L’8 febbraio 2022, la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva il disegno di legge di riforma costituzionale che introduce importanti modifiche agli articoli 9 e 41 della Carta fondamentale. Un grimaldello “verde” che si presterà a limitazioni ingiuste della proprietà privata, a restrizioni discrezionali della libertà di persone e imprese, nonché a falsificazioni della concorrenza. L’ideologia green entra così nella legislazione italiana al livello più alto, iscrivendo un’ipoteca molto pericolosa per il futuro. Senza alcun tipo di opposizione e nel silenzio generale.
Maurizio Milano
Passiamo velocemente in rassegna le modifiche introdotte. Nella versione originaria dell’art. 9 della Costituzione – che rientra nella sezione dei princìpi fondamentali, e quindi particolarmente rilevanti –, comparivano i seguenti due punti: «1. La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. 2. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Ora è stato aggiunto un terzo comma, che recita così: «3. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali». Ci si è così allontanati da una visione “culturale”, centrata sull’uomo, per andare verso una vaga prospettiva “biocentrica”, in cui l’essere umano non è più il vertice della creazione ma solo una delle tante specie che abitano il pianeta. Il legislatore ordinario avrà ora titolo a sbizzarrirsi nel nome dell’ecologicamente corretto, anche a scapito delle generazioni presenti.
Per quanto riguarda invece l’art. 41 della Carta fondamentale – che rientra nella parte dedicata ai «diritti e doveri dei cittadini», nel Titolo III dei «rapporti economici» –, vengono inseriti alcuni incisi nei commi 2 e 3 (in grassetto nel testo): «1. L’iniziativa economica privata è libera. 2. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. 3. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali». L’«ambiente» entra, e allo stesso livello dell’essere umano, tra i “soggetti di diritto”, e quindi meritevoli di tutela, giustificando così future limitazioni alla proprietà privata e alla libertà di iniziativa, potenzialmente anche pesanti vista l’indeterminatezza del nuovo dettato costituzionale.
Le modifiche introdotte nel nostro ordinamento sono peraltro in linea con la normativa europea: la Carta di Nizza, che rappresenta la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, stabilisce infatti nell’articolo 37 che: «Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile». La politica comunitaria e gli obiettivi ambientali sono disciplinati anche nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), all’art. 191.
Prescindendo dalla tematica della “tutela degli animali” – molto insidiosa ma da approfondire in altra sede – qui vorrei attirare l’attenzione solamente sugli aspetti di tipo economico. Innanzitutto, occorre sottolineare che il testo costituzionale – frutto di un compromesso in Assemblea costituente tra più istanze: liberali, cattoliche, marxiste – già prima delle recenti modifiche conteneva degli elementi suscettibili di interpretazione in senso più o meno “dirigistico” e lato sensu “socialista”. Ad esempio, pensiamo al «compito della Repubblica [di] rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono […] l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (Cfr. art. 3 Cost.): se l’eguaglianza viene intesa come mèta sociale – e non semplicemente come eguaglianza sul piano giuridico o di opportunità – costituisce un obiettivo tanto irrealistico quanto liberticida; che poi la partecipazione spetti non ai cittadini bensì ai lavoratori risente evidentemente della retorica marxista. Sorte migliore non è riservata al regime della proprietà privata, sottoposta a pericolose “ipoteche sociali”, con l’attribuzione al legislatore di forti poteri di limitazione dell’àmbito di estensione della medesima (Cfr. artt. 42, 43 e 44 Cost.). L’iniziativa economica privata è riconosciuta come libera purché non sia in contrasto con una non ben identificata «utilità sociale» e alla legge è riservata l’ampia discrezionalità di determinare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Pur restando valido il principio del ruolo dell’autorità nel determinare il quadro di riferimento per un funzionamento ordinato della vita economica e sociale, i termini utilizzati nella Carta sono così “alti” che si prestano inevitabilmente ad abusi, come la storia economica del secondo dopoguerra ha ampiamente dimostrato. Lo stesso potrà ora capitare con le nuove modifiche, dove si parla di non meglio precisati fini «ambientali», all’interno di un quadro più ampio di tutela della «biodiversità» e degli «ecosistemi», «anche nell’interesse delle future generazioni»: concetti talmente vaghi che il Parlamento potrà d’ora in poi dare prova di creatività nell’escogitare sempre nuove regole e restrizioni, da un lato, nonché concedere incentivi e prebende, dall’altro. E la Corte costituzionale, se chiamata in causa, non potrà che confermare la corrispondenza di tali leggi alla lettera e allo spirito del testo, così come è stato modificato.
