un «maestro»”2.
Coraggiosamente inoltre l’autore denuncia l’ipertrofia educativa dei progetti scolastici: educazione alla legalità, educazione stradale, educazione ecologica etc…, una parcellizzazione relativista che genera solo confusione invece che identità: “Sostituire «istruzione» con «educazione» è stato il segno anche simbolicamente più significativo della frattura avvenuta nella scuola in Italia come in molti altri paesi del nostro continente. Fino a quel momento, infatti, nel sentire comune dell’Occidente aveva dominato la convinzione che «istruirsi», cioè acquistare la conoscenza di alcuni saperi, equivalesse di per sé a essere immessi in un processo di acculturazione/civilizzazione”3.
Chi invece è convinto che a scuola ci sia poca e vera educazione, è Alessandro D’Avenia, che ha costruito su questo assunto il suo ultimo romanzo intitolato L’appello, un vero e proprio manifesto ai tempi della didattica a distanza.
“«Noi non siamo i loro genitori. Noi dobbiamo istruirli e basta» risponde secca Annamaria.
«E come possiamo riuscirci senza amarli»?
«Amarli ?»”4
Lo scrittore, nato a Palermo nel 1977, laureato in Lettere classiche con una tesi sull’Odissea, numerario dell’Opus Dei, cioè un laico che vive il celibato apostolico (“Il celibato è una scelta, a volte fare l’amore è dare una carezza”), insegnante al collegio San Carlo di Milano, ha esordito nel 2010 con un romanzo sentimental-scolastico di enorme successo: Bianca come il latte, rossa come il sangue5.
In questo decennio il giovane autore ha continuato ad alternare l’insegnamento alla scrittura di romanzi, articoli e saggi (L’arte di essere fragili6, dedicato a Leopardi, è il più interessante), sempre con un occhio di riguardo verso quei giovani con i quali non smette mai di dialogare attraverso il suo blog, i vari social ed incontri affollatissimi, dove colloquia amabilmente di scuola e talento, fede e passione per l’insegnamento.
Il protagonista del suo ultimo romanzo è un docente di Scienze, cieco, al quale viene affidata una classe di allievi demotivati che lui rivitalizza, grazie anche al modo particolare con cui fa l’appello: pone le mani sul volto di ciascun ragazzo, per coglierne col tatto speranze e paure, poi li lascia esprimere e ascolta le loro drammatiche vicende personali.
L’istruzione avviene solo dopo questa sorta di rito d’iniziazione che predispone la classe a una reciproca attenzione. Gli allievi sono costantemente invitati a collegare i misteri della natura alla propria storia, per inseguire, attraverso lo studio, le tracce vitali che li porteranno a scoprire e realizzare i desideri buoni, ancora embrionali nel loro animo, ma che l’insegnante farà crescere.
Nonostante l’interessante trama, non ci troviamo di fronte a un romanzo pienamente riuscito, non c’è sviluppo nella storia, i personaggi entrano in scena come a teatro e si raccontano, spesso in maniera verbosa e ripetitiva, anche perché sono un distillato di casi problematici, simboli del disagio adolescenziale contemporaneo più che personale.
Nel finale le loro voci s’impongono per promuovere una certa idea di scuola: “Insegnanti, docenti e professori si chiamano Maestri. Ogni Maestro deve possedere tre requisiti: Sapienza, cioè amare e conoscere ciò che insegna; Empatia, cioè amare e conoscere le persone a cui lo insegna; Passione, cioè trovare il modo di adattare ciò che insegna a chi lo insegna […] Sono aboliti i banchi. Ogni aula ha un tavolo ovale da 13 posti: ci si guarda in viso. Il Maestro non ha la cattedra, ma siede al tavolo o passeggia attorno ad esso. I supporti tecnologici sono: la parola, i libri, i quaderni, la penna (i cellulari sono spenti)”7.
