Editoriale, Cristianità n. 417 (2022)
L’analisi dell’esito delle consultazioni elettorali del 25 settembre non può prescindere dalle cornici, una remota e una prossima, entro le quali va a inserirsi. Solo in tal modo, infatti, saremo in grado di non isolare il fotogramma elettorale e di comprenderne meglio il senso, cercando di individuare sia lo stato sia la direzione verso cui si muove il corpo sociale.
In primo luogo, va tenuta presente la sfiducia — ormai radicatasi nel corpo sociale — nella politica e nella sua capacità di fornire risposte alle domande dell’uomo contemporaneo.
La crisi della modernità ha raggiunto livelli tali da alimentare sentimenti non solo di rancore, ma anche di totale disincanto, acuiti dall’incapacità mostrata dalla politica di risolvere l’emergenza sanitaria e di mantenere livelli accettabili di pace. Nata con la promessa di assicurare un futuro di certezze, la modernità non si è dimostrata in grado neppure di garantire il presente. E la cosiddetta post-modernità non sta certo dando l’impressione di fare meglio.
In secondo luogo, venendo alla cornice europea, non si può neppure ignorare la marginalizzazione della politica nazionale, sempre più ridotta a esecutrice di disposizioni assunte a livello sovranazionale da organismi senza alcuna legittimazione rappresentativa. Tale condizione ha alimentato il convincimento della sostanziale inutilità dei parlamenti nazionali, spesso congiunto all’accettazione di governi tecnici, perché ritenuti più idonei a negoziare condizioni migliori con chi realmente comanda al di fuori dei confini nazionali.
Il cosiddetto vincolo esterno, in realtà risalente all’ormai antica e superata epoca dei blocchi contrapposti della «guerra fredda», che determina una vera e propria limitazione di sovranità nazionale, potrebbe trarre nuova linfa dalla reazione dei mercati al nuovo governo, guidato dall’on. Giorgia Meloni, cui verrebbe presentato il conto dei disordinati conti pubblici. In verità, questi conti sono stati ereditati da chi è sempre stato finora all’opposizione, contro cui viene agitato lo spettro di un’Italia che possa guardare a Polonia e Ungheria piuttosto che a Francia e Germania, come avvenuto fino a oggi, così contribuendo allo sfaldamento della coesione dell’Unione Europea.
In verità, il ricatto economico dello spread mostra la corda di fronte ai comportamenti tutt’altro che virtuosi dei Paesi-guida dell’Europa — a partire proprio dalla Germania — e si manifesta piuttosto come il tentativo di usare il preteso rispetto dello Stato di diritto per favorire l’introduzione legale dei cosiddetti «nuovi diritti», superando l’opposizione dei Paesi recalcitranti, fra cui potrebbe esserci anche l’Italia con il nuovo governo.
In terzo luogo, scendendo all’ambito nazionale, non può non considerarsi la virulenza di una campagna elettorale fondata sulla criminalizzazione di Giorgia Meloni e del partito dalla stessa guidata, attingendo a piene mani alla retorica antifascista e caricando le elezioni di un significato di referendum morale, come avvenne nel 1994.
Tali elementi di quadro valgono sia a spiegare alcuni atteggiamenti dell’elettorato sia ad apprezzare meglio l’esito della consultazione.
Il risultato elettorale
Intervistato da una televisione pochi minuti prima dell’inizio dello spoglio elettorale, intorno alle 23 di domenica 25 settembre, Luca Ricolfi disse che la prima ricerca che avrebbe fatto, una volta conosciute le prime proiezioni, avrebbe riguardato il totale dei voti della coalizione di centro-destra e la somma di quelli dei partiti di sinistra, compresi gli pseudo-centristi, in realtà sempre appartenenti al campo delle sinistre. Il sociologo torinese voleva semplicemente porre questa domanda: quanto avvenuto dal 1994 fino alle elezioni del 2018 — cioè dal debutto del nuovo sistema elettorale misto maggioritario/proporzionale, che per vent’anni ha visto l’alternarsi di governi di centro-destra e di centro-sinistra, espressione delle due coalizioni sostanzialmente guidate da Silvio Berlusconi e, inizialmente, da Romano Prodi — sarebbe accaduto anche questa volta, cioè anche in questa tornata elettorale gli italiani si sarebbero divisi in due coalizioni contrapposte?
In pratica, Ricolfi voleva capire se dopo i vent’anni del cosiddetto berlusconismo sarebbe nato un terzo polo oppure no.
