JOSEPH CARD. RATZINGER, Quaderni di Cristianità, anno I, n. 2, estate 1985
Il 24 aprile 1984, a Monaco di Baviera, S. E. Rev. ma il signor cardinale Joseph Ratzinger apriva un congresso sul tema L’eredità europea e il suo futuro cristiano — promosso dalla fondazione Hans Martin Schleyer e dal Pontificio Consiglio per la Cultura — con una conferenza il cui titolo originale suona Christliche Orientierung in der pluralistichen Demokratie? Uber die Unverzichtbarkeit des Christentums in der modernen Welt. Pronunciato davanti a un pubblico composto da qualche centinaio di uomini di cultura europei, il testo è stato poi raccolto come contributo in Pro Fide et Justitia. Festschrift fur Agostino Kardinal Casaroli zum 70. Geburtstag, a cura di Herbert Schambeck, Duncker & Humblot, Berlino 1984, pp. 747-761. Su questa edizione è stata condotta la traduzione italiana, gentilmente autorizzata dall’autore, fatta da don Pietro Cantoni. Il titolo è redazionale.
Cristianesimo e democrazia pluralista. Sulla imprescindibilità del cristianesimo nel mondo moderno
Durante le mie passeggiate attraverso l’antica Roma, i miei occhi non sono colpiti soltanto dalle tracce del passato, da quello che soprattutto cercano i turisti. Sulle pareti delle case leggo i diversi slogan che, ora scritti soltanto con il gesso, ora con la vernice, rispecchiano lo spirito del tempo. Gli avvenimenti calcistici vi giocano un ruolo importante e assurgono qualche volta alla sfera poetica, come quando lo scudetto vinto dalla squadra della Roma provoca questa esclamazione: «Roma, tu sei come il primo amore», oppure quando, con una tenerezza ancora più delicata, viene scritto: «Grazie, Roma!». Più costanti ed eloquenti sono gli slogan politici. Nello stretto Borgo che mi sta più vicino, leggo: «Il vero socialismo è l’anarchia!». Pochi passi più in là segue questa insolente esclamazione: «Baader vive!». Dietro l’angolo trovo questa sentenza: «Anarchia è libertà nell’uguaglianza». Suona quasi innocuo, quando, girato di nuovo l’angolo, nella via parallela, i governanti sono definiti ladri per il continuo aumento dei prezzi. La serietà ritorna feroce due passi più avanti con le parole: «Né Cristo né Marx – lotta popolare». La parete dirimpetto commenta, «Lottare è bello anche se si muore».
Certamente non bisogna sopravvalutare questo scribacchiare, il cui pathos spesso si perde nelle parole ed è semplice imitazione. Però non è neppure del tutto privo di interesse. Da noi, dopo la guerra, il messaggio della democrazia fu ricevuto quasi con un pathos religioso e con lo zelo dello scolaro desideroso di apprendere, che ha finalmente trovato la soluzione giusta per il suo compito di matematica. Per questo l’inquietudine è oggi tanto maggiore quanto più esagerata fu allora l’aspettativa con cui ci si aprì alle promesse democratiche. Per vedere tutta l’ampiezza del problema bisogna, accanto al dubbio di fede nella concezione democratica, collocare nel contesto del proprio paese l’ipocrisia che si è impadronita nel frattempo dell’opinione pubblica mondiale. La critica al comportamento non democratico nei paesi del terzo mondo ammutolisce quando vi si stabilisce un regime comunista. «Per la vittoria del popolo vietnamita», era scritto a grosse lettere rosse sulle pareti della mensa della nostra università di Ratisbona quando la guerra nel Vietnam volgeva alla fine. Oggi si cercherebbe inutilmente una scritta di questo genere. Il Vietnam, come gli altri paesi diventati marxisti, non è più tema di pubblica discussione. I paesi a regime marxista del terzo mondo non si devono criticare. Si direbbe che, a parere della politica occidentale, hanno raggiunto una situazione di ordine che non si dovrebbe disturbare. Così, agli Stati che oscillano fra dittatura e democrazia si consigliano idee marxiste di liberazione che nessuno vorrebbe vedere applicate nel proprio paese. Che la gioventù percepisca una tale schizofrenia non dovrebbe meravigliare nessuno. E’ del tutto logico che i giovani, con la loro tendenza verso l’assoluto, percepiscano il pathos di tali idee di liberazione e vogliano applicarle anche nella loro propria terra.
Che cosa c’entra tutto questo con il nostro tema? Da quanto si è detto risulta chiaro che la democrazia pluralista non è mai pienamente consolidata. Essa non si appoggia su sé stessa, in modo tale da essere lei a unire i suoi cittadini in un consenso fondamentale. Anche quando funziona relativamente bene — come è stato il caso, nonostante tutto, da noi negli ultimi trent’anni — non genera automaticamente la convinzione che sia sotto tutti gli aspetti la migliore forma di Stato. Non soltanto le crisi economiche la possono fare crollare, ma anche le tempeste spirituali possono toglierle il terreno su cui si appoggia. Ernst Wolfgang Bockenforde, tenendo conto di questo stato di cose, ha potuto avanzare la tesi che l’attuale Stato liberale e secolarizzato non è più societas perfecta: «esso, per il suo proprio fondamento e conservazione si appoggia su altre potenze e forze»; in altri termini: vive di presupposti, «che esso stesso non può garantire» (1). Cioè, vi è «qualcosa di irrinunciabile» per la democrazia pluralista che non risiede nel campo politico. Il tema ci porta così a volgere il pensiero al cristianesimo e non nego che vorrei proseguire in questa direzione. Ma non dovremmo neppure accontentarci troppo facilmente della risposta secondo cui non si possono tralasciare gli effetti negativi del cristianesimo anche nella recente storia politica. Mi pare perciò necessario esaminare dapprima i più importanti fattori contemporanei di minaccia per la democrazia. A questo si deve aggiungere una autocritica del cristianesimo nelle sue conseguenze politiche. Finalmente, può essere affrontato in tutto il suo significato il quesito circa il suo valore positivo.
