di Stefano Chiappalone
Le folle di turisti, che ogni anno – e spesso in ogni stagione dell’anno – affollano le città d’arte e gli incantevoli borghi che costellano l’Italia e l’Europa, sembrano andare in cerca di un tempo perduto, ma ben delimitato a distanza di sicurezza dalle opere della contemporaneità. Vanno in cerca di esperienze quali la maestosità dei castelli che ne promana anche quando sono ridotti a rudere, lo splendore delle cattedrali, la meraviglia di paesaggi in cui l’opera del Creatore e quella dell’uomo si fondono armonicamente, l’aspetto fiabesco di alcuni centri storici tutti pietra e legno in cui sembra di fare due passi nel Medioevo così come i visitatori delle calli di Venezia si sentono catapultati in una veduta del pittore Canaletto (Giovanni Antonio Canal, 1697-1768) e chi passeggia per le vie di Siena si vede immerso in un affresco di Ambrogio Lorenzetti (1290-1348). In altre parole, è significativo constatare che la bellezza che ci attrae è spesso datata entro e non oltre il secolo XIX. Al di là di questi secoli, pare infatti che il turista preferisca restare a casa. Per quale motivo? Perché, per esempio, voler andare a Roma per vedere le basiliche e non l’avveniristica e decantata chiesa di Tor Tre Teste? Perché visitare il centro storico di una città toscana e non un moderno quartiere industriale?
Il primo istinto che spinge a cercare la bellezza è il desiderio di essere trasportati in una dimensione che vada oltre i limiti consueti dell’utile e del funzionale, per colmare la sete d’infinito che c’è nel cuore di ogni uomo. Si può sognare a occhi aperti ammirando gl’imponenti resti di un maniero o le storie scolpite sulla facciata di un duomo, ma quale sogno sarà mai possibile di fronte ai ciechi volumi di un’architettura volutamente fredda e asettica, quando anche le cattedrali moderne non si discostano poi tanto dagli anonimi spazi della vita quotidiana? Dal secolo scorso in poi, sembra che i sogni siano stati sepolti da una uniforme patina edilizia che rende indistinguibile non solo la casa dall’ufficio o dalla chiesa, ma anche le strade di Roma da quelle di Tokyo o di Berlino. Insieme alla bellezza abbiamo perso le identità specifiche che dai rispettivi popoli si riflettevano sino alle mura e agli edifici. Nel “brodo primordiale” edilizio, ciò che resta dell’antica bellezza è confinato in riserve turistiche o inglobato, quasi soffocato dall’avanzare della modernità che poi, superati i resti del passato, dilaga senza più pudore, dipanandosi liberamente in un mare di cubi di cemento e insegne colorate. Nel deserto delle identità culturali, l’unica identità rimasta è quella trasversalmente imposta dal marketing che in ogni angolo dell’Occidente identifica con i medesimi colori – talora persino le stesse strutture – i negozi di un determinato brand. Dunque, niente paura di perdersi: riconosceremo immediatamente di trovarci in questa o quella catena, pur senza capire se siamo a Roma, Milano o Venezia. In attesa di ritrovare un homeland, una patria accontentiamoci dell’home brand.