Nelle precedenti elezioni politiche del 2018 un terzo polo era addirittura diventato il partito più votato. Infatti, fondato nel 2009 da un comico, Beppe Grillo, aveva vinto le elezioni il MoVimento 5 Stelle (M5S), una forza politica anomala, basata sul rifiuto polemico della politica dei partiti della Seconda Repubblica, che non si considerava né di destra né di sinistra. Il M5S, un «non-partito», come ama definirsi, era diventato in pochi anni il primo partito italiano, con il 32% dei voti. Rispetto alla situazione precedente nasceva così un terzo polo, certamente più contiguo alla sinistra, che invece diede vita a un governo cosiddetto populista nel 2018 con la Lega Nord, che per qualche tempo ha sparigliato le coalizioni. Entrò così sulla scena politica uno sconosciuto avvocato e professore universitario, Giuseppe Conte, divenuto presidente del Consiglio prima di un governo giallo-verde e poi, dal 2019 al 2021, giallo-rosso, dove per giallo si intende il M5S, per verde la Lega e per rosso il Partito Democratico (PD). Dopo la caduta di questi due governi tutti i principali partiti, eccetto Fratelli d’Italia (FdI), si unirono in una coalizione guidata dall’uomo delle istituzioni più autorevole d’Italia, Mario Draghi. Finalmente, nel 2022, siamo tornati a votare quasi a scadenza naturale rispetto alle precedenti elezioni politiche. Nel frattempo, però, erano cambiate molte cose e il Parlamento del 2018, con la schiacciante maggioranza degli eletti del M5S, non era più lo stesso, essendo fuoriusciti dal non-partito centinaia di deputati e senatori.
La domanda, dunque, era assolutamente pertinente. Con le elezioni del 2022 si sarebbe ritornati alle due coalizioni contrapposte oppure si sarebbe creato un terzo polo stabile? Alla domanda ha risposto lo stesso Conte, nel frattempo rimasto l’unico leader del M5S, portandolo su posizioni politiche alla sinistra dello stesso PD, ma senza alleanza elettorale. In realtà, vi è stato qualcuno, Carlo Calenda, che, rifiutando l’alleanza con il PD e unendosi a Matteo Renzi, ha proposto un terzo polo centrista, anche se nessuno ha mai dubitato che questo nuovo partito, denominato Azione, facesse parte del mondo delle sinistre, per quanto moderate.
A integrazione di quanto rilevato circa i numeri, da una lettura dei voti reali sembrerebbe che i flussi siano stati prevalentemente interni alle coalizioni. Infatti, il centro-destra — in senso stretto, cioè senza altri partiti all’infuori della coalizione — ha ottenuto 12.409.981 voti nel 2018 e 12.300.244 nel 2022; quindi, si è registrato uno spostamento dell’elettorato di centro-destra su FdI senza una crescita significativa della coalizione.
Il centro-sinistra — anch’esso limitatamente alla coalizione — passa dai 7.914.726 del 2018 ai 7.337.975 del 2022, con il calo più significativo del PD (circa 700-800 mila voti) e in minima parte di +Europa e dell’area Verdi-sinistra, che nel 2018 erano separati fra Liberi e Uguali, fuori dalla coalizione, e Italia Europa Insieme, all’interno della coalizione.
Il M5S, invece, ha perso 6 milioni di voti (10.945.411 nel 2018, 4.333.972 nel 2022), più o meno la somma dei 2.186.747 di Azione e dei circa 4 milioni in più di astenuti rispetto al 2018. Ovviamente, in quest’ultimo caso, non si può dire che i due milioni di voti di Azione siano ex elettori dei 5 Stelle, ma è più plausibile che una grossa fetta dei due milioni di voti persi da Forza Italia siano andati in parte a FdI e in parte proprio ad Azione, che ha raggiunto il proprio risultato rosicchiandone anche al centro-sinistra, mentre i due milioni di voti (su sei milioni) persi dai 5 Stelle siano andati a FdI, che stando all’opposizione ha attirato anche una fetta del voto di protesta.
Ovviamente, l’analisi dei flussi andrebbe approfondita: queste prime valutazioni consentono però di trarre conferma, con certezza, della consolidata liquidità del corpo sociale, manifestatasi attraverso lo spostamento di flussi elettorali inconcepibili non solo all’epoca della Prima Repubblica ma anche nel ventennio berlusconiano (1994-2011), a dimostrazione di una progressiva perdita del senso di comunità degli italiani, sempre più «coriandoli» (1) arrabbiati e non più legati neanche a logiche di appartenenza a singoli gruppi.
Perché ha vinto il centro-destra
Oggi si può dire che dopo il 25 settembre sono tornate le due coalizioni o meglio è tornata la coalizione di centro-destra, che ha vinto le elezioni perché si è presentata unita, mentre tutti i partiti di sinistra non hanno trovato un’intesa, rassegnandosi alla sconfitta. Lo ha scritto lo stesso Ricolfi: «… sull’appuntamento elettorale non ha spirato alcun “vento di destra”.