I. Le tre radici della attuale minaccia alla democrazia
Che cosa minaccia oggi la democrazia? Io vedo tre tendenze principali che portano, o possono portare, al rifiuto della democrazia. Vi è, anzitutto, l’incapacità di accettare francamente l’imperfezione delle cose umane. La pretesa dell’assoluto nella storia è il nemico del bene che vi è in essa. Manès Sperber parla di un fanatismo che nasce dalla nausea davanti a ciò che esiste (2). La nausea davanti a ciò che esiste è oggi in crescita, e con essa cresce il gusto dell’anarchia, a partire dalla convinzione che da qualche parte il mondo buono ci deve proprio essere. Oggi certamente nessuno vuole più rendere omaggio alla fede nel progresso dell’illuminismo, ma un certo messianismo profano è profondamente penetrato nella coscienza collettiva. La frase di Ernesto Cardenal «lo credo nella storia» esprime il credo nascosto di molti: in qualche modo l’idea di Hegel che la storia stessa, alla fine, ci porterà la grande sintesi si è installata nella coscienza collettiva. L’idea che tutta la storia precedente sia storia della schiavitù e che però ora finalmente può e deve essere presto edificata la società giusta, è oggi — in svariati slogan — diffusa sia fra atei che fra cristiani, e si è introdotta perfino nelle pastorali dei vescovi e ne i testi liturgici. In un modo curioso ritorna la mistica del Regno del periodo fra le guerre [mondiali], che ha poi avuto un esito così macabro. Di nuovo si preferisce parlare, anziché di «Regno di Dio», di «Regno» semplicemente. Realtà, questa, per la quale noi lavoriamo, che costruiamo, che si avvicina in modo tangibile grazie ai nostri sforzi. il «Regno», la «nuova società» si è trasformata in un moralismo che dispensa da ulteriori argomentazioni politiche ed economiche. Il fatto che noi lavoriamo per un nuovo e definitivo mondo migliore è da lungo tempo diventato qualcosa di ovvio. Il lato filosoficamente e politicamente sospetto di questa escatologia dell’imminente si può capire, a mio avviso, soffermandosi su tre aspetti fondamentali di tale concezione.
1. Nella società liberata il bene non riposa più sullo sforzo etico degli uomini che compongono questa società, ma è previamente dato, in modo semplice e irrevocabile, mediante le strutture. Il mito della società liberata riposa su questa rappresentazione perché l’ethos è sempre minacciato, non è mai perfetto e deve sempre essere raggiunto.
Per questo uno Stato che si appoggia sull’ethos — cioè sulla libertà — non è mai compiuto, mai totalmente giusto, mai assolutamente protetto. E’ imperfetto come l’uomo stesso.
Proprio per questo motivo la «società liberata» deve essere indipendente dall’ethos. La sua libertà e la sua giustizia devono, per così dire, essere fornite dalle strutture. Anzi, l’ethos viene in fondo trasferito dall’uomo alle strutture. Le strutture attuali sono peccaminose, quelle future saranno giuste: bisogna inventarle e costruirle come si costruisce una macchina — poi, però, vi sono. Per questo anche il peccato diventa peccato sociale, strutturale e deve essere di nuovo ridefinito come tale. Per questo la salvezza riposa sull’analisi delle strutture e dell’attività politico—economica che ne consegue. Non è l’ethos a sorreggere le strutture, piuttosto le strutture sorreggono l’ethos, e questo perché l’ethos rappresenta l’elemento fragile, mentre le strutture sono l’elemento solido e sicuro. In questo rovesciamento che soggiace al mito del mondo migliore io vedo l’autentica essenza del materialismo, che non consiste semplicemente nella negazione di un ambito della realtà, ma più profondamente è un programma antropologico che naturalmente si collega con una determinata idea di come i singoli ambiti nella realtà si relazionano tra di loro. La tesi che lo spirito è solo un prodotto di processi materiali e non il principio della materia, corrisponde all’idea che l’ethos è una produzione dell’economia, e non è l’economia a essere in definitiva determinata dalle scelte umane fondamentali. Però, se si guarda ai presupposti e alle conseguenze di questo così sorprendente esonero dell’uomo dalla sua responsabilità, si riconosce che questo esonero — «liberazione» — riposa sulla dimissione dell’ethos, cioè sulla dimissione della responsabilità e della libertà, sulla dimissione della coscienza. Perciò, questo tipo di «Regno» è una mistificazione con la quale l’Anticristo ci prende in giro: la società «liberata» presuppone la perfetta tirannide. Penso che oggi dobbiamo di nuovo chiarire con ogni decisione che né la ragione né la fede ci promettono che vi sarà, prima o poi. il mondo perfetto. Esso non esiste. La sua continua attesa, il giocare con la sua possibilità e vicinanza, è la più seria minaccia alla nostra politica e alla nostra società, perché da lì procede necessariamente il fanatismo anarchico. Per la sopravvivenza della democrazia pluralista, cioè per la sopravvivenza e lo sviluppo di una misura di giustizia proporzionata alle possibilità dell’uomo, è urgente imparare di nuovo il coraggio della imperfezione e il riconoscimento della costante minaccia a cui sono sottoposte le cose umane. Sono morali solo quei programmi che risvegliano questo coraggio. Viceversa è immorale quell’apparente moralismo che si ritiene soddisfatto solo con ciò che è perfetto Qui è necessario un esame di coscienza anche riguardo alla predicazione ecclesiastica o para — ecclesiastica, le cui eccessive esigenze e speranze favoriscono la fuga dal morale all’utopico.
