Di Emanuele Scimia da AsiaNews del 07/01/2022
“Quanto sta accadendo in Kazakistan è un affare interno di quel Paese. Crediamo che le autorità kazake possano risolvere la questione nel modo appropriato”. Le caute parole rilasciate ieri dal ministero cinese degli Esteri lasciano intendere che Pechino non voglia (o non possa) assumere un ruolo attivo nella gestione della crisi kazaka. Il mancato riferimento alle forze militari a guida russa della Csto (Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva), arrivate oggi nel Paese centrasiatico per aiutare il presidente Kassym-Jomart Tokaev a sedare la rivolta anti-governativa, fa trasparire il disagio della Cina per l’intervento diretto del Cremlino.
Scoppiate il 2 gennaio per l’aumento del carovita, le proteste si sono allargate a tutto il Kazakistan. Alle richieste di calmierare il prezzo del gas liquido si sono aggiunte domande di cambiamenti politici in un Paese dominato dalle elite legate all’ex presidente Nursultan Nazarbaev, padre-padrone della nazione dopo la sua indipendenza seguita al crollo dell’Unione Sovietica.
Autocrazie della Csto come Russia, Tagikistan e Bielorussia (oltre al Kazakistan, gli altri due membri sono Kirghizistan e Armenia) temono che i tumulti kazaki possano ispirare rivolte a casa loro. L’invio di truppe russe in soccorso di Tokaev conferma il ruolo di Mosca come dominus della sicurezza nella regione, nonostante ormai la Cina sia la vera potenza economica in Asia Centrale.
Almeno formalmente Pechino non disconosce questa “divisione d’influenza”. Nella crescente cooperazione geopolitica tra cinesi e russi, il Cremlino ha accettato di essere il vassallo della Cina, ma non in quella che ritiene la sua sfera d’influenza centroasiatica. Gli interessi regionali dei cinesi rischiano però di creare attriti tra le due potenze.
Dal lancio nel 2013 della Belt and Road Initiative, il piano infrastrutturale di Xi per accrescere la centralità commerciale della Cina a livello globale, gli investimenti cinesi in Asia centrale hanno superato quelli russi. Malgrado il loro progressivo calo negli ultimi anni, dal varo della Belt and Road Pechino ha investito quasi 9 miliardi di dollari (dati del China Global Investment Tracker) in Kazakistan, ricco di idrocarburi e minerali.
Per il territorio kazako passa anche il gasdotto che trasporta il gas turkmeno fino allo Xinjiang, nella Cina nordoccidentale – il Turkmenistan è il principale fornitore di gas naturale ai cinesi. Pechino dovrebbe dunque continuare ad appaltare la propria sicurezza commerciale ed energetica in Asia centrale alle armi russe, una situazione che nel medio-lungo periodo sembra insostenibile. In futuro ci potrebbero essere anche problemi di rivendicazioni territoriali. Nel 2014 Putin ha detto che il Kazakistan è una creazione artificiale di Nazarbaev; dal canto loro frange nazionaliste cinesi sostengono che tradizionalmente la Cina ha esercitato il proprio controllo sul territorio kazako.
Russia e Cina non sembrano avere trovato in tempi rapidi un punto d’incontro su come affrontare il nodo kazako. Tokaev si è rivolto subito a Mosca e alla Csto, e non certo all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco). Controllata dai cinesi e dai russi, la Sco è ancora un forum politico più che un effettivo meccanismo eurasiatico di sicurezza.
Nel tenersi lontano dalla Sco, Tokaev può aver tenuto anche conto del malcontento dei kazaki nei confronti di Pechino. La Cina è accusata da più parti di aver imprigionato più di un milione di musulmani turcofoni dello Xinjiang – anche di etnia kazaka – in lager che le autorità cinesi definiscono “centri di avviamento professionale”. Negli ultimi anni vi sono state in Kazakistan proteste contro la crescente presenza delle imprese cinesi nel Paese, considerate grandi inquinatrici del territorio. Nazarbaev, primo bersaglio delle sommosse di questi giorni, è ritenuto il principale responsabile della “svendita” a Pechino.