«Se il centro-destra ha vinto non è perché il baricentro elettorale si è spostato verso destra, ma perché la destra ha una leader che ha saputo sfruttare la logica della legge elettorale (che premia le alleanze larghe), mentre la sinistra ha un leader che non ha nemmeno provato a sfruttarla, quella logica» (2).
Peraltro, se si sommano le percentuali dei voti di ciascuno di questi partiti, si raggiunge un totale superiore a quello della coalizione di centro-destra: 13.194.556 al centro-destra (FdI, FI, Lega e Noi moderati, più altri partiti in qualche modo riconducibili al centro-destra) e dall’altra parte 14.359.754 voti, comprensivi di PD, +Europa, Verdi-Sinistra, Impegno civico di Luigi Di Maio e, in aggiunta, Azione-Italia Viva e M5S.
Quindi, alla coalizione di centro-destra, con il 43,79% dei voti, si contrappongono i diversi partiti della sinistra con il 26,13%, il M5S con il 15,43% e Azione-Italia Viva con il 7,79%. La coalizione guidata da Giorgia Meloni, pertanto, nonostante l’ampia maggioranza parlamentare — 235 seggi su 400 alla Camera dei deputati e 116 su 206 (considerando i 6 senatori a vita) al Senato —, non potrà certamente governare in totale tranquillità (3).
L’Istituto Cattaneo, correttamente, mette in guardia dal sommare meccanicamente i voti di partiti che non sono stati capaci di allearsi e presentarsi uniti, perché non è detto che unendosi avrebbero raccolto i voti che hanno raccolto separati: «Il centro-destra ha un vantaggio molto netto in termini di consensi nei comuni più piccoli (fino a 15.000 abitanti), dove in media si aggiudica 30 punti percentuali in più della coalizione di centro-sinistra e 10 punti in più della somma dei consensi ottenuti da centro-sinistra (Partito democratico e i suoi alleati), Azione-Italia Viva e M5S. All’opposto, la coalizione di centro-sinistra guidata dal PD ha un piccolo vantaggio nelle grandi città (oltre 350.000 abitanti): in media 3 punti percentuali in più rispetto al centro-destra. La situazione è più complessa nei centri urbani di dimensioni intermedie (dai 15.000 ai 350.000 abitanti). Anche nei comuni di queste dimensioni il centro-destra ha un vantaggio netto sul centro-sinistra. Tuttavia, la somma dei voti conseguiti dal centro-sinistra, dai centristi e dal M5s è superiore alle percentuali di consenso del centro-destra. È naturalmente sbagliato ritenere che un campo largo capace di includere centro-sinistra, Azione-Italia Viva e M5s sarebbe in grado di battere il centro-destra. Sommare blocchi di voti in modo meccanico è senz’altro un errore. In ogni caso, i dati sembrano suggerire che una qualche forma di alleanza tra queste formazioni potrebbe rendere la competizione più aperta nei comuni medio-piccoli e medio-grandi» (4).
È utile osservare come lo stesso Istituto Cattaneo abbia fatto una simulazione relativa ai seggi qualora i partiti di sinistra si fossero presentati uniti, che non deve essere assunta come assolutamente certa, ma è comunque oggetto di riflessione: «A questo punto, sorge spontanea la domanda su come sarebbero andate le cose se la principale coalizione alternativa al centrodestra avesse incluso altre liste o partiti, proponendo candidati unici ai collegi uninominali. Ovviamente nessuno è in grado di prevedere come si sarebbero distribuiti i voti tra partiti, coalizioni e astensione, in questi diversi scenari. Per esempio, se il Movimento 5 Stelle si fosse alleato con il PD, molti suoi elettori avrebbero potuto astenersi. Allo stesso tempo, se la coalizione di centro-sinistra avesse incluso Azione e Italia Viva, l’alleanza Sinistra/Verdi avrebbe potuto perdere voti. Inoltre, una maggiore contendibilità tra centro-destra e centro-sinistra avrebbe potuto indurre al voto alcuni cittadini che hanno scelto di non votare per manifesta superiorità di una parte sull’altra. È quindi impossibile determinare come sarebbero andate le cose. Le uniche informazioni a nostra disposizione sono i voti reali ottenuti dalle diverse coalizioni, e possiamo utilizzarli per un puro esercizio contabile. La tabella mostra il numero di seggi ottenuti alla Camera e al Senato nella realtà e in 4 scenari alternativi: quello di un’alleanza allargata tra centro-sinistra, terzo polo e Movimento 5 Stelle, e due alleanze più “semplici”, ovvero tra centro-sinistra e Movimento 5 Stelle o tra centro-sinistra e terzo polo. Nel primo scenario alternativo, l’alleanza allargata avrebbe ottenuto quasi il doppio dei seggi uninominali rispetto al centro-destra, uno scenario che quasi (ma non completamente) ribalta i rapporti di forza effettivamente registrati alle elezioni. Una alleanza tra CS e M5S, sotto l’ipotesi di cui si è detto, avrebbe ottenuto la metà dei seggi uninominali alla Camera e la maggioranza dei seggi al Senato, togliendo quasi 80 seggi al CD. Ovviamente, ripetiamo, non è realistico pensare che i voti ottenuti dalle coalizioni nei diversi scenari sarebbero stati come quelli osservati in realtà. Tuttavia, questo esercizio documenta come l’effetto maggioritario possa influenzare la composizione del Parlamento, e come questo possa essere sfruttato a proprio favore con più opportune alleanze» (5).
