di Valter Maccantelli
Lo scorso 16 agosto il Wall Street Journal titolava: “Il Presidente Trump guarda ad una nuova acquisizione immobiliare: la Groenlandia”, riferendo le voci, riprese poi anche dal Washington Post, secondo le quali Trump avrebbe chiesto ai suoi consiglieri di sondare la possibilità di comprare la Groenlandia. I commenti che ne sono seguiti vanno dall’ilarità di chi la legge come una boutade allo scandalo di chi vede nel gesto del Presidente un segno della sua percezione “da immobiliarista” delle nazioni e del mondo.
Premesso che, in questi termini, “l’affare” non ha alcuna speranza di successo, la notizia non va liquidata con la superba sufficienza ostentata dai soliti critici liberal nei confronti della (supposta) ingenuità dell’inquilino della Casa Bianca in politica estera.
Con il suo solito approccio molto “diretto”, Trump, in realtà, evidenzia il rinnovato interesse americano per gli assetti geopolitici della regione artica: una questione complessa e delicata, che è tornata di moda negli ultimi anni.
The Donald non è certo il primo (e non sarà neppure l’ultimo) presidente americano a considerare l’acquisto della più grande isola del pianeta, con un’estensione che è più di tre volte il Texas ma con la metà degli abitanti di Waco, coperta per l’80% da ghiacci spessi fino a 3 chilometri.
Il primo fu Andrew Johnson (1808-1875) che, nel 1868, incaricò, tramite il suo Segretario di Stato William H. Seward, l’ingegnere minerario Benjamin Mills Peirce di valutare le risorse presenti sull’isola al fine di fare una proposta alla Danimarca, la quale ne aveva ottenuto il possesso nel 1814 in seguito al trattato di Kiel. Il Segretario Seward non era nuovo ad operazioni del genere avendo negoziato per gli Stati Uniti l’acquisto, nel 1867, dell’Alaska dalla Russia dello Zar Alessandro II.
Quella proposta fu affossata dal Senato ma l’idea rimase sul tavolo fino al 1946 quando, sotto la presidenza di Harry Truman (1884-1972) e all’alba della Guerra Fredda, l’allora Segretario di Stato James F. Byrnes (1882-1972) offrì al Ministro degli Esteri danese, Gustav Rasmussen (1895-1953), 100 milioni di dollari per l’acquisizione della Groenlandia da parte degli USA. Anche in quel caso il governo danese declinò gentilmente la proposta.
Come A. Johnson e Truman prima di lui, Trump si trova oggi a dover riaffermare il dominio americano lungo il circolo polare artico, per completare il semicerchio che aprendosi in Alaska e passando per l’alleato Canada potrebbe chiudersi con l’annessione della Groenlandia.
L’importanza strategica della calotta polare è andata crescendo in tempi recenti di pari passo con la contrazione dei ghiacci che, in seguito alla fase di oggettiva de-glaciazione in corso, rende assai più navigabili le rotte del celeberrimo Passaggio a Nord Ovest e
Ricordiamoci che l’Artico non è un territorio bensì un mare, anche se ghiacciato. La sovranità sulle sue acque, i diritti di passaggio e l’estensione delle piattaforme continentali degli Stati costieri sono quindi regolati dal trattato di Montego Bay (1982), ratificato da quasi tutte le nazioni del mondo ma non dagli Stati uniti.
La possibilità di uno sfruttamento più agevole dei suoi spazi ha reso l’Artico una regione geopoliticamente contendibile e la Groenlandia, terra di nessuno dal punto di vista politico ma geograficamente associabile al quadrante nord americano, rappresenta una percentuale importante di questi spazi.
Gli attori di questa contesa, oltre agli USA, sono il Canada, che sul punto cerca una posizione autonoma rispetto all’ingombrante vicino, la Norvegia, che proietta le proprie ambizioni marittime fino al centro dell’Artico grazie al possesso delle isole Svalbard, e la Russia, che è storicamente la più preparata alla sfida grazie al secolare controllo della Siberia.
