Spunti di riflessione sull’identità di un popolo, guardando la serie tv Shtisel
di Luca Finatti
“Noi dovremmo essere più chiaramente identificabili, avremmo bisogno di chiari contrassegni sociologici per rafforzare la nostra identità e la nostra fedeltà”.[1]
Scrive così S. Em. Card. George Pell nelle sue meditazioni in carcere a proposito del futuro del cattolicesimo. Riprendendo poi questo argomento in una recente conferenza organizzata da Alleanza Cattolica, il cardinale ha specificato che non pensava soltanto alla Santa Messa domenicale o ai servizi caritativi, ma anche ad altri gesti, come l’astinenza dalle carni il venerdì, le processioni, la presenza di immagini sacre nelle case, cioè segni pubblici della propria fede perché “Gesù è il figlio di Dio diventato uomo, carne, la Chiesa si deve incarnare nei momenti più importanti, ma anche in quelli meno importanti”.[2]
Queste parole incoraggianti possono spiegare, meglio di ogni altra analisi, l’inaspettato successo di una serie tv come Shtisel, dove un’identità comunitaria forte, temprata da una tradizione religiosa millenaria, viene strenuamente preservata, suscitando probabilmente negli spettatori la nostalgia di un ideale trascurato.
Infatti il titolo si riferisce al cognome della famiglia ebraica Ortodossa protagonista, abitante nel quartiere di Geula a Gerusalemme, composta dall’anziano Shulem, vedovo, padre di due femmine e due maschi; il più giovane, Akiva, trentenne, abita ancora con lui, mentre gli altri sono sposati e hanno avuto molti bambini.
All’inizio la serie può incuriosire per lo sguardo esotico posato sul mondo misterioso dell’Ortodossia ebraica, che marca il territorio con evidenti segni di riconoscibilità, ricavati da indicazioni letterali della Torah – i primi cinque libri della Bibbia – oppure da autorevoli interpretazioni: proibita la televisione, limitato l’uso di internet e del cellulare, matrimoni combinati da un mediatore che abbina i promessi sposi; gli abiti come un’uniforme: gli uomini sempre vestiti con cappotti neri (sirtuk), i riccioli (payot) sulle basette, lunghe barbe e cappello; le donne con una parrucca, gonne sotto il ginocchio e vestiti dimessi, per sottolineare il valore della modestia (tzniut); il cibo kosher (conforme cioè alle regole della Torah). Insieme alla mezuzah, posta sugli stipiti delle porte delle case e toccata quando si varca la soglia, queste sono tutte consuetudini rituali di memoria della presenza di Dio, che scandiscono la giornata in modo quasi ossessivo, ma che la recitazione eccellente degli attori e la sceneggiatura partecipe dei due autori ebrei, nati in famiglie Ortodosse, rendono invece naturali, invitando lo spettatore a entrare in casa Shtisel per condividerne aspirazioni e timori. Infatti, una volta entrati, sarà difficile uscirne e verrà il desiderio di approfondire le origini di questo gruppo sociale.
L’Ortodossia è la corrente dell’ebraismo moderno che si oppone alle altre due principali, i Riformati e i Conservatori, denunciando i pericoli dell’emancipazione e condannando soprattutto i Riformati come eretici.
“Originariamente non si tratta tanto di un movimento organizzato, quanto di un’opposizione istintiva alle pratiche di chi rifiuta le tradizionali prescrizioni dietetiche kosher, propone servizi religiosi nella lingua del paese dove gli ebrei si trovano anziché in ebraico, contesta l’uso dello yiddish e abolisce la segregazione fra uomini e donne nelle sinagoghe. Originariamente l’appellativo di «ortodossi» è conferito dai Riformati ai loro oppositori, non senza un significato spregiativo. Dopo iniziali perplessità, è adottato con orgoglio da coloro che intendono conservare l’attaccamento non solo alla Torah (e alla dottrina della sua origine rivelata e divina) ma anche al Talmud”.[3]
All’interno dell’Ortodossia però vi sono diverse tradizioni, legate a figure carismatiche di rabbini o a posizioni politiche di contestazione del Sionismo.
Oggi si utilizza il termine di ebraismo haredì (letteralmente “timorati di Dio”) al posto della definizione “ultraortodosso”, pure molto diffusa, ma considerata dagli studiosi fuorviante o peggiorativa, per indicare un insieme di movimenti a volte in conflitto tra loro, nonostante la comune volontà di applicare rigorosamente le prescrizioni della Torah.
Chi ha letto I racconti dei Chassidim[4] di Martin Buber (1878-1965) avrà presente l’afflato mistico e l’esaltazione del carisma personale, che impregnano la fede dei chassidim, uno dei movimenti haredì più famosi.
In Shtisel invece si sottolinea soprattutto l’amore per lo studio nelle yeshivot (seminari religiosi), l’applicazione rigorosa dell’halakhah nei dettagli minimi della quotidianità, ma anche un certo pragmatismo in questioni etiche delicate, come quando, a un certo punto della serie, ci si interroga sulla liceità della cosiddetta maternità surrogata e il rabbino non sa dare una risposta chiara, lasciando libertà di scelta all’interlocutore.
La famiglia Shtisel appartiene agli haredì detti yeshivish, avversari storici dei chassidim, perché hanno sempre preferito enfatizzare gli aspetti intellettuali della vita ebraica.
