Un elemento apparentemente marginale e in realtà onnipervasivo come la pubblicità, nella sua evoluzione attesta un cambio di paradigma, dal godimento (anche) estetico al mero consumo.
di Stefano Chiappalone
Nel brulicare di etichette urlate e toni accesi, di tanto in tanto tra gli scaffali del supermercato si affacciano discreti e silenziosi prodotti che sembrano provenire da un altrove: un altro luogo e un altro tempo. Prima o poi acquisterò il vaso bianco e blu delle amarene Fabbri, ornato di eleganti arabeschi, che rievoca quelli altrettanto ornati contenenti le spezie di un’antica farmacia. Nel reparto dedicato a schiume e accessori da barba si fa strada sempre più spesso qualche sussulto vintage, felicemente mai spento invece nel mondo del fumo lento (sigari e trinciati da pipa). Tuttavia, il vero monumento pubblicitario (che uso poco, ma tengo sempre in casa) è l’idrolitina, storica nel contenuto non meno che nel contenitore. La prodigiosa polverina che rende frizzante l’acqua del rubinetto è inclusa in una scatola gialla stile primo Novecento, ancora recante negli stemmi sui lati traccia araldica dell’incarico ricevuto dalla Real Casa e da papa Pio XI (1922-1939) che se ne vollero rifornire. A completare il tutto seguono i versi del poeta Carlo Zangarini (1873-1943): «Diceva l’oste al vino tu mi diventi vecchio/ ti voglio maritare all’acqua del mio secchio./ Rispose il vino all’oste: fai le pubblicazioni/ sposo l’Idrolitina del cavalier Gazzoni».
Ora, ciascuno di questi prodotti è paragonabile a un’operazione di carotaggio, vale a dire al prelevamento di un campione dal sottosuolo che ci fa rivedere il “mondo estetico” dei nostri nonni e bisnonni, ciò da cui i loro occhi erano attratti ben prima che la pubblicità televisiva reclamizzasse fin dentro casa prodotti dal packaging e dal design progressivamente standardizzati sui nostri schermi sempre più piatti e imponenti e che l’indubbia praticità dei centri commerciali finisse per rendere inevitabilmente più artificiale l’ambiente in cui siamo soliti fare la spesa.
Non è solo questione di ambienti ed etichette vintage e di tinte pastello, né la pubblicità (di ieri e di oggi) si limita alla sola confezione o allo spot. Essa racchiude un’ampia gamma di messaggi che giungono fino all’insegna dell’esercizio (a proposito: anche qui c’è stata una perdita linguistica con la rarefazione di scritte come «Spaccio» o «Cantina sociale», a titolo esemplificativo e non esaustivo), allo stesso arredamento (che nelle grandi catene è uniformemente prestabilito, poco importa che siate a Tokyo o a Parigi). Resistono le botteghe gastronomiche delle città d’arte, talora mescolando storia e kitsch, e meglio ancora quei negozietti tipici, nonché unici, di qualche luogo sperduto di montagna, che sovente costituiscono il solo riferimento commerciale del borgo assommando in sé la funzione di bar, alimentari, tabaccaio e molto altro.
Ma torniamo alla pubblicità, elemento in apparenza marginale, in realtà onnipervasivo, che reca certamente il segno di un cambio di paradigma. Dalla pubblicità artistica, con netta prevalenza dello stile Liberty, si passa nel corso del Novecento alla finalità direttamente commerciale (meccanismo in fondo simile a quello, di più lungo periodo, che ha visto il passaggio dal simbolo al mero ornamento e infine all’abbandono dell’ornamento stesso, o dall’architettura all’edilizia, dalle case alle scatole di cemento).
Per “rifarsi gli occhi”, come si suol dire, e tornare indietro di qualche decennio o di un secolo intero basta cercare «pubblicità vintage» su qualsiasi motore di ricerca. Persino una zuppa viene nobilitata artisticamente, e non mi riferisco alla celeberrima e celebrata Campbell in serie di Andy Warhol (Andrea Warhola jr., 1968-1987), bensì a quella meno nota e a mio parere più suggestiva del pittore olandese Johann Georg van Caspel (1870-1928). Nel 1899 il potenziale acquirente della zuppa prodotta dalla W. Hoogenstraaten & Co. veniva richiamato da una ordinaria scena casalinga – una donna, con la tipica cuffietta, intenta ad aprire la scatola e versarne il contenuto nel piatto – che grazie alla maestria di van Caspel ed evidentemente al buon gusto del committente e della clientela dell’epoca assumeva i toni luminosi e intimi delle scene di vita quotidiana dipinte da quell’altro grande olandese che fu Jan Vermeer di Delft (1632-1675).
Paragonando tutto questo ai toni e colori che dai supermercati passano alle nostre dispense, sicuramente qualcosa è cambiato perché dalla pubblicità come opera d’arte si passasse alla pubblicità strettamente commerciale, alla mera vendita che fa leva su (e talora crea) bisogni emotivi e meccanismi compulsivi piuttosto che su un godimento (anche) estetico. Certamente, nel frattempo sono mutati anche gli strumenti, con l’intervento della fotografia e dei mezzi televisivi e informatici, ma neanche questo può spiegare il passaggio dal fruitore (nella duplice accezione di fruor che è insieme fruire e godere) al consumatore. È cambiata solo la tecnologia o anche l’antropologia? È cambiata la pubblicità o è cambiato il pubblico?
Sabato, 19 marzo 2022