Molte analisi sul tema risentono ancora dei retaggi della Guerra Fredda e danno grande rilievo all’aspetto strategico-militare di questa contesa, identificando nella Russia il principale competitor degli USA per l’egemonia della regione. Se è pur vero che l’Artico è l’unico mare attraverso il quale le due nazioni si confrontano direttamente e che entrambe vi mantengono un forte dispositivo militare, non credo sia questo il motivo dell’interesse americano.
Non è neppure un guerra per le risorse, soprattutto da parte di Trump. Certamente nell’Artico vi sono risorse appetibili in termini di giacimenti di materie prime sia energetiche che minerarie, ma la difficoltà di fruizione e i bassi livelli di prezzo odierni rendono tali asset più che futuribili. Nel mondo c’è di meglio e a minor costo.
Il vero convitato di pietra alla partita dell’Artico, di cui la Groenlandia è una pedina importante, abita molto più a sud, ed è la Cina e le poste in gioco non sono le basi missilistiche o i giacimenti di greggio, di uranio o di terre rare, ma il controllo delle rotte commerciali marittime.
La nuova “guerra fredda” si combatte in questi mesi fra Stati Uniti e Cina. E’ una guerra combattuta con armi prevalentemente economico-commerciali, su campi di battaglia digitali, da soldati in giacca e cravatta. Ma è pur sempre una guerra nella quale Pechino corre – oramai in evidente debito di ossigeno – per raggiungere la posizione di superpotenza e scongiurare così un’implosione più che probabile a causa delle sue enormi contraddizioni interne.
Washington, per contro, cerca di sbarrarle la strada spezzandone il ritmo di crescita con i dazi e l’embargo tecnologico, nonché accerchiandola con una catena di alleanze politiche e militari nell’indo-pacifico al fine di inibire alle merci cinesi le rotte dei mari caldi verso l’Europa, l’Africa e il resto del mondo.
Viste le alterne e problematiche vicissitudini dei corridoi meridionali del progetto Belt and Road Initiative (BRI) – o, come le chiamiamo noi, “Le Nuove Vie della Seta” – la Cina cerca di sfuggire all’accerchiamento nei mari caldi mediante l’apertura di nuove rotte in quelli freddi.
Le rotte artiche che si allungano lungo le coste siberiane e, dopo la svolta attorno a Capo Nord e alla Norvegia, entrano nell’Atlantico attraverso il famoso gap GIUK (sigla che sta appunto per Groenlandia, Islanda e Regno Unito) non solo rappresentano un’alternativa dal punto di vista geopolitico ma consentono anche un enorme risparmio economico. E questo vale per la Cina e per tutto l’estremo Oriente. Passando a nord una nave portacontainer destinata a Rotterdam risparmia, rispetto alla tradizionale rotta meridionale, il 37% della corsa se parte dal porto giapponese di Yokohama, il 29 % se parte da quello sudcoreano di Busan e il 24 % da quello cinese di Shangai.
Le rotte commerciali e marittime sono, però, tali se sono presidiate e sicure; necessitano di essere supportate da una logistica di terra fatta di porti amici, di basi militari di presidio, diritti di passaggio sicuro in mari interni di paesi alleati o comunque disponibili.
Per ottenere tutto questo Xi Jinping non punta sulla potenza militare – anche se la Cina sta comunque costruendo la marina militare oceanica che le è sempre mancata – ma su strumenti di soft-power, principalmente investimenti in paesi affamati di infrastrutture. Negli ultimi anni ha stretto un’alleanza significativa con la Russia, spinta ad est dall’ostracismo occidentale, investendo decine di miliardi di dollari all’anno nei porti russo-siberiani; fa regolarmente shopping di porti e slot logistici in tutta Europa; si è offerta di ricostruire quattro aeroporti, tre porti e due autostrade in Groenlandia, cosa che la Danimarca, sua tutrice formale, non può neanche permettersi di sognare.
Trump, come ciascuno dei suoi predecessori e successori, sa di dover difendere il dominio americano sui mari a sud come a nord, che rappresenta, insieme alla sua inarrivabile potenza militare, il blasone più significativo del potere imperiale a stelle e strisce. E’ questa la ragione per la quale, se mai la Groenlandia fosse in vendita, visto da Pennsylvania Avenue, il suo acquisto sarebbe davvero un ottimo affare.
Martedì, 20 agosto 2019