Le guerre moderne, sempre più asimmetriche, tra le “armi non convenzionali” vedono un ruolo crescente del commercio internazionale, delle valute e della finanza. Se il mercato delle materie prime, a partire da quelle energetiche, perdesse l’ancoraggio al dollaro Usa, le implicazioni economico-finanziarie e geopolitiche sarebbero di portata storica: si rischierebbe di scivolare in un mondo caotico, sempre più frammentato e multipolare. È in tale quadro che si inserisce la sfida di Cina e Russia al Re dollaro.
di Maurizio Milano
Il dollaro Usa è la divisa di riserva del mondo: dal lontano 1944, quando nella Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite tenutasi a Bretton Woods venne costituito un sistema aureo di tipo indiretto – da cui la definizione di gold “exchange” standard –, imperniato, appunto, sul dollaro statunitense. Il nuovo sistema monetario si basava su rapporti di cambio fissi tra le principali divise nazionali e il dollaro Usa, con un ancoraggio del dollaro all’oro a 35$Usa all’oncia: ancorché sulle banconote dei principali Paesi del mondo figurassero ancora scritte del tipo “pagabile a vista al portatore”, era preclusa ai cittadini la possibilità di convertire le banconote nazionali in metallo prezioso; le Banche centrali aderenti al sistema, invece, potevano scambiare le proprie divise in dollari e questi in oro, presso la Federal Reserve statunitense (Fed). Ciò creò la percezione che detenere dollari oppure oro fosse, in fondo, la stessa cosa: non era così. La Fed, infatti, facendo affidamento sul fatto che gli altri Paesi erano giocoforza tenuti a fare riferimento alla divisa statunitense, ne approfittò per inflazionare il sistema, aumentando la produzione di dollari ben al di là delle riserve auree detenute. Gli Usa, anche grazie a tale “leva monetaria”, poterono allargare progressivamente il perimetro dello Stato varando il programma di welfare soprannominato «Great Society», lanciato nel 1964 dal Presidente Lyndon B. Johnson (1963-1969), oltre a finanziare le crescenti spese per la guerra in Vietnam (1955-1975). Con la “monetizzazione” parziale del proprio debito, una parte dei costi della crescita statunitense era quindi “scaricata” implicitamente sugli altri Paesi, per di più in modo assai poco trasparente. Il privilegio di godere dello status di divisa di riserva del mondo si basava sulla preminenza economica, finanziaria, tecnologica e militare degli Stati Uniti ed era giustificato dal loro ruolo di argine del blocco sovietico, di tutela del mondo libero con la garanzia della “pax americana”, precondizione per la crescita economica e sociale.
Il sistema monetario definito negli Accordi di Bretton Woods collassò il 15 agosto del 1971, con la comunicazione a sorpresa del Presidente statunitense Richard M. Nixon (1969-1974) della sospensione, con effetto immediato, della convertibilità del dollaro in oro, seguita nel dicembre dello stesso anno dallo «Smithsonian Agreement», che pose fine agli accordi di cambio fisso tra le principali divise mondiali e il dollaro stesso. Il mondo si rese conto, di colpo, che “il Re era nudo”: l’enorme massa di dollari messi in circolazione dagli Stati Uniti non era coperta dall’oro detenuto; non era quindi vero che detenere dollari oppure oro fosse davvero la stessa cosa, come peraltro aveva già denunciato nel 1965 il generale Charles de Gaulle, Presidente della Francia dal 1959 al 1969. Svelato definitivamente il bluff americano, il dollaro divenne a quel punto una divisa fiat a tutti gli effetti, cioè “non convertibile” e accettata come mezzo di pagamento solo in quanto dichiarata a corso legale, sostenuta ancora dalla propria supremazia economica e militare ma col rischio di perdere progressivamente di centralità al venir meno della fiducia degli altri Paesi, mettendo così a rischio la tenuta del proprio sistema economico e finanziario.
Il Presidente Nixon, con l’aiuto del Segretario di Stato,Henry Kissinger (1973-1977), corse ai ripari con la geniale trovata di ancorare il dollaro al petrolio, stringendo nel 1974 un accordo con la famiglia reale Saud: a fronte della protezione militare garantita dagli Usa, l’Arabia Saudita si impegnava a scambiare il petrolio – di cui gli Stati Uniti erano ai tempi il maggiore importatore al mondo – esclusivamente contro il dollaro, e a reinvestire poi gli introiti in attività finanziarie statunitensi; nel 1975 anche gli altri Paesi riuniti nell’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, si accodarono alla decisione. Negli ultimi cinquant’anni, anche dopo avere perso la copertura aurea, gli Usa hanno potuto così mantenere inalterata la propria supremazia nel campo valutario e finanziario, passando, quasi senza soluzione di continuità, dal gold-exchange standard a quello che potremmo denominare, per analogia, oil-exchange standard, da cui il noto termine di “petrodollari”.