Ancora due aree contrapposte
La prima considerazione da fare, dunque, è che gli orientamenti politici degli italiani sono sempre divisi sostanzialmente in due aree contrapposte, più o meno compatte. Sono invece cambiati i rapporti di forza all’interno della coalizione di centro-destra, con il partito di Meloni che ha più voti degli altri due messi insieme. Trascuro l’aggregazione Noi moderati (Brugnaro, Toti, Cesa, Lupi), che mi pare destinata a scomparire.
L’incapacità o l’impossibilità dei partiti di sinistra di stare insieme li ha condannati a una sconfitta che forse sarebbe avvenuta comunque, ma non certo con queste proporzioni.
L’astensionismo
È invece veramente cambiata o, meglio, considerevolmente aumentata, la disaffezione alle urne, che ha visto un incremento del 9% rispetto alle elezioni del 2018. Il 9% degli aventi diritto sono milioni di persone, che si sono aggiunte nel corso degli anni a quanti progressivamente hanno smesso di andare a votare. Se si pensa che cinquant’anni fa, alle elezioni politiche del 1972, l’affluenza fu del 93,26%, si può capire che qualcosa di importante è accaduto in questo mezzo secolo! Nel 2022, infatti, ha votato il 64% degli aventi diritto, mostrando, oltre ogni ragionevole dubbio, che la disaffezione al voto non riguarda soltanto anarchici o menefreghisti, ma esprime un rifiuto ideale (o ideologico). Oggi, il partito del non voto è il primo in Italia con il 36% dei voti degli aventi diritto.
Il contesto internazionale
Il risultato elettorale avviene in un contesto internazionale molto drammatico e in continuo movimento. L’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina ha riportato al centro dell’attenzione planetaria lo scontro fra la Russia di Vladimir Putin e il mondo occidentale, nel contesto di un conflitto molto più gravido di conseguenze, che ha per oggetto l’egemonia nel mondo intero fra Stati Uniti d’America e Repubblica Popolare Cinese. Di fronte al tentativo della Cina — con i suoi alleati, fra cui la Russia — di sottrarre all’Occidente l’egemonia mondiale, si stanno verificando nel mondo diversi conflitti locali o regionali, fra cui i due più importanti sembrano essere la guerra Russia-Ucraina e la crisi che investe Taiwan. L’ex isola di Formosa, secondo alcuni analisti, è il luogo dove potrebbe con maggiori probabilità scoppiare la terza guerra mondiale, una eventualità ancora remota ma della quale si parla e si scrive con sempre maggiore frequenza.
In questo contesto va salutata con favore la vittoria elettorale in Italia della coalizione di centro-destra, che si mostra attenta ai valori fondativi dell’Europa senza mettere in discussione l’appartenenza all’alleanza atlantica.
Un partito conservatore
La vittoria elettorale del partito di Giorgia Meloni deve anche essere ricordata come la vittoria della prima forza politica italiana che ha «osato» definirsi conservatrice. Il termine in Italia non ha mai avuto corso per ragioni storiche e ideologiche, anche se è sempre esistita una parte della popolazione, non sempre maggioritaria ma comunque molto ampia, che può essere definita conservatrice.
Il conservatorismo come filosofia politica ha avuto molto più successo nel mondo anglosassone che in Europa. Secondo tale prospettiva, esistono princìpi trascendenti che, pur dovendosi adattare alle diverse contingenze storiche, rimangono sempre validi nella costruzione del bene comune. Il compito di un partito conservatore è difendere questi e oggi, in una società che li riconosce sempre meno, anche promuoverli. In questo senso, il conservatore è più un missionario che cerca di costruire un futuro migliore piuttosto che un nostalgico di un’epoca trascorsa.
