Nacque a Cremona nel 1375 e morì a Bergamo nel 1437. Entrò presto nell’ordine dei frati francescani conventuali e mostrò una singolare unione di pietà e di dottrina. Fu così nominato nel 1403, a soli ventotto anni, vescovo di Bergamo. In tale veste partecipò autorevolmente al concilio di Costanza (1414-1418). Tra le sue numerose opere sono da annoverare trattati filosofici e teologici, commenti scritturali, raccolte di sermoni: in esse si possono leggere i frutti di una dottrina vasta e profonda e di uno zelo pastorale meditato e fondato. In quei tempi la Chiesa stava attraversando una delle sue crisi più lunghe e più gravi: basti dire che dal 1378 essa era lacerata da uno scisma, divisa com’era nell’obbedienza a due diversi pontefici, e addirittura a tre dopo il concilio di Pisa. Proprio il concilio di Costanza riuscì faticosamente a ricomporre l’unità ecclesiale con l’elezione di Martino V [1417-1431], manifestando però anche pericolose tendenze nell’affermazione di un ruolo del concilio superiore a quello del papato e un certo incoraggiamento all’autonomia di chiese “nazionali” controllate dai crescenti poteri degli stati. È vero che con la ripresa del prestigio del papato le tendenze più pericolose furono rapidamente superate, non senza lasciare qualche strascico negativo. Ed erano anche i tempi in cui l’eresia di Jan Hus [1371-1415], quasi precursore di Martin Lutero [1483-1516], minacciava concretamente l’unità dell’Europa cristiana. Ora, se nonostante ciò il popolo rimaneva profondamente radicato nella fede, nelle pratiche, nei costumi cattolici, lo si dovette pure a pastori come il beato Francesco Aregazzi, né puro intellettuale, né puro “attivista” della pastorale. E anche a pastori come lui Bergamo e la sua diocesi devono, quasi per un patrimonio accumulato nei secoli, la loro ancora radicata e ammirata fedeltà alla religione cattolica.
Cammei di santità. Tra memoria e attesa,
Pacini, Pisa 2005, pp. 14-15
Mercoledì, 5 giugno 2019