Con l’implosione dell’Unione sovietica a partire dal 1989-1991 e la fine della “guerra fredda”, il mondo da “bi-polare” è diventato “uni-polare”, andando così a rafforzare ulteriormente la supremazia mondiale incontrastata degli Usa, e del blocco dei Paesi alleati a leadership statunitense: il disavanzo commerciale statunitense iniziò a crescere a dismisura, insieme al deficit di bilancio (il cosiddetto twin deficit, il disavanzo “gemello”) e al debito federale. La «fine della storia», vaticinata nel 1992 dal politologo Francis Fukuyama, era una previsione destinata a essere presto smentita dai fatti: ciò nonostante, la supremazia valutaria e finanziaria statunitense, seppur caratterizzata da squilibri crescenti, è rimasta incontrastata a tutt’oggi. Per averne un’idea, è sufficiente considerare la distribuzione delle riserve valutarie delle varie Banche centrali del mondo: secondo dati del Fondo Monetario Internazionale, il peso del dollaro Usa, ancorché in calo rispetto ai livelli di inizio secolo, pesa ancora per il 59,1%, a fronte del 20,5% dell’euro e di un misero 2,7% della divisa cinese. Il dollaro Usa mantiene poi un assoluto dominio sui flussi commerciali e sui movimenti di capitale mondiali, sfiorando il 90% del totale. Ciò ha consentito alla Fed, fino ai giorni nostri, di proseguire con l’emissione di dollari “in eccesso”, monetizzando così in parte il debito del Paese a scapito dei partner commerciali, costretti a procurarsi dollari per le proprie importazioni, in particolare di greggio e materie prime, e a mantenere allo stesso tempo forti riserve valutarie in dollari e investimenti finanziari sul mercato statunitense. L’espansione iperbolica del Bilancio della Fed, e della principali Banche centrali mondiali, a partire dalla Grande Crisi Finanziaria del 2007-2008 e, ancor più, post-CoViD, ha determinato l’esplosione dell’inflazione a partire dallo scorso autunno: le tensioni inflazionistiche sono una delle attese e inevitabili conseguenze delle politiche monetarie e fiscali ultra-espansive, oltre che della gestione della crisi sanitaria con lockdown generalizzati negli ultimi 2 anni e quindi, negli ultimi mesi, dell’escalation del conflitto in Ucraina. Il rischio crescente di instabilità finanziaria a livello mondiale potrebbe spingere le varie Banche centrali a diversificare maggiormente le proprie riserve, diminuendo il peso dei Treasuries statunitensi, che presentano rendimenti negativi al netto dell’inflazione, a favore dell’Oro, il cui valore non è determinato “politicamente” e non è passibile, quando detenuto nel Paese, di subire “congelamenti” a seguito di sanzioni.
In tale quadro, la supremazia valutaria statunitense si trova ora sottoposta alla sfida cinese e russa. La Cina sta puntando sempre più sul cosiddetto “Petroyuan”, per aumentare l’importanza internazionale della propria divisa, il «Renminbi» (la «valuta del popolo», di cui l’unità di base si chiama appunto «Yuan»). Il tentativo cinese di ancorare allo yuan gli scambi di petrolio, di cui il Paese asiatico costituisce il maggior importatore al mondo, iniziò già nel giugno del 2017, con l’accordo con la Russia per potere pagare in yuan le importazioni di gas; in seguito, tali accordi vennero estesi anche all’Iran, all’Angola e al Venezuela. Nel marzo del 2018, la Cina introdusse, sullo Shanghai International Energy Exchange, i contratti future sul petrolio denominati in yuan, garantendone la copertura valutaria con l’oro per superare le reticenze degli investitori. L’iniziativa ha riscosso un buon successo ma non esiste ancora un consenso sufficientemente esteso nell’accettazione dello yuan come mezzo di pagamento: il renminbi, infatti, è considerato ancora troppo volatile, illiquido e rischioso.