2. Il tentativo di rendere superflua la morale nella sua insufficienza e precarietà mediante la quasi meccanica garanzia da parte della società bene strutturata ha pero anche altre radici. Esse risiedono nella unilateralità del moderno concetto di ragione, come è stato dapprima formulato con Francesco Bacone e poi si è affermato sempre di più nel secolo XIX: solo la ragione quantitativa, la ragione del calcolo e dell’esperimento, appare soprattutto come ragione; tutto il resto appare come arazionale, che deve essere lentamente superato e nello stesso tempo trasferito nell’ambito della conoscenza «esatta». Per Bacone come per Comte — per nominare solo due pensatori emblematici — lo scopo è arrivare, infine, anche a una fisica delle realtà umane (3). Martin Kriele parla, da questo punto di vista, del rovesciamento dei rapporti fra scienza e ragione pratica, di una riduzione dell’etica e della politica alla fisica (4). Con una ancora imperfetta e quindi discutibile terminologia Romano Guardini ha ripetutamente richiamato l’attenzione sullo stesso dato di fatto, qualificandolo come il problema del destino della politica europea. Dice Guardini che il logico e l’alogico non sono riconosciuti nella loro unità antitetica [Gegensatzeinheit]. Bisognerebbe dire meglio che il logos è ridotto a una determinata specie di razionalità, e tutto il resto è confinato nell’alogico. «Per questo — continua Guardini — non esiste ancora una Europa in senso proprio, e gli ambiti spirituali e umani rimangono, nonostante ogni organizzazione, slegati e contrapposti» (5).
Possiamo cioè constatare che il rifiuto della morale a vantaggio della tecnica non è innanzitutto conseguenza della fuga dalla fatica della morale, ma del sospetto della sua irragionevolezza. La deduzione razionale e il funzionamento di un apparecchio non sono la stessa cosa. Però, una volta che il funzionamento di una macchina è stato eretto a modello della ragione, allora alla morale classica non resta altro spazio che quello dell’irrazionale. Nel frattempo si fanno strada i tentativi di presentare anche la morale come scienza esatta. Essa viene allora ricondotta nell’una o nell’altra forma al tipo della matematica, al calcolo dei rapporti tra effetti piacevoli e spiacevoli di una azione umana. In questo modo, però, viene liquidata la morale in quanto tale; perché il bene in sé e il male in sé non esistono più, ma resta soltanto una contabilità di vantaggi e di svantaggi, dove le cose non cambiano, anche se ci viene assicurato che, in generale, verranno mantenuti gli stessi criteri finora considerati come norme di azione.
In questo modo anche il diritto perde il terreno sotto i piedi. Non posso evitare di portare qui un esempio — preso dalla giurisprudenza di Monaco di Baviera — che fa apparire in modo sorprendentemente chiaro la perdita di sostanza della giuridicità nel nostro diritto. Per almeno due volte, negli ultimi tempi sono state respinte querele per offesa alla religione, ultimamente con la motivazione che la pubblica quiete noti era stata minacciata dalle azioni incriminate. Prescindo qui dalla questione relativa al merito di quelle querele; l’aspetto che interessa è solo la motivazione del loro rifiuto, perché in questa motivazione è contenuta, in realtà, una esaltazione del diritto del più forte. Se gli offesi avessero minacciato di provocare disordini per la loro causa, il caso avrebbe potuto essere preso sul serio. E’ la conseguenza di una tale premessa. Questo però significa che non si proteggono più beni giuridici, ma ci si preoccupa soltanto di evitare lo scontro di interessi contrastanti. Questo è logico, naturalmente, se la morale in sé stessa non viene più riconosciuta come bene giuridico degno di protezione perché è qualcosa che deriva dall’apprezzamento soggettivo, che rientra nell’ambito della giustizia solo se la pace pubblica corre pericoli. Questo spodestamento della ragione morale ha come conseguenza che il diritto non può più riferirsi a un modello fondamentale di giustizia, ma diventa soltanto lo specchio delle ideologie dominanti. Ciascuno però si rende conto che, su una tale base, non si può edificare la giustizia. In questo modo diventa inevitabile il ricorso a un tipo di giustizia fissata ideologicamente e apparentemente appoggiata su una visione della storia con garanzie scientifiche. Per questo il problema del recupero nella nostra società di un consenso fondamentale sulla morale è, nello stesso tempo, un problema di sopravvivenza tanto per la società che per lo Stato.
