Da Avvenire del 25/01/2018. Foto da Milanolife.it
Caro Avvenire,
leggo che il Santo Padre ha elevato il dialetto a «lingua d’amore» e a me, che sono da sempre uno sperticato sostenitore del valore della parlata dei nostri padri, sapere che tale autorevole parola è in linea con la mia battaglia pacifica per la conservazione, la riscoperta e la valorizzazione del dialetto riempie di orgoglio! In effetti nelle famiglie che non hanno dimenticato la “lingua madre” i primi suoni che il bambino sente e che “beve” con il latte materno sono quelli della parlata della propria terra! Ritengo che sia un vero patrimonio che deve essere trasmesso da padre e madre in figlio. È vero che poi nelle famiglie si viene a creare una parlata particolare arricchita – anche grazie ai bambini – da vocaboli nuovi, quel “lessico famigliare” di cui Natalia Ginzburg scriveva nel 1963. Questo non fa altro che rendere sempre vivo il dialetto ed evita l’uso di termini che nel tempo sarebbero anacronistici. Dunque, viva il dialetto con la benedizione del Papa!
Raffaele Pisani napoletano a Catania
Quando ero bambina io, nelle famiglie borghesi spesso non si parlava in dialetto davanti ai figli, perché si voleva che parlassero solo in italiano. Il dialetto era vissuto come una ‘piccola’ lingua, una lingua povera, e nell’Italia del boom economico sembrava a molti antiquato usarlo ancora. Le nuove generazioni cominciavano ad avere per maestra la tv, e a dimenticare gli idiomi locali. Ma ho un ricordo confuso e dolcissimo delle estati in montagna, quando ero molto piccola, in una antica casa ampezzana. La vecchissima padrona, che per me era una specie di nonna, parlava con i figli esclusivamente in dialetto, non conoscendo altra lingua. E ricordo come mi apostrofava con quella sua cadenza a me del tutto sconosciuta, e mi parlava. Molte parole non le capivo, ma con la velocità mentale della prima infanzia indovinavo il senso complessivo del discorso. Rispondevo, naturalmente, in italiano, imparando a scandire adagio le sillabe perché la nonna a sua volta mi capisse.
La domenica, quando tutta la famiglia che ci ospitava si vestiva a festa e dopo pranzo si radunava in un lungo conciliabolo in cucina, mi arrivava l’eco di quella parlata, acuta e insieme dolce. Mi sembrava la lingua di quei boschi, di quelle cime attorno, lingua di elfi forse, o di creature delle montagne, invisibili agli occhi degli uomini. Tuttora, quando torno da quelle parti e per strada colgo un dialogo in lingua locale fra valligiani, ho un sussulto al cuore: come sentissi una musica ascoltata nell’infanzia, e poi perduta. Per cui capisco bene l’entusiasmo del signor Pisani per le parole del Papa: il dialetto ‘lingua d’amore’, lingua della terra in cui si nasce, e che rimane attaccata addosso, con la sua inflessione e cadenza, come un’impronta. Non so quanto accada ancora questo oggi, ora che ovunque parliamo in italiano (magari frammisto all’inglese…). Ed è giusto, è ovvio. Eppure in questo tempo di globalizzazione sarebbe bello, almeno in famiglia, saper tramandare anche la lingua della propria terra, originale e diversa da ogni altra. Con un suo sapore, e quasi profumo, che evoca ricordi e tradizioni. Una ricchezza da non perdere, che in un mondo che ci vorrebbe ovunque uguali sancisce la diversità infinita delle origini, traduce quasi in inflessione e accenti la pace delle pianure, la vitalità del mare, l’opacità delle nebbie invernali. Come una musica che si ascolta da bambini, e che resta indissolubilmente legata alla voce della madre, del padre: ai ricordi primi che ci costruiscono, quando siamo ancora come creta da modellare.
Marina Corradi