Nel passato dell’Italia unitaria il movimento-partito conservatore è coinciso, dopo l’Unità del 1861, con il movimento cattolico. Vi sono stati anche tentativi di costituire un partito conservatore cattolico e monarchico durante il pontificato di Leone XIII (1878-1903) (6), mentre durante il regime fascista i conservatori sono confluiti nelle istituzioni (la monarchia, l’esercito, l’amministrazione dello Stato), per poi tornare a dirigere il Paese sotto il cappello della Democrazia Cristiana (DC) nel secondo dopoguerra. Di fronte al progressivo spostamento a sinistra della DC, in particolare dopo il fallimento del governo forse più conservatore della storia italiana, quello guidato dall’on. Fernando Tambroni (1901-1963) nel 1960, i conservatori — senza mai definirsi tali — hanno dato vita a diverse esperienze politiche, dalla Maggioranza silenziosa nel 1970 al confluire nel 1972 di esponenti democristiani e conservatori delle istituzioni nel MSI. Movimento Sociale Italiano, dando vita alla Destra Nazionale, per arrivare nel 1994 all’alleanza elettorale di centro-destra tra Forza Italia, Lega, Alleanza Nazionale, Centro Cristiano Democratico, nato da una scissione da destra della DC, e Lista Pannella (limitatamente all’Italia Settentrionale) (7).
Tuttavia, nessuna di queste esperienze politiche, rispetto alle quali FdI potrebbe sentirsi in continuità, si era mai definita con il termine conservatore.
Il fatto che una porzione assai significativa dell’elettorato abbia premiato la coalizione di centro-destra dimostra che:
— vi è un’Italia reattiva che non ha perso del tutto il legame con il senso comune;
— la contrapposizione fascismo/antifascismo sta perdendo oramai significato e appeal;
— nel premiare una compagine che si richiama apertamente alla difesa dell’interesse nazionale, quest’Italia mostra di considerare lo Stato come l’ultimo filtro e protezione rispetto a chi ci governa in ambito sovranazionale.
L’Italia parassita e quella tecnocratica
Accanto a un’Italia reattiva e a un’altra indifferente e disincantata, vi sono però almeno altre due Italie che emergono dal voto:
a) un’Italia parassitaria, abile a strumentalizzare una situazione di povertà, in molti casi reale: un elettorato che, probabilmente, non avrebbe mai votato il PD e che si colloca alla sua sinistra, come espressione degenerata di quella «democrazia del narcisismo» ben descritta dal politologo Giovanni Orsina (8). Del resto, il relativo successo del M5S, specie nel Mezzogiorno, appunto spiegabile con il baratto fra il voto e il reddito di cittadinanza, appare indice non solo di malaffare politico ma anche di perdita di capacità della politica — oggi spesso ridotta a mera amministrazione — di dare risposte a esigenze comunitarie e, prima ancora, dei singoli elettori: la scelta elettorale non è solo di pancia (verrebbe da dire di viscere…), ma premia chi soddisfa il «desiderio» del singolo, il cui individualismo solipsistico non gli consente di vedere né il bene comune né quello del più ristretto gruppo di appartenenza. Ovviamente occorre distinguere fra l’operazione compiuta dal M5S, che ha sfruttato politicamente una situazione oggettivamente problematica, e l’esistenza di una questione sociale le cui radici sono storiche;
b) un’Italia tecno-dipendente e relativista, che preferisce, in nome del ben-essere materiale e dell’individualismo senza regole, delegare ogni decisione sulla cosa pubblica ai tecnocrati: è la platea degli eredi del Partito Comunista, che ha sposato l’agenda radicale dei «diritti», dei progressisti cattolici, degli ambientalisti ideologizzati.
I partiti anti-sistema
In questa tornata elettorale le forze politiche anti-sistema hanno conseguito risultati molto inferiori alle aspettative di chi le ha promosse. Diverse le sigle presenti in questa prospettiva, come Italexit, Alternativa per l’Italia, Vita, Italia libera e sovrana. Generalmente sostenute da persone generose, queste forze hanno messo insieme gli scontenti della politica governativa verso l’emergenza sanitaria oppure hanno cercato di intercettare un anti-occidentalismo diffuso nel Paese da sempre, sia a destra sia a sinistra, mettendo insieme ideologie diverse ma accomunate dall’odio contro qualcosa o qualcuno.
Questi partiti, che hanno coinvolto anche persone che si ritengono vicine alle posizioni contro-rivoluzionarie, non hanno colto come anche la Contro-Rivoluzione sia un processo, lento e graduale, e che il «sistema» — come chiamano l’attuale società — non debba essere abbattuto ma cambiato. Al contrario di quanto sostenevano extraparlamentari e terroristi negli Anni Settanta, il sistema borghese si cambia e non si abbatte e l’alternativa alla Rivoluzione sono le riforme. Tutto ciò, però, presuppone un tipo umano sempre più raro, che va aiutato a ricostruirsi con pazienza e senza aspettative a breve.
