di Leonardo Gallotta
La quarta cornice del Purgatorio dantesco è descritta nei canti XVII e XVIII. Il peccato che ivi si sconta è quello dell’accidia, ossia l’insufficiente amore per il bene. Dice infatti il Poeta: «L’amor del bene, scemo/ del suo dover, quiritta si ristora» (XVII, vv. 85-86). E qual è il contrappasso? Come in vita furono lenti a volgersi decisamente al bene, così ora, nella quarta cornice, i peccatori sono costretti a correre senza sosta, gridando esempi di sollecitudine.
Nel canto XVII, a dire il vero, la prima parte è ancora dedicata agli esempi di ira punita. Ma poi Dante sente una voce (è quella di un angelo) che indica il punto in cui si sale alla quarta cornice e si accorge di un «muover d’ala» (v. 67) che gli fa sparire una delle sette “P” incise sulla fronte con queste parole: «Beati/ pacifici che son sanz’ira mala» (vv. 68-69). Giunti sul ripiano della nuova cornice, a Dante (Alighieri, 1265-1321) e alla sua guida, Virgilio (P. Virgilio Marone, 70 a.C.-19 d.C.), s’impone una sosta di cui il secondo approfitta per spiegare al primo quali siano i princìpi che fondano l’ordinamento morale del Purgatorio. L’amore, dice Virgilio, è proprio di ogni creatura. Tutti infatti necessariamente desiderano e amano qualcosa. Ma questo amore può essere o “naturale”, cioè innato e istintivo o “d’animo”. Per quello “naturale” non sussiste problema morale, ma per quello d’animo o elettivo sì. Quest’ultimo può infatti errare in tre modi: 1. si volge a un oggetto peccaminoso e quindi è da condannare; 2. si volge a qualcosa di buono, ma vi tende con vigore eccessivo; oppure 3. si volge a qualcosa di buono, ma con forza scarsa.
Che il peccato sia caratterizzato da uno squilibrio dovuto alla troppa o alla poca passione verso ciò da cui si è attratti e a cui ci si volge è un concetto proprio della concezione tomistica, fondata sull’impianto aristotelico. Ecco allora che, nelle prime tre cornici, si purifica chi si è rivolto coscientemente al male e lo ha desiderato per il prossimo (superbia, invidia e ira), laddove nella quarta vi è chi si è mostrato negligente nell’amare Dio e i beni spirituali, cioè gli accidiosi. Nelle ultime tre cornici, non esplicitamente citate da Virgilio e lasciate all’intuizione di Dante, si sconteranno invece i peccati commessi “per troppo vigore”, cioè per attrazione e per passione eccessiva, vale a dire l’avarizia, la gola e la lussuria.
Ora, Dante vorrebbe un chiarimento su un passo del discorso di Virgilio: qual è la vera natura dell’amore? Agli inizi del canto XVIII, riferendosi con tono polemico ed aspro («fieti manifesto/ l’error de’ ciechi che si fanno duci») alla credenza che ogni amore, essendo inclinazione naturale, sia sempre «laudabil cosa» (XVIII, v. 36), Virgilio risponde confutando l’errore dei maestri di poesia riveriti proprio da Dante, i Fedeli d’Amore. In potenza, dice Virgilio, l’amore è sempre laudabile, ma, attuandosi, può piegarsi verso bellezze false ed essere quindi censurabile. Come suggerisce lo studioso Umberto Bosco (1900-1987), nel Purgatorio Dante sottopone a critica radicale addirittura il concetto base della poesia stilnovistica: quello dell’amore come “signore” cui è vano resistere. In un amore travolgente non c’è squisitezza d’animo “gentile”, ma solo debolezza. Conclude poi Virgilio che se anche l’amore sorge per istinto naturale, l’uomo resta pur sempre libero di accoglierlo o di respingerlo. È la «nobile virtù» (v. 73) del libero arbitrio.
Il poeta latino tiene a precisare di volersi limitare solo alla spiegazione di quanto si può comprendere con facoltà propriamente umane, sottolineando che sulle origini metafisiche dell’amore saprà dare risposte più profonde Beatrice, una volta che sarà lei ad avere preso in carico Dante per fargli da guida. Dice Virgilio: «Quanto ragion qui vede/ dir ti poss’io; da indi in là t’aspetta/ pur a Beatrice, ch’è opra di fede» (vv. 46-48).
Sabato, 2 novembre 2019