È l’autore del primo dei Vangeli sinottici. Si chiamava Levi di Alfeo ed era un pubblicano, cioè un appaltatore della riscossione dei tributi; ma era chiamato anche Matteo, cioè in aramaico, probabilmente, “dono di Jahwe”. Si convertì a Cafarnao e, secondo antichi autorevoli autori, predicò la Buona Novella agli Ebrei (per i quali, in prima istanza, scrisse il suo Vangelo) e poi ad altre più lontane genti. Lo veneriamo come uno degli apostoli, dei “dodici” che furono scelti da Gesù tra i discepoli che lo seguivano. Coloro che il Signore volle «per sedere sopra dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele» [Mt 19,28] e per partecipare al glorioso ritorno del Figlio dell’Uomo, per mangiare e bere alla sua mensa, com’è scritto in Luca, per essere «le dodici fondamenta» della Gerusalemme celeste, com’è scritto nell’Apocalisse [Ap21,14]. Ma per questo gli apostoli dovettero abbandonare tutto, seguire Gesù, partecipando delle sue privazioni e delle sue persecuzioni. Così gli apostoli sono per noi un esempio altissimo di ascetismo. In particolare veneriamo san Matteo come uno dei quattro evangelisti, cioè (secondo una specializzazione del termine che risale al II secolo) come uno dei quattro che fissarono per scritto i detti e i fatti di Gesù. Veneriamo in lui, con san Paolino di Nola [355-431], uno dei «quattro vivi fiumi del Cristo», a cui noi fedeli ci abbeveriamo come cervi alla fonte. Dalla più antica arte cristiana ha come simbolo un uomo (come Marco il leone, Luca il vitello e Giovanni un’aquila). Luca (IX, 27-32) ci narra della sua conversione in Cafarnao. Imperativa fu la chiamata da parte del Signore: «… gli disse “Seguimi!” e allora egli, abbandonando tutto si alzò e lo seguì»; un esempio difficile da imitare. Ma è anche consolante la risposta di Gesù alle critiche alla sua scelta: «… non son venuto a chiamare a penitenza i giusti ma i peccatori». Consolante, purché noi peccatori facciamo penitenza…
Cammei di santità. Tra memoria e attesa,
Pacini, Pisa 2005, pp. 40–41
Mercoledì, 19 giugno 2019