Anche la proprietà privata è minacciata: il nuovo testo costituzionale consentirà di varare leggi che mettano fuori mercato, ad esempio, abitazioni con classe energetica ritenuta troppo bassa oppure veicoli “troppo inquinanti”, o anche l’imposizione di tasse pesanti per frenare quei consumi giudicati poco “verdi”, per via di emissioni di CO2 ritenute eccessive; e chissà cos’altro in futuro. Ora, è vero che la proprietà privata non è un diritto “assoluto”, e che quindi possa e debba essere disciplinata in modo che concorra al bene comune, nella prospettiva dell’universale destinazione dei beni creati, come ha sempre insegnato la Dottrina sociale della Chiesa; ciò non significa, tuttavia, che essa possa essere indebitamente compressa e minacciata da visioni ideologiche che rischiano in realtà di accrescere le diseguaglianze, impoverendo il tessuto sociale. Le modifiche introdotte vanno quindi a peggiorare non già «la Costituzione più bella del mondo» ma un testo che ab origine era suscettibile di interpretazioni dirigistiche, nella prospettiva dell’iper-regolamentazione dell’attività economica e del controllo, che infatti ha sempre impedito l’affermazione di un’economia davvero libera nel nostro Paese. La consacrazione costituzionale della formula “mista” del nostro sistema economico – con il riconoscimento esplicito quanto vago e generico del ruolo dello Stato di indirizzo e coordinamento dell’attività economica nonché di imprenditore anche monopolista –, nasce infatti dal compromesso con la forte componente marxista nella Costituente: come dirà Piero Calamandrei, «per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa» (citato in Luciano Garibaldi, Depurare la Costituzione, in Studi cattolici, n. 400, giugno 1994, pagg. 395).
La legislazione ordinaria, coerente con lo spirito dirigistico e interventistico che si può ravvisare nel testo costituzionale fin dalle origini, ha prodotto fino ad oggi in materia economica un insieme tanto ampio quanto disorganico e farraginoso di leggi e leggine, con contraddizioni, vuoti e sovrapposizioni che ne rendono estremamente ardua l’interpretazione e l’applicazione. Sul piano contenutistico, si è progressivamente formato un complesso meccanismo di «lacci e lacciuoli», che ha costituito un serio ostacolo al libero svolgimento dell’attività economica dei privati: quest’ultimi sono stati così incentivati – talvolta costretti – alla ricerca di “vie traverse” e di collusioni con il “potere”, nelle sue varie articolazioni, per riuscire a districarsi dai molteplici impedimenti senza perdere in competitività, ma anche per ottenere sovvenzioni indebite, nella prospettiva del cosiddetto capitalismo clientelare.
Per quanto concerne le tematiche ambientali, un inquadramento chiaro è stato fatto da Papa Benedetto XVI nel discorso al Reichstag di Berlino del 22 settembre 2011. Il Santo Padre dichiarò che: «L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea sé stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta sé stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana». Una corretta ecologia non ha quindi nulla a che spartire con l’ideologia green, che tende a considerare l’uomo sempre come parte del problema. L’introduzione di tale prospettiva nella nostra Carta fondamentale rischia quindi di essere una vera e propria “spada di Damocle”, che aggiunge alla salsa “rossa” originaria nuove sfumature di verde. Già perché il verde è diventato il nuovo rosso, il collante ideologico che tiene insieme gli orfani inconsolabili del comunismo e la lucrosa finanza «sostenibile» promossa dall’Agenda Onu 2030. Oltre alle falsificazioni della concorrenza, si aprono ora anche scenari inquietanti di possibili lockdown climatici, sull’onda di future supposte “emergenze” di «interesse pubblico», decise dal governo di turno e in prosecuzione dei lockdown sanitari degli ultimi due anni. Oltre a possibili imposizioni di tetti all’emissione di anidride carbonica non solo per le aziende ma anche per i singoli cittadini, in base all’«impronta ecologica» individuale: insomma, discrezionalità totale, col sacrificio della libertà individuale sull’altare dell’ideologia del momento. A voler pensare male, sembra che sia stato introdotto, al livello più alto possibile, il requisito giuridico che potrebbe giustificare il mantenimento permanente del lasciapassare (“verde”, non a caso), modulabile nel tempo a seconda delle decisioni politiche, oltre che per future nuove “crisi sanitarie” anche per supposte “crisi climatiche”. Tali provvedimenti di restrizione della libertà troverebbero ora piena giustificazione nel nuovo dettato costituzionale, rendendo virtualmente permanente lo «stato di eccezione», con la trasformazione dei diritti in permessi, e sarebbero inappellabili.
La nostra Carta è ora pienamente allineata alle normative europee, alla pianificazione della Commissione Europea per il Green New Deal e secondo i requisiti del cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Le novità introdotte aumentano ulteriormente i rischi pianificatori, di derive dirigistiche e di controllo, con gravi falsificazioni della concorrenza: a vantaggio di alcune industrie che saranno favorite dai piani di investimento pubblici (a debito e spesati su tutti i cittadini) e dai risparmi privati, convogliati dalla cosiddetta “finanza sostenibile” ESG (acronimo di Envinronmental, Social, Governance); a sfavore di altre industrie, che si è deciso di “liquidare” progressivamente, con un processo di “distruzione creatrice”, non certo frutto di un leale confronto di mercato per selezionare i migliori ma con decisioni politiche dall’alto. Tanti tasselli di un progetto di resetglobale dei sistemi sociali, economici e politici, che si sta implementando velocemente cogliendo l’«opportunità» della confusione e debolezza post-CoViD. Un primo assaggio di cosa ciò possa comportare anche per i contribuenti e i consumatori oltre che per le imprese, lo stiamo già vedendo nelle bollette di luce e gas con i rialzi fortissimi delle materie prime energetiche, in buona parte conseguenza dell’ideologia verde della “decarbonizzazione” e della cosiddetta “transizione ecologica”, che forse sarebbe più rispondente al vero iniziare a chiamare “transizione ideologica”.
