Di Valter Maccantelli
Nei giorni scorsi, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Yemen, Barhain, Egitto, governo della Libia orientale (quello non riconosciuto dall’ONU) e Maldive hanno comunicato ufficialmente di aver rotto ogni relazione, diplomatica e non, con il Qatar. Già nel 2014 avevamo assistito a qualcosa di simile: Arabia Saudita, EAU e Bahrein avevano richiamato gli ambasciatori da Doha (capitale del Qatar), ma la crisi si era ricomposta dopo soli otto mesi. Qui si va molto oltre. L’Arabia Saudita ha chiuso la frontiera terrestre, l’unica che collega il Qatar al resto del mondo; gli altri Paesi aderenti al bando hanno annunciato di voler cessare ogni collegamento aereo e marittimo con l’emirato rivierasco del Golfo; ai diplomatici e ai funzionari d’ambasciata qatarioti è stato dato un ultimatum di 48 ore per lasciare i Paesi ospitanti.
Una crisi senza precedenti in Medio Oriente, anche tenendo conto che il Qatar appartiene dal 1981, insieme ad Arabia Saudita, Bahrein, EAU, Kuwait e Oman, al Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) – il principale organismo di cooperazione del Golfo Persico – e ospita una delle più grandi basi USA nel Medio Oriente (al-Udeid, sede del comando americano regionale e posto di vedetta privilegiato verso l’Iran). Oltre a questo il Qatar è la sede di al-Jazeera, la più nota emittente televisiva in lingua araba del mondo, che tramite il suo fondo sovrano investe cifre enormi ovunque possibile e ospiterà la fase finale del Campionato del Mondo di calcio 2022. Quindi non esattamente un paria della comunità internazionale.
Cominciano a giungere le prime reazioni e conseguenze: la borsa di Doha è in caduta libera e le cronache riferiscono di supermercati presi d’assalto per timore che l’isolamento geografico, specialmente in un Paese che dipende totalmente dalle importazioni, produca scarsità di generi alimentari.
Per gli osservatori più attenti la notizia non giunge completamente inattesa: già da alcune settimane i media regionali avevano lanciato una pesante campagna di accuse contro il Qatar e la politica del suo giovane monarca Tamin Bin Hamad al-Thani. Quello che stupisce è la durezza e l’estensione (pensiamo alle Maldive!) della frattura.
La motivazione ufficiale del gesto riguarda il sostegno che il Qatar avrebbe fornito, in complicità con l’Iran, a organizzazioni terroristiche che agirebbero con il sostegno di Teheran: vengono citati i Fratelli Musulmani, al-Qaida, ISIS/Daesh, Jabhat Fatah al Sham (ex al-Nusra), i ribelli Houthi dello Yemen. La causa prossima sono alcune dichiarazioni di al-Thani, trapelate sulla stampa nelle scorse settimane in seguito a una presunta operazione di hackeraggio, che evidenzierebbero un sostegno del Qatar alla politica iraniana di destabilizzazione della regione in chiave anti-saudita.
Senza troppo cedere a tentazioni dietrologiche è palese che tali motivazioni ufficiali non sembrano sufficienti a spiegare realisticamente questa crisi. Ognuno dei Paesi che hanno preso l’iniziativa ha molte altre ragioni per avercela con il Qatar; e comunque la si pensi sull’Iran sciita, sembra difficile attribuire a esso la sponsorizzazione di organizzazioni terroristiche tutte di appartenenza sunnita. Se, come è probabile, il Qatar ha dato un sostegno a tali soggetti, è poco probabile che lo abbia fatto in combutta con il regime degli ayatollah ed è comunque in buona compagnia di sauditi, egiziani, turchi, statunitensi ed europei che hanno inondato di armi e denaro la Siria per contrastare il regime di Bashar al-Assad. Per contro, fonti ufficiali di Doha hanno ripetutamente smentito l’autenticità delle fughe di notizie dei giorni scorsi. Dietro e oltre questa cortina fumogena si cela molto altro.
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