3. Mi si permetta di aggiungere ancora un terzo punto di vista che include e approfondisce i due precedenti. Per cercare di chiarirlo ricorro di nuovo a un esempio. Recentemente ho potuto chiedere a un amico della Repubblica Democratica Tedesca quale fosse, secondo la sua opinione, la ragione di fondo che spingeva molti, in modo crescente, ad abbandonare quella repubblica e a recarsi in Occidente; in concreto, se il motivo determinante era, in sostanza, la obiezione di coscienza nei confronti dell’ideologia comunista. Rispose che vi erano differenti motivi per questo fatto e, fra essi, certamente, anche quello a cui accennavo. Però, una ragione tutt’altro che infrequente era di genere molto diverso. E’ stato detto alla gente in modo costante e martellante che questa vita è l’unica e che l’uomo non deve aspettare altra felicità oltre a quella di questa vita. Con questi presupposti, però, la vita nel socialismo appare così grigia, così noiosa e vuota che uno deve rompere con essa e cercare da qualche parte la vera vita. Questa fuga, questo «gettarsi giù» si produce anche in grandi settori dell’Occidente, perché in fondo tutte le sue attrattive e possibilità sono anch’esse vuote, se pretendono di essere il tutto. La perdita della trascendenza porta con sé la fuga nell’utopia. Sono convinto che la distruzione della trascendenza è la vera e propria ferita dell’uomo, da cui discendono tutte le altre infermità. Spossessato delle sue dimensioni reali, l’uomo può soltanto rifugiarsi in speranze apparenti. Ecco allora che viene suggellato quel riduzionismo della ragione che non è più in grado di percepire come razionali le realtà specificamente umane. Marx ci ha insegnato che bisogna eliminare la trascendenza affinché l’uomo, finalmente liberato da false consolazioni, costruisca il mondo perfetto. Oggi sappiamo che l’uomo ha bisogno della trascendenza per modellare il suo mondo sempre imperfetto in modo che si possa vivere in esso con dignità umana.
Riassumendo, risulta chiaramente confermata la lesi di Bockenforde che lo Stato moderno è una societas imperfecta. Imperfetta non solo nel senso che le Sue istituzioni restano sempre imperfette come i suoi cittadini, ma anche nel senso che ha bisogno di forze dall’esterno per potere sussistere. Dove sono queste forze che gli sono indispensabili?
II. Autocritica degli effetti politici del cristianesimo
Un primo sguardo al cristianesimo come possibile fonte di una tale energia non è del tutto incoraggiante. Per questo, un’autocritica del cristianesimo è indispensabile proprio a chi vuole riconoscere in esso l’elemento risolutivo. È stata prospettata la tesi secondo cui il marxismo non può mettere piede in nessun posto, dove prima il cristianesimo non abbia fatto scomparire le religioni tradizionali. Sembra che l’elemento cristiano debba precedere, affinché la logica marxista possa trovare il suo punto d’aggancio. Non so fino a quanto questa tesi si lasci empiricamente verificare. In ogni caso, però, non è campata per aria. Così, accanto alla classica critica delle sinistre alla concezione cristiana dello Stato, è subentrata quella delle nuove destre. Ci si dovrà confrontare con entrambe; del resto questa critica ha una lunga storia. Il libro di Agostino sulla Città di Dio è una risposta alla tesi della critica romana conservatrice secondo cui il cristianesimo avrebbe effetti distruttivi per lo Stato. Già allora non si trattava di nulla di nuovo: la persecuzione dei cristiani da parte dell’impero romano si era appoggiata all’argomento che il cristianesimo fosse, in fondo, anarchismo. Le domande critiche che devono essere sollevate nei confronti del cristianesimo, come forza ed energia politica, provengono sia dalla sua storia passata che da quella presente. Vorrei affrontarle da un triplice punto di vista.
1. Il dinamismo messianico del cristianesimo tende all’assoluto del «Regno». Porta con sé, quindi, la tentazione di scavalcare quanto di condizionato e di imperfetto vi è nella realtà terrena dello Stato, di disprezzare lo Stato o di combatterlo. La letteratura epistolare del Nuovo Testamento manifesta una continua polemica con tali deformazioni della speranza cristiana. La tentazione dell’anarchia è esistita in verità in tutte le epoche, anche indipendentemente dal cristianesimo, ma, in effetti, l’anarchia come oggetto di una filosofia politica e di un programma di azione con pretese razionali è diventata possibile solo a partire dalla triplice radice del messianismo giudaico, del millenarismo cristiano e dell’idea moderna di progresso alimentata dalla tecnica (6).