Il «fenomeno Cateno De Luca»
Il «fenomeno Cateno De Luca» in Sicilia non va sottovalutato. Personaggio istrionico, già sindaco di Messina dal 2018 al 2022, si è costruito un grande seguito sui social, ha mostrato capacità amministrativa quando è stato sindaco, ha militato inizialmente nella DC, passando nel tempo per UDC, Movimento per l’Autonomia (MPA), Lega Nord e Forza Italia, e si presenta come personaggio anti-sistema, pur avendo fra i suoi candidati anche molti politici di lungo corso, fra l’altro non sempre tra i più limpidi. Guida adesso all’ARS, l’Assemblea Regionale Siciliana, un gruppo di sette deputati, il 10% del totale; ma la cosa più significativa è che è riuscito a far eleggere nei collegi uninominali di Messina un deputato e un senatore, superando i candidati di centro-destra. Potrebbe essere un fenomeno destinato a sgonfiarsi, ma potrebbe anche far nascere un «sindacato del sud», come la Lega Nord lo è stato in passato nelle regioni settentrionali. Proprio l’elezione di due parlamentari, inoltre, mostra come — dove si hanno seguito, consenso e risorse — si possa scardinare nei collegi uninominali l’attuale sistema elettorale. Questo successo, peraltro, potrebbe essere replicato anche dai «buoni», dove ci dovessero essere le condizioni.
Il destino della Lega
La Lega guidata da Matteo Salvini è stata particolarmente colpita in senso negativo dal risultato elettorale, passando in quattro anni dal 17,23% dei consensi nel 2018 a meno del 10%.
La Lega è importante nella storia culturale italiana, perché ha anticipato la fine dell’epoca delle ideologie, diventando il primo partito territoriale, cioè legato alla difesa degli interessi di un territorio, e federalista, così mettendo in discussione la politica centralista di tutti i governi successivi all’Unità. Partita dai movimenti autonomisti del Nord, dalla difesa dell’uso dei dialetti e dalla polemica antiromana, la Lega con Salvini si è trasformata in un partito nazionale, che ha cercato di radicarsi anche nel Sud, peraltro senza una proposta federalista. Segretario della Lega Nord nel 2013, quando il partito aveva il 4,1% dei voti, Salvini è riuscito a portarlo al 34,26% nelle elezioni europee del 2019 ma dopo, in soli tre anni, il partito è calato fino al risultato del 25 settembre, a conferma di quanto sia volatile il consenso nella società liquida post-ideologica, ma anche perché l’elettorato, fra due partiti tendenzialmente nazionalisti, ha scelto l’«originale», cioè FdI.
Va notato come la Lega abbia scontato anche una non adeguata attenzione al quadro internazionale, sempre più importante pure per le decisioni relative alla politica nazionale. Si è avuta l’impressione che Salvini abbia cercato di «tenere» al Sud, per difendere la sua idea di partito nazionale rispetto a chi vorrebbe «tornare al nord», permettendo l’ingresso — sia alle elezioni politiche sia alle regionali in Sicilia — di candidati di altra provenienza e spesso discutibili. Casi emblematici in Sicilia sono alcuni deputati regionali provenienti dal PD con un breve transito anche in Italia Viva.
In ultimo, sul risultato elettorale negativo della Lega devono aver contribuito significativamente le dimissioni, poco comprensibili, di Salvini dal I governo Conte nell’agosto 2019, che hanno aperto le porte al II governo Conte, il cui operato è stato molto discutibile. Anche l’aver dato il proprio appoggio all’esecutivo guidato da Mario Draghi non ha giovato affatto alla Lega.
Nel dinamismo interno al partito, fra le due prospettive, quella rinnovata salviniana di un partito nazionale e quella tradizionale di un partito «nordista», andrebbe piuttosto recuperata quella autenticamente federalistica, di rispetto delle peculiarità sociali dei territori: ispirata al principio di sussidiarietà, che vale per tutti i popoli, dal Nord al Sud, potrebbe permettere alla Lega di proporsi anche nel Mezzogiorno senza rinunciare alla propria originalità, perché le ricette federaliste che vanno bene per Lombardia e Veneto potrebbero favorire lo sviluppo anche delle altre regioni italiane, comprese quelle meridionali.
