Lo sfondo teologico del messaggio di Papa Francesco all’Angelus del 23 luglio è la parabola della zizzania (cfr. Mt 13, 24-43), pagina evangelica della XVI domenica del Tempo ordinario secondo il rito romano. L’argomento non è solo l’antica domanda “Se c’è Dio, perché il male?”, ma anche la “premura”, che assale spesso i buoni, di vedere all’opera la giustizia divina. Dio semina esclusivamente grano buono, tuttavia il Nemico non smette di avere seguaci e la storia rimane contaminata dalla presenza del male, seppure sconfitto in radice nel Mistero pasquale.
Il Pontefice sottolinea come il Vangelo inviti al «[…] difficile esercizio del discernimento tra il bene e il male» un uomo che non può mai estraniarsi da questi meccanismi. Per il credente, infatti, il pungolo della concupiscenza è il dramma di tutti i giorni. Quando il Papa invita ‒ provocatoriamente ‒ gli uomini senza peccato ad alzare le mani, si rivedono, come prevedibile, le stesse espressioni che compaiono dell’episodio dell’adultera (cfr. Gv 8,1-11). «Guardare sempre e soltanto il male che sta fuori di noi significa non voler riconoscere il peccato che c’è anche in noi», dice il Papa, ma la Pasqua ha introdotto una novità: «Gesù Cristo, con la sua morte in croce e la sua risurrezione, ci ha liberato dalla schiavitù del peccato e ci dà la grazia di camminare in una vita nuova», che comincia con il Battesimo.
I redenti sono attraversati da due tentazioni speculari. La prima è il rigorismo, che enuncia la regola e pretende un adeguamento totale e immediato, senza rispettare il cammino personale del prossimo. La seconda è l’accontentarsi di un adeguamento formale, minimale, tralasciando una conversione più profonda. Certamente «[…] Gesù ci dice che in questo mondo il bene e il male sono talmente intrecciati, che è impossibile separarli ed estirpare tutto il male». Tutte le volte che l’uomo ha provato a farlo mediante la violenza, molti buoni sono stati scandalizzati e altri mali sono stati prodotti.
Al singolo spetta dunque semplicemente, come ricorda il rituale del Battesimo, «[…] prendere le distanze dal maligno e dalle sue seduzioni». Il compito di giudicare compiutamente è invece di Dio. Molti credenti non riescono però a sopportare il reticulum mixtum, ovvero il dipanarsi della pazienza di Dio, che lascia sopravvivere il malvagio attendendone la conversione. «La pazienza», afferma il santo Padre, «significa preferire una Chiesa che è lievito nella pasta, che non teme di sporcarsi le mani lavando i panni dei suoi figli, piuttosto che una Chiesa di “puri”, che pretende di giudicare prima del tempo chi sta nel Regno di Dio e chi no».
È una dichiarata presa di distanza dalle tendenze “neogianseniste” che si osservano negli ambienti cattolici più ostili alla predicazione sulla misericordia. Il giansenismo è un’eresia, condannata dalla Santa Sede nel 1713; diffusasi soprattutto in Francia nei secoli XVII e XVIII, fu contrassegnata da una visione molto pessimistica delle possibilità dell’uomo di sormontare la concupiscenza. Si risolse dunque in una sostanziale sfiducia nella Grazia divina, che aprì nei cuori le porte al laicismo illuminista. I gesuiti dell’epoca contrapposero a esso la certezza della dottrina sul peccato originale: benché condizionante, esso non ha leso irreparabilmente la capacità di bene dell’uomo, soprattutto se coadiuvata dai Sacramenti. Anche i giansenisti del secolo XXI dimenticano spesso la condizione “mista” dell’uomo e, come nel Seicento, spingono a limitare drasticamente la ricezione dei Sacramenti. Con sant’Ambrogio (339/340-397), però, la Chiesa ricorda che l’Eucaristia non è solo Pane dei forti, ma anche Medicina dei deboli: «Se vuoi curare le ferite, Egli è il medico.
Se sei riarso dalla febbre, Egli è la fontana. Se sei oppresso dal peccato, Egli è la santità» (De Virginitate 16, 99).