di Daniele Fazio
Nella vulgata politically correct, i Paesi dell’Europa Settentrionale sono insistentemente presentati quali modelli di efficienza amministrativa e organizzativa che sopperisce in maniera scientifica a ogni bisogno dell’uomo. Un’organizzazione impeccabile che ha mirato a rendere l’uomo indipendente in tutto e per tutto dalle stesse relazioni parentali e amicali. L’uomo si ritrova così sazio e allo stesso tempo disperato, perché in quel contesto ha perso i connotati della propria natura, le radici del proprio essere, la bellezza della propria esistenza, lo sforzo per raggiungere la felicità e la gioia di goderne.
A descrivere i lineamenti di un mondo che è divenuto palesemente il teatro della catastrofe antropologica è il film documentario La teoria svedese dell’amore (2015) del regista Erik Gandini, disponibile anche in lingua italiana dal 2016 e presente sul web in una visione ridotta di poco meno di 60 minuti. Il registra – che non ha affatto obiettivi critici e men che meno etici – non fa altro che tratteggiare le caratteristiche della società svedese a partire dalle conseguenze delle riforme attuate sin dai primi anni 1970 da governi prevalentemente di marca socialdemocratica.
L’universo “valoriale” a cui tali riforme sono ispirate ruota attorno all’idea di un individualismo pienamente compiuto che, dovendo realizzare la libertà assoluta, disintegra ogni aggregazione sociale e distrugge la famiglia ritenuta una struttura antiquata. Il raggiungimento dell’indipendenza economica dei singoli è semplicemente funzionale alla frantumazione dei legami e all’affrancamento dalla naturale socievolezza umana.
Il diktat politico-ideologico dell’indipendenza assoluta ha prodotto così una società di individui, che ogni giorno fanno i conti con la propria solitudine. Concretamente, per esempio, quando sente il desiderio di avere figli, una donna si rivolge a una banca qualsiasi del seme. L’istituto, dopo averne selezionato le preferenze attraverso una piattaforma virtuale, invia comodamente a casa una provetta con tutte le istruzioni per l’auto-inseminazione. Naturalmente ciò avviene perché vi sono altrettanti maschi “altruisti” che depositano il proprio seme in queste banche e lo rendono disponibile per tali maternità. Et voilà, grazie ai soldi, in una manciata di minuti e rigorosamente senza alcun contatto fisico, un maschio sconosciuto ha soddisfatto il desiderio di una donna altrettanto sconosciuta che tramite una fai-da-te casalingo soddisfa il “diritto” di avere un figlio.
I figli programmati di madri single sono una realtà straordinariamente ordinaria, così come è normale, a fronte di un sistema socioassistenziale che risponde a ogni esigenza tecnica, morire da soli e dimenticati da tutti, senza che nessuno si ricordi o pianga attorno alla bara. Fioriscono, pertanto, agenzie dedite all’individuazione dei parenti dei morti, i quali spesso vengono scoperti solo a causa dell’odore nauseabondo che emanano decomponendosi negli appartamenti o addirittura perché i pagamenti online di bollette o quant’altro non vengono più assolti. Spesso la ricerca non produce però risultati o ne produce di negativi e quindi l’agenzia si fa carico dell’espletamento di ogni onere economico e burocratico.
Poi c’è l’integrazione degli stranieri. Integrare il nuovo venuto vuole dire istruirlo a questo orizzonte esistenziale in cui, se da un lato si deve parlare il meno possibile e vivere isolati, dall’altro – come ingranaggi di un orologio – si ha l’obbligo spasmodico di essere precisi e puntuali. Lo svedese adulto – senza padre né madre – ha un solo obbligo: curarsi della propria individualità.
Due le sequenze in controtendenza che vale la pena però sottolineare. La prima è la reazione di alcuni gruppi di giovani. Un po’ come il Waldgänger jüngeriano, stanchi del mondo rigidamente organizzato, si ritrovano nei boschi a fare esperienza dell’umanità reale: guardarsi negli occhi, parlarsi, stare insieme, abbracciarsi, piangere e sostenersi reciprocamente nelle difficoltà. La seconda è l’esperienza di un chirurgo svedese trasferitosi in Africa, un continente in cui non ha certamente trovato l’efficienza, ma ha scoperto l’umanità e l’anelito all’interdipendenza, e con essa alla continua ed avventurosa sfida della felicità.
Il documentario – che a tratti propone sequenze anche sgradevoli – sembra una pellicola di fantascienza, mentre è tutto balordamente reale. La “società liquida”, illusa dalla perfezione della tecnica e dominata dalla burocrazia, cancella così l’autenticità dell’uomo, bandisce i rapporti reali in favore di quelli virtuali e in nome della sicurezza nega la felicità, che non è una vita senza problemi, ma il superamento di questi anche con l’aiuto altrui.
Sabato, 23 febbraio 2019