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Dentro l’antro del Partito Democratico alla vigilia del dies fatalis

2 Marzo 2020 - Autore: Marco Respinti

di Marco Respinti

Pete Buttigieg ha 38 anni, è un prodotto di Harvard e di Oxford, nel 2013 è stato eletto sindaco dell’anno come primo cittadino della propria città natale, South Bend, in Indiana, da GovFresh.com (assieme a Michael Bloomberg, allora sindaco di New York) e il 14 aprile 2019 ha annunciato che si sarebbe candidato per le primarie del Partito Democratico, quelle che quest’anno, dal 13 al 16 luglio, a Milwaukee, in Wisconsin, selezioneranno lo sfidante di Donald J. Trump. Il 1° marzo 2020 si è invece ritirato dalla corsa.

Della sua omosessualità ostentata, persino smaccata, ha fatto una bandiera. Nel 2018 si è “sposato” con Chasten Glezman. E solo pochi giorni prima del ritiro dalle primarie, il 22 febbraio, durante un comizio a Denver, in Colorado, ha fatto salire sul palco un ragazzino di nove anni, di nome Zachary, invitandolo a rivelare a tutti la propria omosessualità. Perché mai la strumentalizzazione aperta di un minorenne da parte di un potente uomo della politica non desti scandalo nel circolo delle anime belle sempre pronte allo strepito resta un mistero, ma non così la spudoratezza con cui Buttigieg non si è fatto scrupolo di sfruttare per scopi elettorali un ragazzino.

Ma non tutte le ciambelle riescono con il buco. La retorica, per esempio, delle “minoranze oppresse” che anima, con abbondante pelo sullo stomaco, l’ala più radicale dei Democratici, non sempre paga. Secondo quella retorica, sarebbero infatti “minoranze”, e il va sans dire “oppresse”, donne, gente di colore, LGBT+ e via dicendo, senza soluzione di continuità e senz’alcuna differenza. Ma dirlo è un conto, mentre la realtà è un’altra. Davanti all’ostentazione omosessualista di Buttigieg, per esempio, una ostentazione che si è spinta persino a usare lo “scudo umano” di un ragazzino, se la “minoranza oppressa” LGBT+ ha certamente plaudito, la “minoranza oppressa” degli afro-americani si è risentita, persino offesa. Lo rivela il non sospetto The Washington Post, che senza indugi parla dell’«[…] antipatia che ha generato nella comunità nera». Gli afro-americani, cioè, voteranno spesso e volentieri per i Democratici, ma non sono stupidi. Annusano la truffa lontano un miglio e alla bisogna puniscono. Punirono già Barack Obama nel 2012, il presidente che in realtà ha fatto più per gli LGBT+ che per i “suoi neri”, e hanno punito oggi l’arroganza wasp di questo rampollo dell’Ivy League.

Vedremo il Super Tuesday

Il ritiro di Buttigieg va però ben oltre l’aneddoto personale, cominciando a gettare una prima luce sulla rincorsa dei Democratici contro Trump. Mai come ora, infatti, dentro il partito dei liberal si contrappongono due tendenze. Una più centrista e una decisamente estrema. Sono differenziazioni strategiche, giacché nessuno dei concorrenti in lizza metterebbe in discussioni certi presupposti ideologici. Non c’è nemmeno un candidato, per esempio, che sia contro l’aborto, contro l’omosessualizzazione della cultura contemporanea, o a favore della sussidiarietà, e così via. Epperò, siccome le elezioni si vincono sempre al centro, la partita si gioca ora fra chi pensa che vincere le elezioni al centro significhi spostarsi su posizioni almeno linguisticamente più mediane e chi invece ritiene che le elezioni si vincano al centro quando si riesce a radicalizzare il centro a sinistra.

Questa dicotomia interna è però tanto vera macroscopicamente, quanto difficile da dettagliare. In corsa oggi ci sono Bernie Sanders, il socialista professo cui quattro anni fa Hillary Clinton scippò, certamente sul piano culturale, la nomination; l’ex vicepresidente Joe Biden; la pasionaria Elizabeth Warren; il non pervenuto Michael Bloomberg; più le semisconosciute Amy Klobuchar e Tulsi Gabbard. Con tutta probabilità domani il Super Tuesday farà definitivamente giustizia di alcuni di questi nomi, visto che in un colpo solo voteranno Alabama, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont e Samoa Statunitensi (più i Democratici all’estero, che inizieranno a votare domani e continueranno fino al 10 marzo), assegnando 1.357 dei 3.979 delegati in palio, ovvero più di due terzi dei 1991 necessari per ottenere la nomination presidenziale. Chi sono però i più centristi e chi sono gli estremisti?

Tra i secondi certamente Buttigieg, ma appunto è fuori, e la Warren, una Clinton più in forma e forse più arrabbiata. Tra i primi certamente Bloomberg, ma pare un fantasma invisibile, e Biden. Il già numero due di Obama è però proprio l’esempio calzante della difficoltà di stabilire un confine fra “moderati” e radicali. Biden infatti è un cattolico decisamente a favore di aborto e “diritti LGBT+”, ma che lo fa con stile. E poi c’è Sanders.

L’ircocervo socialista

Sanders è la tempesta perfetta, il candidato ideale, l’uomo per tutte le stagioni. È un ircocervo di grande efficacia. Moderato ed estremista al contempo, sa dosare freno e acceleratore, vendendosi su ogni piazza. In là con gli anni, ammalia i giovani. È un gran sinistro, ma ammicca a destra per esempio sull’uso personale delle armi (tema tabù, negli Stati Uniti). È molto più però che un ambidestro: è piuttosto uno che monta bene in sella. Più che merito suo è però merito della tappezzeria di partito contro cui indubitabilmente si staglia. Quattro anni fa si scoprì di nuovo giovane e oggi, dopo che la Sinistra ha fatto di tutto per delegittimare Trump fallendo miseramente, la sua seconda giovinezza continua.

Sanders non cerca affatto di piacere a tutti, ma, vista l’incapacità dei centristi da un lato e degli estremisti all’altro di articolare un discorso appetibile, emerge come l’uomo della sintesi possibile. Non alterna moderatismo ed estremismo: riesce, sfidando il principio di non contraddizione, a essere entrambe le cose, un po’ come gli strass prismatici che, a seconda di come li si maneggia alla luce rivelano colorazioni differenti, in realtà gamme della medesima tinta che si inseguono come in un nastro di Möbius.

Per questo Sanders potrebbe essere davvero lo sfidante finale di Trump. Non perché oggi sia in testa al conteggio dei delegati (domani vedremo), ma perché incarna alla perfezione l’uomo che i Democratici vorrebbero candidare. Come Trump quattro anni fa rispetto al Partito Repubblicano, è politicamente inviso a molti maggiorenti nel suo stesso partito, ma non fa nulla. Parigi val bene una Messa, anche nella Sinistra statunitense. Quattro anni fa Sanders era un guastafeste al party allestito sin troppo in anticipo per la Clinton, quest’anno potrebbe essere l’uomo di cui i Democratici hanno bisogno come l’aria per respirare essendo rimasti con un pugno di mosche in mano molti ululati alla Luna dopo. E c’è da sperare davvero che sia Sanders lo sfidante, poiché in questo caso Trump vincerebbe il secondo mandato a mani basse.

Lunedì, 2 marzo 2020

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