Da Avvenire del 14/05/2021
L’accusa è gravissima. Ed esplicita. Le politiche messe in atto dalla Cina nella regione autonoma dello Xinjiang sono assimilabili a ‘un atto di genocidio’. Un’azione tanto più pervasiva e capillare perché “giocata” sul controllo delle nascite. Con il risultato – si legge nello studio pubblicato dall’Australian Strategic Policy Institute (Aspi) – di un crollo «senza precedenti» delle nascite, che si sono quasi dimezzate tra il 2017 e il 2019 tra i membri dell’etnia turcofona degli uighuri. Il tasso di natalità è calato del 48,74%, come frutto di una campagna – portata avanti, secondo i ricercatori australiani, a colpi di multe, sanzioni disciplinari, internamento extragiudiziale – contro le «nascite illegali» che aveva come obiettivo quello di «ridurre e stabilizzare» il livello di nascite tra le minoranze dello Xinjiang.
Una politica che si colloca, secondo gli autori dello studio, nel cuore della politica di controllo cinese nella regione, una politica basata sulla cancellazione della cultura e della religione locale, sul massiccio ricorso al lavoro forzato, sulla creazione di centri di internamento.
«La nostra analisi accresce un precedente lavoro e fornisce una prova convincente che le politiche del go- verno cinese nello Xinjiang possano costituire un atto di genocidio», sostengono gli studiosi, precisando che saranno necessarie ulteriori ricerche per «stabilire le intenzioni e l’elemento mentale di questo crimine», in base alla Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite del 1948. Il rapporto dell’Aspi «inventa i dati e distorce i fatti», è stata la replica di Pechino, affidata al portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying.
Il pugno di ferro cinese colpisce si abbatte anche sulla sfera religiosa. Secondo una ricerca dell’Uyghur Human Rights Project, dal 2014 ad oggi la Cina avrebbe messo in carcere almeno 630 imam e altre figure religiose musulmane nella regione. Molti dei religiosi arrestati sono stati accusati di «propaganda estremista», «chiamata a raccolta di folla per disturbare l’ordine sociale» e «incitamento al separatismo». Secondo le testimonianze dei familiari dei religiosi, le loro vere colpe sono la predicazione o la convocazione di gruppi di preghiera. Tra i 630 esponenti religiosi, almeno 304 sarebbero stati mandati in prigione, e non nei campi di rieducazione, il 96% è stato condannato ad almeno cinque anni e il 26% a 20 anni o più, inclusi 14 ergastoli. Il presidente della Xinjiang Islamic Association ha però “assolto” la Cina, parlando di menzogne.
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