Se l’urgenza della tesi da dimostrare va a scapito della godibilità romanzesca, D’Avenia ha il merito di suscitare riflessioni su che cosa potrebbe essere una scuola bella, una scuola cioè dove al centro c’è la relazione educativa: “[…] l’intelligenza ha un dinamismo complesso, in cui la parte che non curiamo è la più importante: come può una cosa che è dentro di me, insegnante, essere trasformata da te, studente, in qualcosa di tuo, di vitale per te, di necessario per te. Questo processo si chiama relazione: se non c’è, tutto il resto è puro addestramento che dura poco e annoia”8.
Dunque leggendo Galli della Loggia e D’Avenia, sembra che il problema principale della scuola sia quello di curare la crescente schizofrenia tra educazione ed istruzione, senza che un ambito oscuri ed escluda l’altro.
Complementari più che opposti, entrambi gli autori si trovano d’accordo su un punto, forse quello decisivo: aiutare gl’insegnanti a ritrovare il ruolo vacante del maestro, non come abito da indossare, ma come anima del proprio lavoro quotidiano.
In tempi sospesi come i nostri, bisognerebbe darsi ai classici e riscoprire così un grande pedagogista cattolico come Mario Casotti (1896-1975) che, riprendendo la lezione di s. Tommaso d’Aquino (1225-1274), seppe mostrare la bellezza dell’azione di tutta quella schiera di santi educatori cattolici raccolti nella definizione di “attivismo cristiano”,9 capace d’integrare educazione e istruzione senza complessi d’inferiorità verso le ideologie pedagogiche allora imperanti.
Scriveva infatti: “Il maestro assomiglia, in certo senso, al medico. […] Per agire sull’organismo fisiologico dell’ammalato, il medico deve anzitutto rispettarne le leggi costitutive, e la sua stessa azione di cura deve compiersi secondo quelle leggi; per agire sull’intelletto dello scolaro il maestro deve pure rispettarne le leggi (soprattutto in ciò che riguarda i rapporti fra esso intelletto e la sensibilità alla quale vengono offerti i segni del linguaggio) e l’azione del suo insegnamento non può compiersi che secondo quelle leggi”10.
Il maestro – medico cura l’anima se continua a credere che ci sia bellezza nel sapere e nella relazione che deve cercare d’instaurare con gli allievi, consapevole che “la bellezza non sta solo nella simmetria, nelle costanti, nell’armonia tra le parti. La bellezza è la sintesi imprevedibile di armonia e caos. Cadiamo nella vita come fiocchi di neve, uno diverso dall’altro, irripetibili, dotati di una immortalità le cui regole ci sfuggono”11.
Sabato, 27 marzo 2021
1 Ernesto Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, Venezia, 2020, pag. 26
2 Ibid., pag. 51
3 Ibid., pag. 145. Il tono apocalittico di questo saggio ha avuto il merito di accendere un dibattito fitto e radicale su alcuni temi di fondo, così com’era successo nel 2018, quando alcune di queste tesi erano state già avanzate in una lettera aperta, rivolta al Ministro dell’Istruzione Gualtiero Bassetti, appena insediatosi, testo sprezzantemente citato soprattutto per la restaurazione della predella sotto la cattedra, ma che in realtà contiene diversi altri spunti significativi e oggi ancor più attuali (ad esempio l’obbligo di pulizia delle aule da parte degli allievi, come in Giappone).
4 Alessandro D’Avenia, L’appello, Mondadori, 2020, pag. 173.
5 A. D’Avenia, Bianca come il latte, rossa come il sangue, Mondadori, Milano, 2010. Il romanzo ha avuto anche
una trasposizione cinematografica.
6 A. D’Avenia, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, Milano, 2016.
7 A. D’Avenia, L’appello, Mondadori, 2020, pag. 298-299.
8 Ibid., pag. 128
9 Mario Casotti, Scuola attiva, Società editrice La scuola, Brescia, 1937
10 M. Casotti, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell’educazione, Società editrice La scuola, Brescia, 1930, pag. 314
11 A. D’Avenia, L’appello, Mondadori, 2020, pag. 165.