2. Un secondo elemento, per cui il cristianesimo può agire scavalcando l’ethos che sostiene lo Stato, è il suo rifiuto della giustizia mediante le opere e il conseguente modello di santità soltanto per mezzo della grazia. Di qui può venire una relativizzazione dell’ethos e una incapacità di compromesso che distrugge quella accettazione dell’imperfetto di cui, come abbiamo visto, vive la comunità degli uomini. La discussione sulla importanza politica del Discorso della Montagna ha come fondamento questo problema. La stessa problematica è evidente nell’opera di Agostino sulle due città. La civitas Dei non può diventare una realtà statale empirica, come Agostino — contro i suoi interpreti successivi — ha chiaramente visto, essa rimane — in questo senso — non empirica. Lo Stato, da parte sua, non può mai essere altro che civitas terrena. Sebbene in Agostino si possano trovare punti di appoggio per intendere questo concetto come di valore neutro, rimane la sua prossimità concettuale alla città del demonio e, in ogni caso, non si prende in considerazione direttamente una specificazione positiva della città terrena (7). Domande simili dovrebbero essere rivolte — sebbene a partire da un contesto diverso — anche alla dottrina dei due regni di Lutero (8). Di fronte a queste impostazioni e già a partire dall’Alto Medioevo, con la recezione di Aristotele e della sua idea di diritto naturale, la teologia cattolica aveva elaborato un concetto positivo dello Stato profano, non messianico. Però, con frequenza, l’idea del diritto naturale apparve in questa teologia così caricata di contenuti cristiani che andò perduta la necessaria capacità del compromesso e lo Stato noti poté essere inteso nei limiti della profanità che gli sono essenziali. Questa teologia pretese troppo, si ostruì in questo modo la strada verso il possibile e il necessario.
3. Si aggiunge un terzo elemento. La fede cristiana aveva fatto saltare, dal punto di vista del contenuto, l’antica idea di tolleranza. Il cristianesimo, infatti, non si lasciò inserire nel Pantheon, che era lo spazio della convivenza pacifica delle religioni e rappresentava lo scambio e il mutuo riconoscimento degli dei. Considerando le cose giuridicamente il cristianesimo non poteva simpatizzare per la tolleranza religiosa, perché rifiutava di lasciarsi confinare nell’ambito del diritto privato, nel quale trovavano posto le differenti forme religiose. Un tale inserimento nel diritto privato non era possibile per la fede dei cristiani, perché il diritto pubblico era diritto degli dei. Per questo il monoteismo cristiano non poteva ritirarsi nel privato: sarebbe stato rinunciare alla sua pretesa di verità in quanto monoteismo. Il cristianesimo doveva aspirare al riconoscimento giuridico pubblico, per lo meno in forma negativa, cioè ottenendo il diritto a negare il carattere religioso del diritto pubblico vigente. In questo senso, fin dal principio, per quanto piccolo fosse il numero dei vuoi aderenti, ha avanzato la pretesa a un riconoscimento pubblico e si è posto su un piano giuridico paragonabile a quello dello Stato (9). Per questo la figura del martire appartiene alla struttura interna del cristianesimo. Qui sta la sua grandezza come controparte di ogni totalitarismo statale, Qui, però, può stare anche il pericolo di una esagerazione teocratica, che si trova in relazione con il fatto che la pretesa di verità del cristianesimo può trasformarsi in intolleranza politica, come è successo più di una volta.
Vale quindi anche per il cristianesimo, considerato come una delle realtà vissute dall’uomo, la legge della imperfezione e della minaccia. La sua influenza politica positiva non è garantita in modo automatico. Questa promessa non gli è stata proprio fatta e gli uomini di Chiesa, nelle loro attività politiche, non dovrebbero mai dimenticarlo. Ciò non cambia nulla al fatto che lo Stato è societas imperfecta e per questo cerca qualche cosa di «altro» che lo possa completare e offrirgli le energie morali che non può creare da solo. Dove le può trovare? Se facciamo un inventario delle possibilità esistenti nel mondo e diamo un’occhiata a eventuali altre soluzioni, ci si offrono — al di fuori del cristianesimo — solo due alternative: il tentativo di un ritorno al pre-cristiano, per esempio a un aristotelismo purificato, oppure il collegamento con culture non europee da una parte e con l’islam dall’altra. Ma la ricostruzione del precristiano rimane pur sempre una astrazione non sostenibile. Le visioni del mondo da laboratorio che ci vengono tanto spesso proposte sono prodotti artificiali che, nel migliore dei casi, non valgono come modello universale. Un esempio di questa impostazione è il progetto di Karl Jaspers. Jaspers pensava di avere trovato nella sua filosofia esistenziale un modello universale che potesse subentrare al cristianesimo, tacciato di particolarismo (10). Oggi non sono più molti a conoscere la sua filosofia. Tali iniziative non superano mai lo stadio dell’esperimento intellettuale interessante. Manca loro il soffio di vita di una realtà storica matura. L’islam, in quanto realtà che si muove alla ribalta della storia come alternativa alle forme di Stato nate dal cristianesimo, dovrebbe senz’altro ricevere maggiore attenzione di quanto non sia stato fatto finora. Ma è a tutti noto che l’islam si presenta proprio come contromodello rispetto alla democrazia pluralista e non può quindi diventare la forza che possa dare fondamento a essa. Rimane, quindi, che questa democrazia è un prodotto della commistione fra eredità greca e cristiana e che anche perciò può sopravvivere solo mantenendo il collegamento con queste radici fondamentali (11).
Se non sapremo riconoscere questa realtà, e non impareremo a vivere la democrazia in accordo con il cristianesimo e il cristianesimo in accordo con il libero Stato democratico, nel gioco perderemo certamente la democrazia.