La questione cattolica
I punti di partenza per affrontare la questione cattolica sono due: la totale secolarizzazione della società occidentale, italiana in particolare, e la conseguente irrilevanza della presenza pubblica dei cattolici. Quest’ultima, dopo la scomparsa della DC e la fine del collateralismo, ha conosciuto la stagione del «progetto culturale», quando presidente della CEI, la Conferenza Episcopale Italiana, era il card. Camillo Ruini, a partire dal Convegno di Loreto nel 1985, con cui la Chiesa italiana ha cercato di essere presente nella società come protagonista nella promozione dei princìpi non negoziabili, senza delegare ai partiti ma di fatto trovando un accordo con il centro-destra di Berlusconi. Terminata la presidenza del card. Ruini, la Chiesa italiana ha sempre più assunto posizioni deboli, privilegiando di fatto il centro-sinistra, ma senza incidere nella vita pubblica e soprattutto senza portare il PD a rinunciare alle sue posizioni sui «nuovi diritti», radicalmente inaccettabili per la dottrina della Chiesa. Giova notare come la presidenza Ruini, criticata da sinistra per il suo appoggiarsi ai partiti di centro-destra, in realtà con il Progetto culturale abbia posto al centro la questione religiosa, sintetizzata nelle poche parole che titolavano nel 2009 un convegno promosso dal presidente dei vescovi italiani: «Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto».
Oggi la questione cattolica sembra scomparsa dall’attenzione pubblica, salvo i pochi interventi di Andrea Riccardi (9), di Ernesto Galli della Loggia (10) e di Sergio Belardinelli (11). Peraltro, sembrano tutti riconoscere — anche il direttore della rivista Il Regno Gianfranco Brunelli (12) — che il problema dell’irrilevanza dei cattolici non è il «cattolicesimo politico», cioè una diversa presenza pubblica dei cattolici nella vita politica, ma riguarda in qualche modo quella domanda posta dal card. Ruini non un secolo fa, ma poco più di dieci anni fa.
Si può dire che l’irrilevanza dei cattolici si manifesta sotto almeno quattro profili:
a) vi è un’irrilevanza «istituzionale»: oramai la Chiesa e la Gerarchia non solo non spostano voti, ma stanno alla finestra, cercando di capire chi vincerà per poi individuare un modus vivendi con il vincitore che permetta la migliore sopravvivenza, di fatto però rinunciando alla prospettiva profetica della «nuova evangelizzazione»;
b) vi è una divisione ormai profonda nel mondo cattolico, che impedisce qualsiasi incidenza: non si tratta di una diaspora esito di scelte contingenti, ma di decisioni frutto di visioni contrapposte, che investono la stessa finalità ultima dell’impegno dei cattolici in politica. Questa divisione va ben più in profondità della contrapposizione conservatori/progressisti o destra/sinistra, ma è figlia della penetrazione del relativismo, cioè della IV Rivoluzione, nei criteri di giudizio dei nostri contemporanei, cattolici compresi. Pertanto, questi ultimi non riconoscono più né il principio di autorità della Gerarchia e del Magistero, né tanto meno quello della Tradizione e si ritengono autorizzati a scegliere le proprie priorità — non solo e non tanto politicamente — secondo un criterio personale, quasi come se ciascuno fosse una piccola Chiesa autocefala, sul modello dell’Ortodossia. Il tema è molto più importante e profondo del solo aspetto politico e meriterà una trattazione a parte;
c) la riduzione dell’intervento dei cattolici alle sole questioni etiche o, al contrario, alle sole questioni economiche (spesso declinate sotto forma di mero assistenzialismo e di sostegno al terzo settore), come se la dottrina sociale non investisse tutti gli ambiti dell’agire sociale dell’uomo e come se le questioni economiche — tutte — potessero prescindere dalle questioni etiche, cioè da una corretta antropologia. Ciò ha comportato l’assurda divisione fra cattolici «per la vita» e cattolici «del sociale»;
d) il timore di affrontare questioni di fondo della politica e della geo-politica, come il rapporto con l’Unione Europea, la ridefinizione dello Stato di diritto, lo spostamento dell’asse delle alleanze verso i Paesi europei critici di Bruxelles: in definitiva, l’adozione di un’agenda in distonia con quella dominante, fondata su elaborazioni originali, francamente profetica.
Dopo le elezioni: che fare?
Attribuire alla politica, e tanto meno a un partito politico, il compito di affrontare e risolvere la catastrofe antropologica del nostro tempo, sarebbe insensato. La politica può rallentare il processo rivoluzionario e può aiutare comportamenti virtuosi, per esempio favorendo il superamento dell’inverno demografico con iniziative di sostegno alla maternità, ma l’inversione di rotta, cioè la conversione della società, è opera di Dio e della sua Chiesa, Gerarchia e laicato, attraverso l’annuncio della fede e una seminagione paziente e a lungo termine di una cultura ispirata alla stessa fede.