La serie tv in realtà lascia sullo sfondo le questioni politiche e religiose, per focalizzarsi piuttosto sull’interiorità dei personaggi, alle prese con i dilemmi quotidiani, spesso risolti attraverso compromessi precari fra il rispetto della tradizione e l’incalzante pressione della modernità.
I temi principali sono già ben evidenziati dalla splendida sigla: padre e figlio camminano, ognuno per conto proprio, per le vie del quartiere, ripreso in una luce calda, con panni stesi svolazzanti e folla per le strade; il padre fuma e ha uno sguardo indagatorio, un incedere autorevole; il figlio invece è svagato, sembra un bambino e ha in mano un quaderno per i suoi schizzi, che perde per strada. Alla fine i due s’incontrano e il padre dà una pacca sulla spalla del figlio. Una sobria conflittualità attraversa tutte le puntate: Akiva tarda a sistemarsi con un buon matrimonio, dominato dalla passione per la pittura; non desidera la carriera da rabbino e vorrebbe scegliere la sposa senza mediatori. Timidissimo, non riesce quasi mai ad affrontare il padre direttamente e ne patisce l’atteggiamento autoritario.
Un altro tema centrale è proprio quello dell’arte come dono insopprimibile che richiede libertà di spirito per Akiva e la sua immaginazione poetica, schernita e incompresa in famiglia, ma che lo spingerà a uscire dal suo ambiente per incontrare un gallerista d’arte e ottenere così un po’ di successo. La bellezza autentica rivela il rischio del legalismo, aiutando Akiva a conciliare il rispetto della propria identità religiosa e la vocazione artistica, in una visione morale più intima, capace di comprendere anche chi è lontano dal proprio mondo.
Sullo sfondo di questa vicenda c’è sicuramente il tormento di Asher Lev, protagonista di un famoso romanzo ambientato in una comunità chassidica di New York: “Se Tu non vuoi che io usi questo dono, perché me lo hai dato? O è venuto dall’Altra Parte? […] Come possono il male e l’abiezione creare un dono di bellezza?”.[5]
Un terzo tema significativo è l’intraprendenza delle donne: Giti, abbandonata dal marito, lo riaccoglie quando lui torna, pentito, vincendo a poco a poco il risentimento e coinvolgendolo nell’attività di ristorazione che ha saputo avviare.
Sua figlia Ruchami si occupa responsabilmente della famiglia quando il padre sparisce; sarà lei, caparbia, a scegliere il marito e a fuggire di casa pur di sposarlo.
Eliesheva, vedova due volte, ha il coraggio di abbandonare la sua famiglia e il quartiere dove si sente marchiata da una maledizione; Racheli gestisce un fondo d’investimento per il quale acquista quadri, vive sola, non appartiene all’Ortodossia, ma sa avvicinarsi con discrezione e rispetto al mondo di Akiva.
Molte altre donne popolano la storia, conquistando spazi di autonomia, nonostante i molti sacrifici richiesti dalla loro condizione di subordinazione all’autorità del marito, più formale che reale, accettata però senza rivendicazioni rancorose.
Insomma, se la volontà degli sceneggiatori è chiaramente quella di smentire i molti stereotipi con cui spesso viene presentata questa significativa parte dell’ebraismo moderno, lo stile realistico adottato dagli autori, intriso di affettuoso umorismo verso tutti i personaggi, permette di confezionare un racconto magnifico, pieno di sfumature, mai scontato, che invita lo spettatore a riflettere su temi universali, attraverso l’originale punto di vista di questa strana gente.
Infine, se la serie non si sofferma sulla rappresentazione delle funzioni o delle feste religiose comunitarie, è evidente un fervore diffuso, attraverso sequenze di preghiera personale oppure di famigliarità con i morti, presenti in sogni e allucinazioni.
Se si avrà la costanza di arrivare all’ultima puntata, nonostante i sottotitoli in italiano – poiché la serie è disponibile su Netflix solo in originale yiddish –, si potrà forse percepire il soffio dello Spirito che aleggia tra i personaggi, regalando un finale che è un inno alla vita, anche quella soprannaturale, e alla speranza.
Sabato, 17 luglio 2021
[1] George Pell, Diario di Prigionia. Volume 1. L’Appello. 27 febbraio – 13 luglio 2019, trad. it., Cantagalli, Siena 2021, p. 279.
[2] Diario di prigionia – Alleanza Cattolica incontra il card. George Pell, webinar organizzato da Alleanza Cattolica, 21/5/2021. Si veda in particolare da 45’ 20” a 53’ 10”.
[3] Massimo Introvigne – J. Gordon Melton, L’ebraismo moderno, Elledici, Torino 2004, p. 45.
[4] Cfr. Martin Buber, I racconti dei Chassidim, trad. it., Garzanti, Milano 1979.
[5] Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev, trad. it., Garzanti, Milano 2011, p. 107. Chaim Potok (1929-2002) ha scritto molti romanzi ambientati nella comunità chassidica newyorkese, il più famoso dei quali, del 1967, è Danny l’eletto (trad. it., Garzanti, Milano 1969), da cui – nel 1981 – è stato tratto un film interessante, diretto da Jeremy Kagan: Gli eletti (The Chosen).