III. L’imprescindibilità del cristianesimo nel mondo moderno
Rimane aperta la questione: come possiamo recepire correttamente l’autocritica del cristianesimo che abbiamo delineato? Come può il cristianesimo, senza essere politicamente strumentalizzato e senza, viceversa, assorbire completamente la sfera politica, diventare per essa una forza positiva? Per analogia con lo schema già utilizzato per la critica vorrei, in questa ultima serie di riflessioni, abbozzare in tre punii anche la risposta.
1. Il cristianesimo non ha mai, contro le sue falsificazioni, situato il messianismo nell’ambito politico. Al contrario, fino dall’inizio, ha sostenuto che la politica appartiene, alla sfera della razionalità e dell’ethos. Ha insegnato e reso possibile l’accettazione dell’imperfetto. In altri termini: il Nuovo Testamento conosce un ethos politico, ma nessuna teologia politica. Proprio attraverso questa distinzione corre la linea di demarcazione che Gesù stesso e poi, molto esplicitamente, le lettere apostoliche hanno tracciato fra cristianesimo e fanatismo [Schwarmerei]. Per quanto frammentari e occasionali possano singolarmente essere i diversi pronunciamenti del Nuovo Testamento in campo politico, sono assolutamente concordi e chiari in questa impostazione di fondo. Pensiamo al racconto delle tentazioni di Gesù con le loro implicazioni politiche, al racconto della moneta del tributo che appartiene all’imperatore, o alle esortazioni politiche nelle lettere di Paolo e di Pietro, o anche all’Apocalisse, per tanti aspetti così diversa: si rifiuta sempre l’esaltazione entusiastica che vuole fare del Regno di Dio un programma politico (12). Rimane sempre valido che la politica non è l’ambito della teologia, ma dell’ethos che certamente deve, in ultima analisi, fondarsi teologicamente. Proprio in questo modo il Nuovo Testamento rimane fedele al suo rifiuto della giustificazione mediante le opere, perché teologia politica, in senso stretto, significa che la perfetta giustizia del mondo deve essere prodotta mediante la nostra opera, che la giustizia nasce come opera e solo come opera. La giustizia è possibile e viene fatta. Quando invece lo Stato viene fondato sull’ethos, l’uomo viene certamente coinvolto, ma resta di Dio quello che è di Dio. La derivazione della giustizia dello Stato dall’ethos, e non dalle strutture, significa il riconoscimento della imperfezione dell’uomo. Questa visione è umanamente realistica, cioè ragionevole e teologicamente vera. Il rifiuto delle opere non si dirige contro la morale; al contrario, solo la perseveranza nella moralità ci fa rimanere fedeli a questo dato del Nuovo Testamento. Il coraggio della razionalità, che è coraggio di riconoscere l’imperfezione umana, ha bisogno delle promesse cristiane per mantenersi fermo al suo posto di combattimento: la promessa respinge il mito, l’esaltazione e le sue promesse pseudo-razionali.
2. La fede cristiana risveglia la coscienza e fonda l’ethos; dà alla ragione pratica contenuto e itinerario. Il vero pericolo del nostro tempo, il nòcciolo della nostra crisi culturale è la destabilizzazione dell’ethos, che deriva dal fatto che non siamo più in grado di afferrare la ragione della moralità e abbiamo ridotto la ragione nell’ambito del calcolabile. Per sua propria natura, ogni tentativo di perfezionare e liberare l’uomo e le realtà umane dal di fuori, a partire dal quantitativo e dal manipolabile, deve necessariamente fallire. Questi tentativi portano con sé, nella loro stessa impostazione, la subordinazione dello spirituale al quantitativo, la subordinazione della libertà alla costrizione. La liberazione dalla morale può essere soltanto, per sua propria natura, liberazione per la tirannia. Non costituisce una via di uscita relegare la morale nell’ambito soggettivo, perché in questo modo la morale scompare in senso stretto come forza efficace nell’ambito pubblico (13). Non è neppure una via di uscita sostituire la morale con il calcolo perché in questo modo, come morale, viene di nuovo eliminata. Non vi è niente che ci possa dispensare dal dovere di recuperare un ampio settore della ragione, dal dovere di imparare di nuovo che la ragione morale è ragione. Questo significa, per lo Stato, che la società non è mai compiuta e che deve essere sempre di nuovo costruita a partire dalla coscienza, solo di lì può trarre la sua sicurezza. Questo significa, inoltre, che l’atto fondamentale per lo sviluppo e la sopravvivenza di società giuste è l’educazione morale, nella quale l’uomo impara a usare la sua libertà. I greci avevano assolutamente ragione quando facevano dell’educazione il concetto centrale della loro soteriologia e vedevano nell’educazione la forza che si oppone alla barbarie. Quando la morale viene considerata superflua, la corruzione diventa normale; e la corruzione corrompe insieme i singoli e gli Stati.
