I giuristi del Centro studi Livatino: una legge che capovolge il nostro sistema giuridico
«Per la prima volta nel nostro ordinamento si afferma in modo esplicito il principio della disponibilità della vita umana»: è questo «il più evidente dato di assoluta gravità di questa legge» secondo la valutazione tecnica del Centro studi Livatino, pool di giuristi che in uno studio di 12 pagine mette in luce errori, ambiguità e conseguenze di una legge con la quale si opera «un capovolgimento di prospettiva, che avrà ricadute pesanti per il medico e per l’intero sistema giuridico».
La «nota riassuntiva» del «Livatino» (consultabile integralmente tramite Avvenire.it)mette in evidenza che «la legge è fortemente voluta» perché «funzionale allo scopo di introdurre nell’ordinamento il principio che la vita è un bene disponibile » tanto che «nel contrasto fra le norme di questa legge e le norme del codice deontologico è ovvio che prevarranno le prime». Il punto più dolente è che il testo sul quale il Senato voterà da martedì «pur non adoperando mai il termine eutanasia ha un contenuto nella sostanza eutanasico ». Infatti la versione approvata alla Camera «parla di ‘tutela del diritto alla vita e del diritto alla salute’, cui affianca – a conferire il medesimo rilievo – il diritto ‘alla dignità e all’autodeterminazione della persona’, conferendo così da subito al bene vita il carattere di diritto disponibile».
All’articolo 1 comma 5 la legge precisa che il paziente può esprimere «la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza », un dato che «oltre a essere gravissimo in sé e a incidere sui fondamenti della deontologia medica, fa chiedere perché altri beni, oggettivamente meno rilevanti della vita, devono restare indisponibili: dalla salute alla libertà, fino alle ferie, che ogni lavoratore è tenuto a svolgere senza che ne possa proporre la commutazione in indennità aggiuntive».
Un altro punto critico è la nutrizione, il cui «carattere artificiale», evidenzia lo studio, «si presenta in svariate occasioni, per esempio con il latte ricostituito per i neonati che non possono essere allattati dalla mamma per via naturale. Nessuno sostiene che la nutrizione in questi casi vada sospesa in quanto artificiale: qual è allora la differenza rispetto a un paziente che non può nutrirsi per via orale? È evidente che il discrimine è la qualità della vita, che diventa decisiva per la sua sopravvivenza». Visto che «la nutrizione e l’idratazione costituiscono sostegni indispensabili alla vita, tanto della persona sana quanto dell’ammalato », di certo «non perdono la loro essenza quando il mezzo della loro attuazione non è quello ordinario», senza dimenticare che la loro interruzione «conduce alla morte della persona tra atroci sofferenze». Per evitarle «si ricorre abitualmente alla sedazione profonda» ma ciò «obbligail medico a contribuire attivamente alla morte del paziente con un atto che diventa di eutanasia attiva ». A rendere più allarmante il quadro c’è il fatto che «le Dat non prevedono obiezione di coscienza », e l’espressione inserita – «il medico non ha obblighi professionali» – è «così generica» che «rende la tutela del tutto evanescente».
Interessante anche l’analisi sul consenso al trattamento sanitario, che «andrà reso per legge in modo esplicito. Poiché però la legge è inserita in un ordinamento nel quale sulla materia si è formata una certa giurisprudenza – quella sul caso di Eluana Englaro, giunto fino alla Cassazione e alla Corte costituzionale – come evitare che per via giudiziaria non sia fatto valere pure il consensopresunto?».Alla professione medica e a come la legge ne «stravolge il senso e il profilo» è dedicata la parte più ampia del documento, che mette in evidenza come per effetto del biotestamento «il medico diventa un soggetto da cui difendersi» visto che «se non eseguirà alla lettera le disposizioni di volontà del paziente sul trattamento sanitario elaborate un mese, un anno o dieci anni prima, sarà considerato » come «un soggetto che limita l’altrui libertà, qualcuno dal quale il paziente deve difendersi più che fidarsi». Dunque il professionista sarà «costantemente bisognoso dell’avvocato» anche perché «diventa per legge esecutore di reati e/o di illeciti civili» e «sempre più soggetto a denunce o ad azioni di danno». Non solo: «Il medico diventa sempre meno credibile» visto che «l’incertezza e la confusione su quel che gli viene richiesto lo indurranno ancora di più ad adeguare le opzioni professionali alla soluzione più facile, quella che tiene più lontane l’azione risarcitoria, o la denuncia, o il procedimento disciplinare». Il risultato sarà «l’estensione dei casi di concreto abbandono del paziente e, per chi vuole illudersi spinto dalla disperazione, l’incremento del ricorso ai più pericolosi venditori di fumo». E a chi sostiene che le Dat fermeranno l’accanimento terapeutico il «Livatino» replica che «chiunque frequenta un reparto ospedaliero con patologie serie per stare accanto al familiare o all’amico ricoverato, sa che non vi è una prassi di moltiplicazione di cure sproporzionate. Se mai inizia a manifestarsi la tendenza contraria». E già oggi «quando la prognosi è infausta ma si è in presenza di sofferenze acute la medicina ha i mezzi per non abbandonare il campo: deontologia e senso di umanità impongono di intensificare la terapia del dolore». E allora, perché insistere nel definire equilibrate e attese norme che invece, come sostiene il «Livatino», sembrano piuttosto «generiche, confuse e contraddittorie, oltre che oggettivamente sbagliate»?
Francesco Ognibene
Da Avvenire dell’ 8/12/2017. Foto da articolo