Il Papa contro una concezione della religione come do ut des, all’inizio del cammino che impegnerà tutta la Chiesa sulla sinodalità
di Michele Brambilla
Il 10 ottobre, nella domenica in cui Papa Francesco inaugura il percorso che avvia il Sinodo dei vescovi sulla sinodalità, ovvero una riflessione approfondita sui rapporti che intercorrono tra gli stessi membri della Chiesa, il Pontefice mette a fuoco, nel corso dell’Angelus, il modo che hanno i fedeli cattolici di relazionarsi con la propria religione. «La liturgia di oggi», infatti, «ci propone l’incontro tra Gesù e un uomo che “possedeva molti beni” (Mc 10,22) e che è passato alla storia come “il giovane ricco” (cfr Mt 19,20-22)». Un dialogo molto importante, che ci permette, dice il Papa, di fare «un test sulla fede» personale, dato che il giovane ricco interpella Gesù su come conquistare la vita eterna.
Il Papa suggerisce di fare molta attenzione ai verbi usati dal ragazzo: «notiamo i verbi che utilizza: dover fare – per avere. Ecco la sua religiosità: un dovere, un fare per avere; “faccio qualcosa per ottenere quel che mi serve”. Ma questo è un rapporto commerciale con Dio, un do ut des. La fede, invece, non è un rito freddo e meccanico, un “devo-faccio-ottengo”. È questione di libertà e di amore», il Signore che interpella il mio cuore, ovvero tutta la mia esistenza.
Lo si comprende bene quando «Gesù – secondo passaggio – aiuta quel tale offrendogli il volto vero di Dio. Infatti – dice il testo – “fissò lo sguardo su di lui” e “lo amò” (v.21): questo è Dio! Ecco da dove nasce e rinasce la fede: non da un dovere, non da qualcosa da fare o pagare, ma da uno sguardo di amore da accogliere», mettendo in secondo piano la nostra capacità di corrispondere. Le opere sono importanti, ma non ci si salva solo con le proprie forze (pelagianesimo): «la tua fede, la mia fede è stanca? Vuoi rinvigorirla? Cerca lo sguardo di Dio: mettiti in adorazione, lasciati perdonare nella Confessione, stai davanti al Crocifisso. Insomma, lasciati amare da Lui. Questo è l’inizio della fede: lasciarsi amare da Lui, che è Padre». All’inizio dell’essere cristiani sta l’accettazione di un invito: «dopo la domanda e lo sguardo c’è – terzo e ultimo passaggio – un invito di Gesù, che dice: “Una cosa sola ti manca”. Che cosa mancava a quell’uomo ricco? Il dono, la gratuità», in poche parole Cristo stesso. «È quello che forse manca anche a noi», rimprovera il Pontefice: «spesso facciamo il minimo indispensabile, mentre Gesù ci invita al massimo possibile. Quante volte ci accontentiamo dei doveri – i precetti, qualche preghiera e tante cose così – mentre Dio, che ci dà la vita, ci domanda slanci di vita».
Riecheggia, un po’, la polemica agostana sulla Legge e la Grazia: «cari fratelli e sorelle, una fede senza dono, una fede senza gratuità è una fede incompleta, è una fede debole, una fede ammalata. Potremmo paragonarla a un cibo ricco e nutriente a cui però manca sapore, o a una partita più o meno ben giocata ma senza gol: no, non va, manca il “sale”. Una fede senza dono, senza gratuità, senza opere di carità», precisa, «alla fine rende tristi», come il giovane ricco, che, incapace di un’adesione affettiva al dettato della fede, si trincera dietro i suoi beni materiali e rincasa sconsolato. Per evitare lo stesso errore «oggi possiamo domandarci: “A che punto sta la mia fede? La vivo come una cosa meccanica, come un rapporto di dovere o di interesse con Dio? Mi ricordo di alimentarla lasciandomi guardare e amare da Gesù?”». Il primo passo è sempre quello: scoprirsi amati da Dio e sorretti quotidianamente dalla Sua misericordia.
Lunedì, 11 ottobre 2021