Tuttavia l’ethos non si fonda da sé, stesso. Anche l’ethos illuministico che tiene ancora insieme i nostri Stati vive della eredità del cristianesimo, che gli ha dato i fondamenti della sua razionalità e della sua intima coesione. Quando il fondo cristiano viene tolto via del tutto, niente sta più insieme. Lo vediamo oggi nella progressiva dissoluzione del matrimonio come forma fondamentale della relazione tra i sessi, a cui consegue la riduzione del sesso a una specie di piacevole droga di facile acquisizione. La lotta delle generazioni tra di loro, la lotta dei sessi tra di loro, la spaccatura tra spirito e materia sono conseguenze inevitabili di questi presupposti. Osserviamo lo stesso processo dissolutivo in relazione alla vita. Quando si stabilisce una specie di consenso sul fatto che i bambini, che si presume nasceranno tarati, devono essere abortiti per risparmiare a sé e agli altri il peso delle loro esistenze, vuole dire che tutti gli handicappati sono fatti oggetto di disprezzo. È come se si dicesse loro che esistono soltanto perché il progresso della scienza non era ancora sufficiente. Si potrebbe continuare, ma l’essenziale è questo: la ragione che si chiude su sé stessa non rimane ragionevole, così come lo Stato che vuole essere perfetto diventa tirannico. La ragione ha bisogno di una rivelazione per potere operare efficacemente come ragione. Il rapporto dello Stato con il fondamento cristiano è indispensabile perché lo Stato possa rimanere ed essere pluralistico.
3. Qui tocchiamo certamente il punto nevralgico nei rapporti fra cristianesimo e democrazia pluralistica. Da noi, nessuno contesta il diritto al cristianesimo — come agli altri gruppi sociali — di coltivare la sua scala di valori e di sviluppare la sua forma di vita, cioè di agire come una forza sociale fra le altre. Solo che questo ripiegamento nel privato, questa sistemazione nel Pantheon di tutti i possibili sistemi contraddice la pretesa di verità della fede che, in quanto tale, è una pretesa di riconoscimento pubblico. Robert Spaemann, a questo proposito, parla di una tendenza fatale delle Chiese cristiane di comprendersi come parte dell’insieme «forze sociali», il che comporta automaticamente la revoca della propria pretesa di verità ed elimina con ciò lo specifico della Chiesa e quello che la rende anche «un valore» per lo Stato. Spaemann sostiene invece che la Chiesa non può ritirarsi nel ruolo di rappresentanza di un «bisogno religioso», ma deve comprendere sé stessa «come luogo di una rilevanza pubblica assoluta, che supera lo Stato e che si legittima in base a una pretesa divina». Così risulta chiaro che proprio questa autocomprensione non può trovare alcuna adeguata rappresentazione nella sfera del diritto statale (14). Ci troviamo di fronte a una aporia: se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non è più per lo Stato quella di cui lo Stato ha bisogno, se però lo Stato la accetta, smette di essere pluralistico e così sia lo Stato che la Chiesa perdono sé stessi.
Per arrivare a un equilibrio fra queste due possibilità — limite si è lottato soprattutto nella Chiesa occidentale in tutti i secoli. Da tale equilibrio dipendono la libertà della Chiesa e la libertà dello Stato. A seconda della situazione storica è maggiore il pericolo di eliminare l’uno o l’altro dei due poli. Nell’attuale situazione generale della cultura il pericolo teocratico è scarso: si affaccia tutt’al più dove il connubio tra cristianesimo e marxismo evoca il miraggio di un Regno di Dio da costruire politicamente. In generale, nel secolo contemporaneo è chiaro che la pretesa di riconoscimento pubblico della fede non può compromettere il pluralismo e la tolleranza religiosa dello Stato. Ma da qui non si può dedurre una piena neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve riconoscere che un patrimonio fondamentale di valori, fondati sulla tradizione cristiana, è il presupposto della sua consistenza. Deve in questo senso semplicemente, per così dire, riconoscere il proprio luogo storico, il proprio humus da cui non si può separare del tutto senza distruggersi. Deve imparare che vi è un patrimonio di verità che non è sottoposto al consenso, ma lo precede e lo rende possibile (15).
Mi si permetta in conclusione di ricorrere di nuovo a un esempio, che riassume tutto quanto si è detto e nel quale diventa percepibile tutta la drammaticità della cosa. La battaglia per i crocifissi nelle scuole, che viene condotta oggi in Polonia e che, al tempo del Terzo Reich, fu condotta dai nostri genitori in Germania ha un carattere assolutamente sintomatico. Per i genitori polacchi — come allora per i nostri — il crocifisso nella scuola è il segno di un ultimo brandello di libertà, che non ci si vuole lasciare strappare dallo Stato totalitario. È la garanzia di una dignità umana nella cui abolizione i genitori vedono la pretesa dello Stato di disporre liberamente degli uomini pretesa che non si lascia più misurare dalla Croce e che, dunque, non ha più alcuna misura. Quegli uomini lottano per il riconoscimento pubblico del cristianesimo e lottano per il patrimonio di dignità e di misura umana di cui anche lo Stato ha bisogno. Se non abbiamo però la forza di comprendere e di conservare questi segni nella loro imprescindibilità, il cristianesimo diventa qualcosa di cui si può fare a meno. Ma lo Stato non diventa per questo più pluralistico e più libero, bensì rimane senza fondamenti. Lo Stato ha bisogno di segni pubblici della realtà che lo sostiene. Anche i giorni di festa, come configurazione pubblica del tempo, hanno lo stesso significato.