Occorre, quindi, una risposta culturale prima che politica, nel senso di recuperare un’antropologia sociale che sappia ridare ai consociati il senso e la consapevolezza di non essere delle monadi, ma uomini naturalmente sociali e, in quanto tali, bisognosi di una forma di organizzazione giuridica del loro vivere insieme, che è appunto l’arte della politikè.
Tuttavia, anche da questo risultato elettorale è possibile ricavare alcune indicazioni:
a) la vittoria di FdI e del centro-destra dovrebbe rallentare la penetrazione dei «nuovi diritti» nella società, rendendo più difficile (ma non impossibile) l’approvazione di leggi inique;
b) questo «tempo di grazia» eventualmente concesso va sfruttato, soprattutto cercando di trovare il modo di favorire un cambio di atteggiamento verso la questione antropologica in quei segmenti della società dove si può effettivamente innestare un cambiamento culturale, mentre rimane insostituibile l’apostolato ad personam (scuole, università, parrocchie, movimenti e associazioni);
c) caratteristica fondamentale di questo lavoro culturale è l’unità del maggior numero possibile di forze pro-life e pro-family, o impegnate nella promozione della libertà di educazione e religiosa. Più precisamente, un tema sul quale si dovrebbe incalzare con proposte concrete e ben studiate il prossimo governo dovrebbe essere quello del suicidio demografico del Paese, tema drammatico ma poco percepito dalla politica e dai principali intellettuali del Paese;
d) detto ciò, rimane la necessità di individuare un percorso di rinascita per il nostro Paese, che sfrutti il tempo concesso dalla Provvidenza e che non sia velleitario ma tenga conto della situazione drammatica in cui versa la nostra società, ancor prima della classe politica. Viviamo in un mondo che muore eppure il nostro primo dovere è mantenere viva la speranza, non solo quella teologale, ma anche la speranza minore in quel trionfo del Suo cuore annunciato a Fatima da Maria a suor Lucia (1907-2005). Come, in concreto? Cercando di aggregare persone e di favorire la conversione di ambienti — utilizzando tutte le occasioni, conformemente all’ampiezza dell’apostolato di Alleanza Cattolica, svolto senza ansia di successo, in totale abbandono alla Divina Provvidenza — perché ne convincano altri, fino a essere in grado di influenzare la società.
a cura di Alleanza Cattolica
Note:
1) Cfr. Giuseppe De Rita, Governare una società a coriandoli, in Corriere della Sera, 14-9-2007.
2) Luca Ricolfi, Il Pd e le due patenti dei 5S, in la Repubblica, 30-9- 2022.
3) Sulla complessità del «potere» negli Stati contemporanei e sulla difficoltà di un controllo unitario di tutti i suoi gangli, cfr. Giovanni Cantoni (1938-2020), L’Italia in bilico. Dopo la tornata elettorale del 9 e 10 aprile 2006, in Cristianità, anno XXXIV, n. 334, marzo-aprile 2006, pp. 3-6, in particolare il par. 3, Il ventaglio dei Poteri dopo il 1989, pp. 3-4.
4) Istituto Cattaneo, Elezioni 2022. La contendibilità dei territori, 28-9-2022, nel sito web <https://www.cattaneo.org/elezioni-2022-la-contendibilita-dei-collegi>, consultato il 31-10-2022.
5) Idem, Elezioni 2022. La contendibilità dei collegi, 3-10-2022, ibidem.
6) Cfr. Giuseppe Ignesti, Il tentativo conciliatorista del 1878-1879. Le riunioni romane di Casa Campello, AVE, Roma 1988.
7) Cfr. G. Cantoni, L’alternativa davanti ai Poli delle Libertà e del Buon Governo: Seconda Repubblica o Nuova Repubblica?, in Cristianità, anno XXII, n. 227-228, marzo-aprile 1994, pp. 3-5.
8) Cfr. Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio, Venezia 2018.
9) Cfr. Andrea Riccardi, Questione cattolica, una centralità da ritrovare, in Corriere della Sera, 17-8-2022, e Idem, I cattolici e la politica: una fede che crea «cultura», ibid., 20-9-2022.
10) Cfr. Ernesto Galli della Loggia, L’eclissi cattolica in politica, ibid., 29-8-2022.
11) Cfr. Sergio Belardinelli, In una società plurale non può esistere una politica a priori «cattolica», in Il Foglio, 3-9-2022.
12) Cfr. Gianfranco Brunelli, La terza questione cattolica. Oltre il cattolicesimo politico, in Il Regno-attualità, n. 16, Bologna 15-9-2022, pp. 477-478.