Di Mariolina Ceriotti Migliarese da Avvenire del 07/05/2020
Che cosa ha a che fare la fede con l’alfabeto degli affetti? Il fatto è che la fede, quella vera, ha a che fare con tutto: con gli affetti, con il pensiero, con la vita. In questo periodo così strano, l’impossibilità di frequentare i sacramenti e la Messa pongono il popolo cristiano davanti a una situazione inedita, che apre diversi interrogativi. Nella discussione che si è aperta su molti media, mi ha fatto riflettere in modo particolare un commento che ho intravisto su Facebook; una persona che conosco, lontana dalla fede ma non ostile in modo pregiudiziale, scrive: perché i cristiani non possono rinunciare per un po’ ai loro riti in vista della salute di tutti e del bene comune?
Mi sembra che questa domanda esprima molto bene la generale sottovalutazione di ciò che i credenti pongono invece come una questione cruciale, e che sia la logica conseguenza proprio di questo pensiero: che l’Eucarestia cioè sia per noi ‘un rito’. Un rito certamente importante, rispettabile, dotato di un forte valore simbolico e identitario, ma come tutti i riti certo non indispensabile in tempo di crisi, perché la vita concreta viene prima di ogni rito, sia pure importante. Ma davvero quello che ci manca è un rito? Un rito bellissimo, profondo, pieno di significati simbolici, ricco di valore identitario? È di questo che si tratta?
Credo che rispondere a questa domanda sia importante, perché la questione mette in luce quanto profonda e diffusa sia oggi l’incomprensione sul significato vero della fede.
Noi dovremmo rispondere: no, non si tratta solo di un rito, né della semplice memoria di un antico evento, perché nel Sacramento esprimiamo la certezza di incontrare Qualcuno.
La fede per noi è credere che nell’Eucaristia incontriamo una Persona viva, concreta e tangibile: la Persona del Risorto. La fede ci dice che non si tratta di un incontro simbolico, ma di un incontro che ha la stessa consistenza e realtà di un abbraccio, l’incontro con una Persona amata e che ci ama. Noi crediamo in una Presenza concreta, e andiamo con gioia a incontrare concretamente (non simbolicamente) Qualcuno che amiamo.
Ma se crediamo e affermiamo questo apertamente e con semplicità, si fa improvvisamente evidente anche per noi qualcosa che di solito non riusciamo a percepire in tutta la sua vera portata e che spesso non consideriamo fino in fondo, con tutte le conseguenze che potrebbe comportare: che la fede nel Cristo crocifisso, risorto e sempre presente rappresenta a tutti gli effetti un vero salto logico, un salto in un’altra dimensione, qualcosa di incredibile e di veramente inaudito.
Qualcosa che rasenta la follia, ma che può cambiare davvero la vita.
Questa è stata la meraviglia e la durezza del messaggio cristiano fino dalle origini: l’ingresso concreto, fisico di Dio nel nostro mondo. La presenza di Dio con un corpo che tocca, accarezza, ama, soffre, muore. Un Dio morto e risorto che non è altrove, ma rimane con noi e continua a toccare, accarezzare, amare; continua a soffrire con chi soffre e a morire con chi muore.
La nostra è una religione che mette al centro la concretezza del corpo, che dà valore alla concretezza del gesto. Il cristiano non vive di simboli, ma di una realtà più vera e reale di ogni altra realtà contingente. Lo crediamo ancora davvero? Forse questa impossibilità di partecipare all’Eucaristia non lede solo il sacrosanto principio della nostra libertà di culto, ma costituisce una ferita capace anche di aprire una strada. Una ferita che può trasformarsi in un’occasione preziosa: quella di uscire da una fede addomesticata, che ha perso la sua meraviglia e la sua durezza, per ritrovare il suo essere insieme stoltezza, scandalo, gioia e possibilità. Quella che ci permette di avere lo sguardo libero di chi non ha bisogno di arroccarsi o di difendersi, ma vive piuttosto ogni circostanza come una nuova opportunità: quella di partecipare giorno dopo giorno all’eterno creare di Dio.
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