Per questo il cristianesimo deve difendere tali segni pubblici della sua rilevanza per gli uomini. Però, lo può fare solo se lo sostiene la forza del riconoscimento pubblico.
In questo consiste la sfida. Se non siamo coscienti e non sappiamo convincere, non abbiamo alcun diritto a reclamare un riconoscimento pubblico. Se le cose stanno così, siamo superflui e lo dobbiamo riconoscere. Allora, però, con la nostra stessa mancanza di convinzione priviamo la società di ciò che le è oggettivamente indispensabile: i fondamenti spirituali della sua umanità e della sua libertà. La sola forza, con la quale il cristianesimo può ottenere il riconoscimento pubblico, è in fondo la forza della sua intrinseca verità. Questa forza però è oggi indispensabile come sempre, perché l’uomo senza verità non può sopravvivere. Questa è la sicura speranza del cristianesimo, questa è la gigantesca provocazione che lancia a ciascuno di noi.
Joseph card. Ratzinger
NOTE
(1) E. W. Böckenförde, Staat – Gesellschaft – Kirche, Friburgo in Brisgovia 1982 (vol. 15 di Böckle – Kaufmann e altri, Christlicher Glaube in moderner Gesellschaft), p. 67.
(2) Cit. in K. Löw, Warum fasziniert der Komrnunismus?, Colonia 1981, p. 87; sulla questione in generale cfr. R. Spaemann, Zur Kritik der politischen Utopie, Stoccarda 1977.
(3) Su Bacone cfr. M. Kriele, Befreiung und politische Aufklärung, Friburgo in Brisgovia 1980, pp. 77-82, su Comte cfr. H. de Lubac, Die Tragödie des Humanismus ohne Gott, Salisburgo 1950, pp. 109-216. Sulla problematica che viene qui affrontata, da un punto di vista generale cfr. J. H. Tenbruck, Die unbewältigten Sozialwissenschaften oder Die Abschaffung des Menschen, Graz 1984, soprattutto pp. 230-243.
(4) Cfr. M. Kriele, op. cit., p. 76.
(5) R. Guardini, Religiöse Gestalten in Dostojewskijs Werk, 6a ed., Monaco di Baviera 1977, p. 427.
(6) Cfr. H. Kuhn, Der Staat, Monaco di Baviera 1967. pp. 80 ss., 98 ss. ecc.
(7) Ho cercato di riassumere la mia interpretazione della civitas Dei di Agostino nel mio volumetto Die Einheit der Nationen, Salisburgo 1971, pp. 69-108 [tr. it. L’unità delle nazioni, Morcelliana, Brescia 1973].
(8) In mezzo a una bibliografia sterminata, vorrei nominare qui soltanto un testo per me particolarmente illuminante: U. Duchrow, Christenheit und Weltverantwortung, Traditionsgeschichtliche und systematische Struktur der Zweireichelehre, Stoccarda 1970, pp. 437-573.
(9) L’avere messo in luce con grande penetrazione questi rapporti è uno dei meriti permanenti di E. Peterson, cfr. soprattutto Theologische Traktate, Monaco di Baviera 1951.
(10) Cfr. H. Saner, Karl Jaspers in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Amburgo 1970, pp. 103- 110, e anche la dissertazione, ancora inedita, all’università di Ratisbona di J. Zöherer, Der Glaube an die Freiheit und der historische Jesus. Eine Untersuchung der Philosophie Karl Jaspers’ unter christologischem Aspekt, 1982, capitolo V.
(11) A questo bisogna aggiungere, a titolo di maggiore precisione, che la democrazia, nella sua accezione contemporanea, non deve essere ricondotta meccanicamente a tali radici. Di fatto si è formata nel particolare contesto del modello congregazionalistico americano, cioè al di fuori della tradizione classica europea e dei rapporti Stato-Chiesa che si sono in essa storicamente sviluppati. Per questo l’opinione che l’illuminismo abbia condotto alla democrazia può essere accettata solo con molte condizioni, come ha mostrato Hannah Arendt nel suo libro On Revolution, Londra 1962. Ancora meno ha potuto aprirgli la strada la Riforma europea con la sua concezione della Chiesa legata allo Stato. Tutto questo non deve invece impedire di scorgere l’esistenza di fondamentali elementi democratici nella società cristiana pre-rivoluzionaria. Per un breve scorcio storico cfr. G. Bien e H. Maier, Demokratie, in J. Ritter (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, II, Basilea-Stoccarda 1972, pp. 50-55, con ricca bibliografia; importante sul punto H. Maier, Katholizismus und Demokratie, Friburgo in Brisgovia 1983.
(12) Degna di nota, a questo proposito, l’interpretazione di E. Käsemann di Rm 13, 1-7, in E. Käsemann, An die Römer, Tubinga 1973, pp. 334-344.
(13) Per questo problema rimando a J. Finnis, Fundamentals of Ethics, Georgetown 1983.
(14) Cfr. R. Spaemann, Introduzione a P. Koslowski, Gesellschaft und Staat. Ein Unvermeidlicher Dualismus, Stoccarda 1982, p. XVII; in Koslowski stesso cfr. soprattutto pp. 301 ss.
(15) Cfr. K. Forster, Glaube und Kirche im Dialog mit der Welt von heute, II, Würzburg 1982, soprattutto pp. 344-350.