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Dopo le dat. Che fare?

16 Dicembre 2017 - Autore: Marco Invernizzi

Diventate legge dello Stato, le “disposizioni anticipate di trattamento” hanno suscitato commenti entusiastici e pianti di gioia da parte dei sostenitori della cultura della morte, mentre il Paese quasi non se ne è accorto.

Adesso il primo rischio è quello di sottovalutare l’evento, nascondendone la gravità dietro frasi di circostanza come “tanto sarebbe passata in ogni caso” oppure che poi ognuno continuerà a fare come ha sempre fatto. Le leggi operano sulla media e lunga distanza e aiutano a cambiare il costume, a fare diventare un’abitudine ciò che prima era considerato qualcosa di male. Quante volte oggi divorzio e aborto, a quasi mezzo secolo dall’approvazione delle rispettive leggi, sono considerati mezzi, magari spiacevoli, per risolvere comunque situazioni ancora più spiacevoli?

Questo rischio lo corre soprattutto certo mondo cattolico impegnato nel curare le vittime del degrado del costume, come i figli dei divorziati, le persone coinvolte nell’aborto, il coniuge più debole anche economicamente, i devastati dalla droga e le rispettive famiglie e nel caso delle dat i medici, soprattutto. Troppo spesso queste persone, che danno la vita per curare le ferite degli altri, ignorano le cause culturali del male a cui stanno cercando di porre rimedio. Perché tanti divorzi e aborti e perché sono diventate per il senso comune soluzioni accettabili? Perché il suicidio assistito e l’eutanasia stanno diventando rimedi accettabili alla sofferenza? E perché oggi si comincia a negare il diritto all’obiezione di coscienza, per esempio dei medici?

Queste persone guardano con fastidio quanto avviene nei Parlamenti a proposito delle leggi sui cui temi loro cercano di salvare le persone concrete. Ma sbagliano perché la legalizzazione ha reso e renderà sempre più difficile le loro opere di misericordia corporale. E, inoltre, perché dovrebbero porsi il problema su quale sia l’origine culturale e ideologica del male che combattono senza veramente conoscerlo.

Poi c’è un altro rischio che riguarda un altro pezzo di mondo cattolico, quello che si è battuto e ha sperato, prima contro le unioni civili poi, adesso, contro le dat, le disposizioni anticipate di trattamento. Il rischio è il peggiore di tutti di mali possibili, quello di perdere la speranza. Non la speranza teologale nella salvezza eterna, ma perdere la speranza di potere cambiare questo mondo che muore, che continua a farsi del male, e quindi chiudersi nel proprio ghetto, immune dai danni della modernità. Questo rischio è concreto quando ci si isola, reputando gli altri incapaci di comprendere e quindi si rinuncia alla missione, all’apostolato.

Naturalmente le cose sarebbero potute andare meglio. Il mondo cattolico si è presentato diviso di fronte alle disposizioni anticipate di trattamento. L’assenza di un giudizio preciso, forte e chiaro da parte della Presidenza della Cei ha favorito questa ambiguità per cui alcuni cattolici hanno dato un giudizio diverso e contrario a quello di altri cattolici a proposito della legge.

Non si tratta di ritornare al “vescovo pilota”. Personalmente ritengo questa una delle più felici novità del pontificato. Ma se è vero che non è il vescovo che deve guidare politicamente il laicato nella lotta contro una legge iniqua, il pastore dovrebbe però esprimere pubblicamente un giudizio su una legge come questa che tocca i princìpi morali fondamentali. Non si tratta di un’ingerenza nel temporale, ma del giudizio se una legge sia o non sia compatibile con i princìpi della morale cristiana. Ora, dalle dichiarazioni del Presidente della Cei, si evince una contrarietà alla legge, ma le sue parole non sono state tradotte in un giudizio impegnativo soprattutto per i cattolici presenti in Parlamento e nel governo.

Che fare allora, oggi, dopo l’approvazione delle dat?

Intanto, all’interno del mondo cattolico bisogna avere la santa pazienza di continuare a spiegare che la vita non è mai disponibile, che la negazione dell’obiezione di coscienza è una violenza totalitaria, e bisogna poi convincere che vita e famiglia non si possono promuovere se non all’interno di un contesto culturale completo e organico, da cui la necessità di studiare e cercare di applicare i princìpi della dottrina sociale della Chiesa.

Fuori dal mondo cattolico incontriamo i partiti politici. La salvezza non verrà dalla politica, ne siamo certi. Tuttavia la politica non va demonizzata a causa dell’inadeguatezza dell’attuale classe politica, perché la politica è intrinseca alle vicende umane e quindi necessaria. Abbiamo tratto da Avvenire e pubblicata sul sito di Alleanza Cattolica la fotografia che mostra il crocefisso ripristinato nel Comune di Genova per la prima volta dal secondo dopoguerra. Non è vero che in politica non si possano raggiungere piccoli risultati come questo, come le agenzie o assessorati per la famiglia inseriti in Comuni (per esempio, oltre a Genova, almeno anche Piacenza o Verona) dove hanno vinto le ultime elezioni amministrative quei candidati sindaci che avevano firmato il “Manifesto per la famiglia” del Comitato Difendiamo i nostri Figli.

Una buona politica può rallentare un processo di degrado e può favorire e accompagnare una rinascita culturale. Quest’ultima, che è la cosa indispensabile per il futuro, non può che ricavarne dei vantaggi.

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