Al quarto figlio mi chiese se non avevo la televisione. Accadde 25 anni fa, il tempo di una generazione, ma chi mi fece quella domanda era una brava persona, che incontravo in chiesa, lontanissimo dall’essere ideologicamente infarcito di idee antinataliste.
Questo per dire che il problema che non nascono più figli, in Occidente ma soprattutto in Italia, come sostiene l’Istat e come finalmente riportano i media (91mila bambini in meno dal 2008), è un problema anzitutto culturale, cioè dipende dal fatto che mettere al mondo dei figli non è considerata come una bella cosa, importante e nobile, naturale e ricca di soddisfazioni oltre che di fatiche. Il problema è culturale perché non si desidera più educare, ma godere e basta, non si cerca più di lasciare qualcosa di importante della propria vita perché non si ritiene che ci siano cose importanti oltre al proprio benessere.
Blangiardo, Gotti Tedeschi, Volpi, Belletti, Rosina hanno detto e scritto su questi temi meglio di me e basta leggere i loro libri o articoli per cogliere i dati drammatici dell’inverno demografico che incombe sulla nostra patria. Ma anche qui il problema è culturale, perché a molti poco interessa il problema demografico con le sue conseguenze che, ovviamente, non riguardano la propria vita ma quella di chi verrà dopo. Finché non si smetterà di giudicare e prendere decisioni per la propria vita alla luce esclusivamente del proprio ego, difficilmente sarà possibile invertire il trend del suicidio demografico.
Che fare allora? Bisogna convertirsi, certo, nel senso che bisogna cambiare i criteri di scelta per la propria vita, cioè la propria cultura, che non è un problema di libri e di titoli accademici, mi raccomando. Giova sempre ricordare che anche un analfabeta ha una cultura.
Se chi ha il potere di influenzare le persone con i propri atteggiamenti e giudizi cominciasse a dare l’esempio, l’inversione culturale comincerebbe prima. Bisogna che il problema demografico diventi centrale nel dibattito pubblico, a cominciare dalla classe politica e da chi orienta l’opinione attraverso i media. “Fare famiglia” e provare a mettere al mondo dei figli non è soltanto una scelta personale, ma un atto pubblico e virtuoso, perché la famiglia non è un’aggregazione privata, ma la cellula fondamentale della società, da cui dipende molto del bene comune. Questa verità deve diventare evidente nei discorsi pubblici, non soltanto garantendo quel sostegno finanziario che alle famiglie non è mai stato accordato nella storia dell’Italia repubblicana. Il ministro per la famiglia Enrico Costa non ha il senso dell’umorismo quando sostiene che questo governo si sta impegnando per la famiglia perché ha introdotto qualche modesto bonus nella Legge di bilancio del 2017, forse dimenticando che si tratta dello stesso governo che soltanto sei mesi fa ha approvato, con una violenza istituzionale mai vista, le unioni civili fra persone dello stesso sesso, portando una ferita gravissima all’istituto familiare.
Quando il capo del governo, i suoi ministri e in genere le classi dirigenti cominceranno a parlare pubblicamente di famiglia (e non di famiglie), mettendola al centro della vita pubblica, allora saremo sulla strada della conversione culturale.
Purtroppo il premier di questi tempi parla solo del SI alla sua sciagurata riforma costituzionale, che secondo i suoi calcoli dovrebbe attribuirgli un potere ulteriore nella guida del Paese. La famiglia non gli interessa, se non quando si è trattato di umiliarla in Parlamento. Diciamogli di NO.
Marco Invernizzi