
Il ciclo di articoli sulla storia della Musica Sacra prosegue trattando della nascita di nuove forme che seguirono la riforma liturgica carolingia.
di Marco Drufuca
Tra l’VIII e l’inizio del IX secolo, i tentativi di riforma liturgica di Pipino il Breve e di Carlo Magno, miranti a “romanizzare” la pratica del culto nei territori del nascente Impero, imposero alla prassi liturgica continentale il canto “Gregoriano”, che tuttavia dovette risultare come un corpus estraneo alle consuetudini e ai gusti musicali di tradizione gallicana. Fin da subito ci furono diversi tentativi di “avvicinare” alle tradizioni gallicane il nuovo repertorio liturgico proprio nel periodo di formazione del canto Gregoriano.
Il repertorio che ne risultò fu l’esito della sintesi tra la volontà imperiale di importare fedelmente il canto di Roma e l’opposizione più o meno passiva di cantori e liturgisti gallicani, che tentarono ove possibile di mantenere in auge la loro tradizione musicale. Tuttavia, una volta stabilito, il repertorio Gregoriano non poteva più essere messo in discussione: esso doveva imporsi come corpus perfetto e irreformabile, genuino frutto della Tradizione.
A partire dagli anni immediatamente successivi al termine della riforma carolingia, non essendo più possibile modificare quanto prescritto, il genio franco prese ad aggiungereelementi alla liturgia. Nacquero in questo modo i tropi, di cui si tratta nel presente articolo,e le sequenze.
Nel lessico contemporaneo, per tropo si intende qualsiasi aggiunta fatta a quanto previsto dal canone liturgico: si distinguono così tropi puramente melodici, ossia composti da vocalizzi (melismi) privi di testo; quelli puramente testuali, nei quali un melisma preesistente nel repertorio Gregoriano viene corredato di un testo composto apposta; e infine quelli che prevedono l’aggiunta tanto di testo quanto di una nuova melodia. Va tuttavia detto che nella terminologia medievale per tropi si intendevano principalmente quelli inclusi in quest’ultima categoria, o tutt’al più quelli puramente melismatici, mentre l’aggiunta di testo a un melisma preesistente aveva altri nomi (principalmente prosa o prosula, talvolta versus).
Le prime menzioni di simili pratiche sono attestabili intorno alla metà del IX secolo: Amalario di Metz, nel suo liber officialis (ca. 840), ci informa circa la pratica di espandere con nuovi melismi alcuni responsori, “in contrasto con l’uso tradizionale”. Negli stessi anni, il concilio di Meaux (845) tuonava: “a causa della deprecabile perversità di alcuni, che, attratti dalle novità, non temono di alterare con le loro invenzioni la purezza di ciò che è antico, decretiamo che nessun chierico e nessun monaco osi aggiungere, interporre, recitare, mormorare o cantare alcuna composizione, di quelle che vengono chiamate prosae, né durante l’Inno Angelico, ossia il Gloria in excelsis Deo, né nelle sequentiae che si sogliono cantare solennemente durante l’Alleluia”. Dunque, entro la prima metà del IX secolo le prime due categorie di tropidovevano essere già emerse.
Sarebbe tuttavia riduttivo voler spiegare l’affermarsi della pratica dei tropi unicamente con la riluttanza ad adottare un nuovo stile di canto da parte del clero continentale. Una simile affermazione infatti non è in grado di spiegare come, nonostante la diffusione capillare del fenomeno, l’introduzione dei tropi nella liturgia non trovò grandi resistenze da parte delle autorità, fatta eccezione per concili locali come quello sopra nominato di Meaux. Infatti, tra il IX e il X secolo i tropi ebbero vastissima diffusione, e fu solo a seguito di cambiamenti spirituali “dal basso” (non ultime le riforme monastiche di Cluny e la successiva riforma Cistercense) che caddero progressivamente in disuso a partire dall’XI secolo, fino alla loro abrogazione ufficiale nel contesto del Concilio di Trento (XVI secolo!). Se i tropi fossero solo stati dei capricci di autori medievali, quelle stesse autorità religiose e politiche che fino a pochi anni prima avevano spinto verso l’uniformazione dei riti liturgici sarebbero intervenute ben più energicamente. Il valore dei tropi è dunque da ricercare più in profondità.
Certamente non è loro estraneo un intento estetico, specie nelle aggiunte puramente melodiche, volte a sottolineare l’importanza e la solennità di determinati passi della liturgia. Tuttavia, quando alla nuova melodia viene unito un testo, lo scopo deve essere necessariamente più profondo. A prima vista simili tropi risultano quasi ridondanti, dal momento che spesso si limitano a ribadire ciò che il testo liturgico già esprime: quando posti a commento delle antifone del Graduale o dell’Introito, essi ne svolgono la medesima funzione, introducendo e collegando allo specifico della celebrazione del giorno il testo del salmo cantato; quando intercalati a testi come il Kyrie eleison, il Gloria in excelsis o il Sanctus, spesso si limitano ad aggiungere ulteriori acclamazioni. Tale ridondanza costituì uno dei principali problemi introdotti dalla nuova pratica, ossia l’eccessiva dilatazione delle celebrazioni, senza che fosse aggiunto nulla di essenzialmente nuovo e anzi con il rischio di disperdere ciò che di essenziale vi è nella Celebrazione Eucaristica.
Tuttavia, va anche considerato che se i testi liturgici, antifone comprese, erano per la quasi totalità mutuati dalle Scritture, i tropi per loro natura dovevano essere composti con testi nuovi, liberamente scritti. Al netto dei pericoli connessi, ciò permetteva di esplicitare in maniera molto più efficace l’interpretazione dei testi biblici che si stava cantando, mettendone in risalto la dimensione “tipologica”, ossia il continuo rimando delle parole dell’Antico Testamento al loro compimento in Cristo.
Ancora più a fondo, è possibile vedere nei tropi un continuo richiamo alla natura stessa della celebrazione liturgica. In essi infatti troviamo continuamente richiami alla presenza attuale di quanto viene cantato mediante avverbi come “hodie” o esclamazioni come “eia”, nonché alla consapevolezza del fatto che nel canto non è il fedele o il cantore a esprimersi, ma piuttosto egli “presta” la propria voce perché diventi strumento di risonanza del Verbo stesso di Dio. “I tropi marcano l’identità, così come le differenze, tra l’oggi temporale e l’oggi eterno, e alludono a questo doppio oggi, alla presenza duratura, all’ora, all’hora est nell’atto liturgico, nel discorso, nelle voci dei cantanti.”(A. Haug, Tropes, in The Cambridge History of Medieval Music)
In sintesi, almeno quattro sono valori che possono aver motivato il fiorire del repertorio di tropi medievali. Essi possono essere visti come 1) una reazione ai tentativi di “romanizzare” il culto gallicano; 2) una aggiunta estetica, laddove però la dimensione estetica è sempre carica anche di un significato spirituale e liturgico; 3) il tentativo di accentuare e rinforzare quanto già espresso dalla liturgia, sottolineando il legame tra il testo biblico e la celebrazione del giorno o aggiungendo impetrazioni e acclamazioni; 4) uno strumento didattico e catechetico al servizio della liturgia, volto a manifestare e ad esplicitare la natura stessa della preghiera e della celebrazione in atto.
Sabato, 12 aprile 2025