Di Robi Ronza dal Blog di Robi Ronza del 17/02/2020
e oggi la stampa italiana fosse davvero all’altezza dei suoi compiti in una moderna democrazia, i titoli di prima pagina sarebbero sulla crisi demografica, e non sui litigi all’interno di un governo che non governa semplicemente perché non è in grado di governare.
Parlare di crisi demografica significa poi parlare anche di crisi economica: il motore primo del suo perdurare è infatti la mancata ripresa del mercato interno, ovviamente legata al continuo ridursi della nuzialità e della natalità.
Prima di essere politica ed economica quella in cui siamo è una crisi della speranza: una materia prima che né l’economia, né la politica sono in grado di produrre. Proprio per questo affrontarla con efficacia è tanto difficile. Perché è qualcosa che non si può risolvere innanzitutto politicamente, né tanto meno innanzitutto economicamente.
Mi sembra di poter dire che questo giudizio con cui si apre il mio Non siamo nel caos / proposte per uscire dalla crisi (Edizioni Ares, 2019) non cessa di trovare conferma nei fatti. Avere un governo che governa, e con un programma serio e ragionevole, sarebbe comunque meglio.
Ci può tuttavia essere di qualche conforto il fatto che, in un momento come questo, averlo o non averlo è meno importante del solito. Una buona politica di aiuto alla famiglia può migliorare o peggiorare la situazione, ma tutto dimostra che da sola serve a poco se non a nulla.
Tanto per fare un esempio, la natalità resta ugualmente bassa anche in Germania dove pure i sussidi sono molto alti: duemila euro per ogni bambino che nasce, 150 euro al mese se una mamma rinuncia all’asilo-nido che è garantito a tutti, possibilità di congedi parentali fino a 24 mesi nei primi 8 anni di vita del figlio o figlia, lavoro part-time facilitato e così via.
Non si può che essere d’accordo con Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, molto intervistato nei giorni scorsi quando l’Istat ha diffuso la notizia che in Italia mai nacquero così pochi bambini come nell’appena trascorso 2019.
“Per riempire le culle non bastano bonus o asili nido gratis. Bisogna lavorare sul tessuto sociale e ricostruire un’idea di comunità”, esordisce De Rita in una sua intervista apparsa su La Stampa lo scorso 12 febbraio, per poi subito sottolineare gli effetti negativi del declino demografico sull’economia.
Dopo aver ricordato infatti che “per anni la dottrina tradizionale riteneva l’elevata natalità un moltiplicatore delle possibilità di povertà”, il sociologo osserva che adesso ci si sta invece rendendo conto che “la denatalità diminuisce la ricchezza sociale (…)” con effetti negativi sul piano tanto dell’economia quanto della psicologia sociale.
Non è detto che le copie sarebbero più propense ad allargare la famiglia se migliorassero gli interventi pubblici a sostegno delle nascite: “E’ un problema più profondo di mentalità e di dittatura dell’io”, sottolinea il sociologo: “Una società che non sa più dire «noi» non fa figli”.
Come venirne fuori? “occorre rimboccarsi le maniche. Servono umiltà, volontà di fare, capire, migliorarsi”, è la risposta di De Rita, che peraltro di suo ha otto figli e quattordici nipoti. Quindi non è di quelli che predicano bene ma razzolano male.
Chi può rimettere in discussione lo sterile “narcisismo di massa” che invece il grande circo massmediatico continua ogni giorno irresponsabilmente a ribadire? A mio avviso la prima e principale risposta è: la Chiesa sia nel suo magistero che nelle sue esperienze di vita cristiana pienamente vissute.
Dispiace perciò che al momento il magistero si lasci troppo spesso dettare l’agenda dalla cultura dominante. Dia perciò sì delle sue risposte, ma dentro un perimetro e secondo un ordine di priorità definiti dalla cultura borghese progressista.
La trasformazione del dovere del soccorso in mare in presunto diritto all’insediamento definitivo in Italia dei salvati; la mancata consapevolezza del fatto che le migrazioni incontrollate sono il sintomo di un grave disagio ma non la sua soluzione; il dovere per la cura per l’ambiente radicato non nella responsabilità dell’uomo nei confronti del creato bensì nel timore panico nei riguardi della natura, tipico delle culture pagane di ogni tempo: troppa della peraltro poca presenza pubblica della Chiesa italiana è subalterna a questa agenda.
A quando una lettera pastorale collettiva dei vescovi italiani sul valore sia personale che sociale, sia morale che politico della famiglia e della fecondità? Un evento del genere, inusitato in Italia ma non in altri Paesi, sarebbe forse il «big bang» di cui abbiamo bisogno per cominciare davvero a voltare pagina.
Foto redazionale