A fronte di tali minacce, occorre ribadire che la libertà di iniziativa economica nasce dal diritto-dovere di provvedere a sé stessi e alla propria famiglia, ed è parte della libertà generalmente intesa. «Il mondo economico è creazione dell’iniziativa personale dei singoli cittadini»: tale diritto è quindi anteriore allo Stato, e a maggior ragione alla comunità internazionale, che non devono perciò impedirne o falsificarne l’esercizio, sebbene occorra evidentemente un quadro giuridico per delimitarlo e regolamentarlo perché non sia lesivo dei diritti degli altri consociati e dannoso per la comunità nel suo insieme, ma anzi contribuisca al bene comune (Cfr. Giovanni XXIII, Pacem in terris, nr.10 e Mater et Magistra, nr.40; Cfr. anche Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, nr.42). Il «diritto di iniziativa economica [è] un diritto importante non solo per il singolo individuo, ma anche per il bene comune. L’esperienza ci dimostra che la negazione di un tale diritto, in nome di una pretesa “eguaglianza” di tutti nella società, riduce, o addirittura distrugge di fatto lo spirito d’iniziativa, cioè la soggettività creativa del cittadino» (Cfr. Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, nr.15).
Siccome la libertà di iniziativa e d’intrapresa deve contribuire al progresso e allo sviluppo generale, si rende ovviamente necessaria una regolamentazione legislativa di tale diritto: ogni libertà, infatti, esige una legge, la quale – quando è retta – non solo non è di ostacolo all’esercizio della libertà ma ne è addirittura il presupposto. Per questo motivo, è necessario che il legislatore stabilisca un ordinamento giuridico dell’attività economica, un diritto dell’economia, con poche regole chiare e certe, che fissino il quadro di riferimento all’interno del quale l’attività economica dei privati possa svolgersi liberamente e in modo ordinato e vantaggioso per tutti. Lo Stato deve intervenire per garantire l’effettivo esercizio della libertà di concorrenza, sanzionando i comportamenti lesivi di tale diritto, assicurando così il rispetto della lealtà nella competizione economica. Tale funzione rientra nel primario ruolo dello Stato di promozione del bene comune, che ha anche una dimensione economica. La delimitazione della sfera di autodeterminazione privata corrisponde alla necessità di contemperare l’esigenza di libertà individuale con l’ordinato svolgimento della vita sociale ed economica e la tutela dei diritti dei consociati.
Obiettivi vaghi e discrezionali, quando non ideologici, finanziamenti agevolati o a fondo perduto, sovvenzioni e tutte le altre misure di assistenzialismo pubblico – a favore di imprese sia pubbliche che private – determinano però un’alterazione del valore reale del risultato economico, con un effetto gravemente distorsivo della libera e leale concorrenza, e quindi dell’allocazione efficiente delle risorse, sempre scarse. Le imprese non devono trovare nella provvidenza pubblica una totale protezione dall’elemento rischio, che è l’anima dell’attività imprenditoriale e una delle principali ragioni che giustificano il guadagno. Un interventismo statale, come quelle previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza Next Generation Italia, per di più all’interno di logiche di pianificazione sovranazionali come definite nel Piano di rilancio europeo denominato NextGenerationEU(il cosiddetto Recovery Fund), non conformi alla logica del libero mercato concorrenziale, comportano inevitabilmente un grave rischio di limitazione e distorsione del diritto di libera iniziativa.
In conclusione, se è vero che lo Stato può fare molto per favorire l’esercizio della libera iniziativa dei privati, è altrettanto vero che un intervento pubblico maldestro può peggiorare ulteriormente la situazione, aggravando il male che si pretenderebbe voler curare: insomma, va bene che lo Stato faccia l’arbitro ma non che pieghi le regole a favore di una delle squadre in campo. Per evitare simili inconvenienti è necessario che la regolamentazione legislativa riconosca la libertà e l’autonomia contrattuale privata come il pilastro dell’attività economica: il ruolo pubblico è legittimo – e doveroso – solo se è conforme alle regole di un’economia libera, in linea con la logica del principio di sussidiarietà. Altrimenti si cade nel capitalismo clientelare, le piccole e medie imprese perdono di rilevanza e la società intera di soggettività. Una Costituzione ideologica non dovrebbe perciò preoccupare di meno dell’incompetenza e della malversazione. Eppure, non se ne parla.
Giovedì, 17 febbraio 2022