Tutto dipenderà, quindi, dall’incremento dei volumi delle transazioni: si inserisce in tale prospettiva il tentativo cinese di convincere anche l’Arabia Saudita a negoziare in yuan una quota crescente dell’export di petrolio, visto che la Cina acquista più del 25% delle esportazioni di greggio del Paese arabo, approfittando anche della diminuita influenza dell’Amministrazione Biden sulla casa regnante wahabita. Un accordo della Cina con Riyad creerebbe poi probabilmente un effetto domino, spingendo anche altri Paesi produttori di petrolio a stringere accordi col colosso asiatico, facendo crescere enormemente i volumi transati sul petroyuan e aprendo così una breccia pericolosa nella diga che gli Usa hanno creato a protezione del proprio sistema valutario e finanziario. A distanza di cinquant’anni, la Cina sta quindi ripercorrendo la strada intrapresa da Nixon e Kissinger, tentando di passare dal petrodollaro al petroyuan. Resta da vedere se l’Arabia Saudita sarà davvero disposta a incamerare yuan al posto di dollari, rinunciando conseguentemente a investire almeno una parte dei lauti ricavati del proprio export sui mercati finanziari statunitensi, che rimangono quelli con maggiore spessore, liquidità e affidabilità.
La moneta gioca un ruolo fondamentale: la Cina è la seconda economia e il maggiore esportatore al mondo, un vero gigante economico, ma l’utilizzo dello yuan nei pagamenti globali è decisamente modesto, a ridosso del 2-3%, e quindi è un nano valutario e finanziario. La Cina rischia di rimanere bloccata nella «trappola del Renminbi»: solo aumentando la domanda interna, accettando disavanzi commerciali e un tasso di cambio determinato liberamente sui mercati valutari internazionali, con l’eliminazione delle restrizioni ai flussi di capitale in uscita, un po’ per volta potrebbero crearsi quella trasparenza e fiducia valutaria che sono necessarie a rendere il Renminbi una divisa di riserva a livello mondiale, non solo di nome ma anche di fatto, alla pari del Dollaro Usa, dell’Euro e dello Yen giapponese. Obiettivi difficili da raggiungere in un contesto in cui la crescita economica cinese, e la conseguente stabilità sociale e politica del Paese, appaiono sempre più minacciate dalla «trappola del debito» fuori controllo, dall’invecchiamento della popolazione e da una classe media che stenta a svilupparsi; per di più in un contesto di “de-globalizzazione”, che rischia di azzoppare la crescita dei Paesi che, come la Cina, sono trainati dalle esportazioni. L’abbinata tra petroyuan ed e-yuan – lo yuan digitale emesso dalla Banca centrale cinese – si configura come il tentativo, intelligente ma probabilmente velleitario, di aumentare l’uso della propria divisa a livello mondiale, nella prospettiva di intaccare la supremazia valutaria statunitense ai fini del raggiungimento delle proprie smodate ambizioni geopolitiche.
Smarcarsi dal dollaro fa gola non solo alla Cina ma anche a Venezuela e Iran, oltre a molti Paesi emergenti, tra i quali principalmente i membri del cosiddetto gruppo dei “BRICS”, di cui fanno parte, oltre alla Cina, il Brasile, la Russia, l’India e il Sud Africa: a fronte dell’incerta evoluzione del conflitto in corso in Ucraina, tali Paesi acquisirebbero così maggiore libertà d’azione nei confronti degli Usa, riducendo gli impatti di possibili future sanzioni o embarghi, imposti dalla Casa Bianca o dall’Unione Europea. È quanto sta cercando di fare specialmente la Russia, per ovvie ragioni. Negli ultimi due mesi, Mosca ha adottato una serie coordinata di interventi a supporto della propria divisa nazionale: ancorando il rublo all’oro, al petrolio e a un basket di materie prime; concedendo tassi molto remunerativi sui depositi; introducendo l’obbligo per gli esportatori di convertire in rubli la maggior parte dei flussi valutari in entrata nel Paese; accettando di scambiare petrolio contro yuan e rupie indiane. A tali misure si aggiunge il tentativo di sviluppare circuiti di pagamento alternativi allo SWIFT (acronimo di “Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication”), con sede legale a Bruxelles, in Belgio. In tal modo, la Federazione Russa è riuscita a riportare il cambio su livelli ancora più forti rispetto a quelli precedenti all’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio. Da un livello pari a circa 81 rubli per 1 $Usa pre-guerra e un picco del dollaro registrato nella prima decade di marzo a ridosso di 139, il rublo ha iniziato a recuperare terreno in modo marcato e veloce, portandosi in area 65-70 rubli per 1$Usa a inizio maggio: in altre parole, il rublo si è apprezzato di quasi il 20% rispetto ai livelli pre-conflitto (e pre-sanzioni). Sui livelli correnti la divisa russa è probabilmente sopravvalutata e non è quindi probabile che tale livello di cambio sia difendibile nel tempo, ma è un segnale chiaro che le sanzioni occidentali non hanno ottenuto, per lo meno finora, il desiderato effetto di indurre un prossimo collasso finanziario, e quindi economico, della Federazione Russa; che, evidentemente, si era preparata per tempo al conflitto e alla gestione delle prevedibili ritorsioni economico-finanziarie occidentali.
