La migliore soluzione all’attaccamento eccessivo ai beni materiali, insegnano i monaci, è meditare sulla morte
di Michele Brambilla
«Proseguiamo le catechesi sui vizi e le virtù», dice Papa Francesco all’udienza di mercoledì 24 gennaio, «e oggi parliamo dell’avarizia, cioè di quella forma di attaccamento al denaro che impedisce all’uomo la generosità». Necessario puntualizzare che «non è un peccato che riguarda solo le persone che possiedono ingenti patrimoni, ma un vizio trasversale, che spesso non ha nulla a che vedere con il saldo del conto corrente. È una malattia del cuore, non del portafogli», tanto che può persino intaccare i monaci, che per la loro professione religiosa non dovrebbero teoricamente possedere molti beni materiali. Così poterono osservare già nei primi secoli i Padri del deserto.
Proprio dal mondo monastico ci viene, però, la soluzione. «Per guarire da questa malattia i monaci proponevano un metodo drastico, eppure efficacissimo: la meditazione della morte. Per quanto una persona accumuli beni in questo mondo, di una cosa siamo assolutamente certi: che nella bara essi non ci entreranno», come più volte ripetuto dallo stesso Papa. «Il legame di possesso che costruiamo con le cose», infatti, «è solo apparente, perché non siamo noi i padroni del mondo: questa terra che amiamo, in verità non è nostra, e noi ci muoviamo su di essa come forestieri e pellegrini», come si legge già nell’Antico Testamento (cfr Lv 25,23).
L’avarizia, in poche parole, «è un tentativo di esorcizzare la paura della morte: cerca sicurezze che in realtà si sbriciolano nel momento stesso in cui le impugniamo. Ricordate la parabola di quell’uomo stolto, la cui campagna aveva offerto una mietitura abbondantissima, e allora si culla nei pensieri su come allargare i suoi magazzini per metterci tutto il raccolto. Quell’uomo aveva calcolato tutto, programmato il futuro. Non aveva però considerato la variabile più sicura della vita: la morte. “Stolto – dice il Vangelo –, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (Lc 12,20)».
Sulla terra ci sono anche i ladri, centrali in molte parabole evangeliche che condannano la bramosia. «Sempre nei racconti dei Padri del deserto si narra la vicenda di qualche ladro che sorprende nel sonno il monaco, e gli ruba i pochi beni che custodiva nella cella. Al risveglio, per nulla turbato dall’accaduto, il monaco si mette sulle tracce del ladro e, una volta trovatolo, anziché reclamare la refurtiva, gli consegna le poche cose rimaste dicendo: “Hai dimenticato di prendere queste!”»: per il monaco, ma bisognerebbe dirlo di ogni cristiano, il centro della sua esistenza è Cristo, il tesoro nel campo per il quale vale la pena vendere tutti gli altri (Mt 13,44).
«Noi, fratelli e sorelle, possiamo essere signori dei beni che possediamo, ma spesso accade il contrario: sono loro alla fine a possederci. Alcuni uomini ricchi non sono più liberi, non hanno più nemmeno il tempo di riposare, devono guardarsi alle spalle perché l’accumulo dei beni esige anche la loro custodia», osserva il Pontefice. «È ciò che l’avaro non capisce. Poteva essere motivo di benedizione per molti, e invece si è infilato nel vicolo cieco dell’infelicità», perché le troppe ricchezze sono divenute una fonte perenne di ansia.
Che sia ricco o che sia povero, il cattolico deve vivere per Cristo. Quel che si ha, ci è donato per farne, a nostra volta, dono agli altri, anzitutto i nostri talenti, dato che «“Cristo ci ha liberati per la libertà” (Gal 5,1)» e anche il nostro rapporto con le cose deve esprimere il nostro essere redenti.
Giovedì, 25 gennaio 2024