di Valter Maccantelli
Lunedì 13 maggio, nella cittadina di Singa, nel nord del Burkina Faso (ex Alto Volta), in Africa occidentale, quattro fedeli cattolici sono stati uccisi da un gruppo di uomini armati mentre partecipavano a una processione in onore della Madonna. È il terzo attacco omicida contro la comunità cristiana del Paese africano nelle nel giro di due settimane.
Infatti, il giorno precedente l’omicidio un gruppo di uomini armati aveva fatto irruzione nella chiesa cattolica di Dablo, uccidendo, durante la celebrazione eucaristica, don Simeon Yampa e cinque fedeli. Prima di allontanarsi, gli armati hanno ripetutamente mitragliato il tabernacolo. Il 29 aprile, durante un assalto alla chiesa protestante di Silgadji avvenuto con modalità analoghe, sono stati uccisi il pastore, Pierre Ouedraogo, e quattro fedeli. E il 3 marzo è stato rapito don Joel Yougabarè, del quale non si hanno ancora notizie.
Questa micidiale sequenza di attentati contro i cristiani colpisce un Paese che, fino a pochi anni fa, era considerato relativamente immune da infiltrazioni jihadiste. A partire dal 2016 questa ex colonia francese è invece diventata un terreno di conquista e di azione per il terrorismo islamico.
Per cogliere la natura – e la grande pericolosità – di questo mutamento occorre prendere in considerazione il quadro globale del jihadismo, attraversato da una competizione tra due modelli organizzativi: quello rappresentato da al-Qaeda e quello che si rifà all’esperienza dell’autoproclamato califfato di Daesh. Pur accomunati dal fine ultimo – l’instaurazione di una società governata dalla shari’a –, i due modelli differiscono nelle strategie di attuazione.
Al-Qaeda si basa sul format del network terroristico “classico”, che vive nell’ombra e che colpisce per scatenare presunte dinamiche socio-politiche latenti allo scopo di rovesciare i governi ritenuti corrotti e falsamenti islamici. Il modello Daesh mira invece a imporre il ruolo-guida di uno Stato integralmente islamico – il famoso califfato –, destinato ad attrarre a sé il resto del mondo.
Si è così scatenata una competizione che ha in palio il prestigio e la devozione delle masse islamiche e che consiste nel dimostrare il proprio valore colpendo i nemici dell’islam.
Entrambi i fronti hanno vissuto, però, momenti difficili. Anzitutto al-Qaeda ha visto la generazione dei propri fondatori decimata dalla reazione statunitense all’Undici Settembre, quindi Daesh ha perso, nell’ultimo anno, quasi tutto il notevole territorio che aveva conquistato in Siria.
Queste vicissitudini hanno comportato uno spostamento del baricentro logistico e operativo delle galassie terroristiche, dai tradizionali teatri arabi e mediorientali a zone ritenute meno presidiate dalle forze di sicurezza avversarie: il sud-est asiatico e, appunto, l’Africa saheliana.
Nel Sahel il terrorismo jihadista ha trovato alcuni fattori ambientali che ne hanno favorito lo sviluppo di una forma particolarmente virulenta: una frammentazione tribale molto pronunciata, forti aspirazioni irredentiste di alcuni gruppi etnici come i Tuareg e i Fulani, uno spiccato nomadismo sia agricolo sia commerciale e una grave situazione economica che alimenta il fuoco della contesa per le risorse.
In quell’area i jihadisti hanno trovato anche un’altra cosa molto importante: un’inesauribile fonte di finanziamento basata sul controllo degli enormi traffici criminali dell’area. Armi, droga, esseri umani, sigarette, medicinali contraffatti scorrono a tonnellate verso l’Europa su quelle antiche rotte degli schiavisti.
Attualmente l’ultra-radicalismo islamico nel Sahel si è organizzato in due “cartelli”: il GSIM (Gruppo per la Salvaguardia dell’Islam e dei Musulmani), che orbita attorno ad al-Qaeda, e il SIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara), che gravita attorno a Daesh. Il SIGIS – che ha raccolto quello che resta del più noto Boko Haram – agisce principalmente nel bacino del Lago Ciad, mentre il GSIM controlla le aree orientali fra il Mali, il Burkina Faso, nonché le regioni meridionali di Algeria e Libia.
La sigla più famosa nel GSIM – capeggiato da Iyad Ag-Ghaly, già uomo di fiducia di Osama bin Laden (1957-2011) – è certamente al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), ma, guardando specificatamente al Burkina Faso, bisogna considerare due sigle meno conosciute: Ansar al-Din, gruppo di riferimento per i miliziani di origine Tuareg (che nel Paese sono 350mila) e il Fronte di Liberazione del Macina (FLM), che raccoglie attivisti prevalentemente di etnia Fulani.
Entrambe queste organizzazioni sfruttano la rete di relazioni tribali che si dipana nella zona a cavallo fra il Mali e il Burkina Faso, reclutando forza lavoro nell’ampio sottobosco dei traffici criminali e delle bande armate che li gestiscono. Resasi ardua da praticare la rotta maliana, a ovest, a causa dall’intervento militare francese, così come pure quella centrale, a est, oggetto di una pesante militarizzazione ostile, queste organizzazioni hanno individuato nel Burkina Faso il nuovo ventre molle attraverso cui avvicinarsi alla fascia sahariana onde raggiungere il Mediterraneo.
È diventato quindi importante destabilizzare il Paese, fomentando lo scontro religioso, etnico e sociale. Sotto molti punti di vista, le comunità cristiane rappresentano il bersaglio più remunerativo per il perseguimento di questa politica: sono una minoranza (il 23% contro il 54% di musulmani), rappresentano una religione inaccettabile per il fondamentalismo islamico e mediante un’abile operazione propagandistica sono stati etichettati come collusi con il colonialismo europeo. A renderli ancora più appetibili come capri espiatori contribuisce molto anche il fatto che quell’Occidente la cui amicizia viene loro imputata come una sentenza capitale spesso, reagisce in maniera molto tiepida, quando non con totale disinteresse, agli attacchi che subiscono.
Se, come sembra logico dedurre, hanno origine nella galassia qaedista del GSIM, gli attentati recenti contro i cristiani potrebbero essere la risposta propagandistica al “grande successo” ottenuto dal network del Daesh nello Sri Lanka la Domenica di Pasqua.
Ma i tragici fatti del Burkina Faso (come quelli dello Sri Lanka) mettono almeno altre due evidenze. La prima è che non ci si può illudere che il terrorismo islamico sia stato sconfitto solo perché si sono vinte alcune battaglie pur importanti e nodali, e la seconda è che, al di là della spiegazione strumentale contingente, le comunità cristiane che vivono nelle aree interessate dal terrorismo rappresentano un nemico da eliminare con ogni mezzo.
Venerdì, 17 maggio 2019