Siccome il dollaro Usa, come tutto il denaro fiat,ultimamente è solo “carta”, «il mercato del petrolio, e per estensione tutto il mercato globale delle materie prime – come ha scritto l’economista Gal Luft, dell’Institute for the Analysis of Global Security – rappresenta la polizza assicurativa dello status del dollaro come valuta di riserva. Se questo mattone viene rimosso, il muro inizia a crollare». Se il dollaro cessasse di essere la divisa di riserva mondiale potrebbe iniziare un lento tramonto dell’egemonia economica, finanziaria, tecnologica, politica e militare statunitense, come accadde al Regno Unito quando la sterlina inglese, nel lontano 1914, iniziò a perdere il proprio status mondiale di divisa di riserva per eccellenza. Il conflitto in Ucraina e la conseguente escalation sanzionatoria contro la Russia potrebbero avere come effetto indesiderato proprio l’accelerazione di tali tendenze alla “de-dollarizzazione”, col rischio di indurre un netto ridimensionamento della globalizzazione “politica” e “finanziaria”, nata dalle ceneri dell’URSS nel 1991 e centrata sul ruolo egemone statunitense e della sua divisa, e della connessa globalizzazione “economica”, che ha consentito anni di grande moderazione dei prezzi e l’emersione dalla povertà per oltre un miliardo di persone nel pianeta.
Il rischio che corre ora il mondo è quello di subire una frammentazione che potrebbe portare a una “geopolitica del caos” – per citare il titolo di un interessante testo del generale Carlo Jean (1936-), Presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica –, accelerando la transizione disordinata verso un mondo multipolare. L’utilizzo delle valute, e della finanza in generale, come “armi non convenzionali”, anche se risultasse efficace nel breve-medio periodo, rischierebbe nondimeno di innescare conseguenze non desiderabili su orizzonti più lunghi: se la “finanza” divenisse la prosecuzione della guerra con altri mezzi, sarebbero infatti inevitabili le ripercussioni negative anche a livello di relazioni commerciali e geopolitiche. Un tramonto del dominio degli Stati Uniti, che questo piaccia o meno, trascinerebbe giù inevitabilmente anche il resto dell’Occidente, a partire dall’Europa e dall’Italia, generando un caos in cui avremmo solo da perdere. L’enorme distanza sul piano valutario e finanziario tra gli Usa e l’Unione Europea, da un lato, e Cina, Russia e gli altri Paesi del gruppo BRICS o comunque emergenti, dall’altro, unitamente alla grande inerzia che impedisce di modificare imponenti stock e flussi valutari in modo consistente e veloce, non rende verosimile un rischio di alterazione, nei prossimi anni, degli equilibri finanziari mondiali e, attraverso di essi, anche di quelli economici e geopolitici.
Quello commerciale, valutario e finanziario, tuttavia, è un nuovo “fronte di guerra”, e non è per nulla verosimile che possa richiudersi a breve. Per evitare spiacevoli effetti boomerang, l’ Occidente – intendendo con questo termine le nazioni nate dal cristianesimo, dall’Europa «dall’Atlantico agli Urali», come amava dire San Giovanni Paolo II, di cui quindi fanno parte integrante anche i Paesi slavi come l’Ucraina e la Russia ortodossa, alla Magna Europa, comprendente anche le Americhe e l’Oceania –, dovrebbe prudenzialmente tenerne conto. A partire dalla definizione dei propri obiettivi, sia politici sia militari: per non rischiare di raggiungere, alla fine, risultati molto diversi da quelli immaginati.
Giovedì, 12 maggio 2022