Card. Alfredo Ottaviani, Cristianità n. 52-53 (1979)
Esposizione dottrinalmente densa e autorevole del tema, la trattazione dell’eminente porporato da poco scomparso è tale da illuminare, forse in radice, la quaestio ancora insoluta relativa alla coerenza di qualche passo e di qualche espressione della dichiarazione del Concilio Ecumenico Vaticano II sulla libertà religiosa, Dignitatis humanae, con il precedente ininterrotto Magistero. Tale coerenza, da alcuni negata (per esempio da Congar, Sebbott, Sala) è dai più affermata con argomenti molto spesso, pare, scarsamente convincenti e probanti. Se ogni testo conciliare – come ha detto il regnante Pontefice – deve essere «visto nella luce della Tradizione» (GIOVANNI PAOLO II, Radiomessaggio al mondo intero, del 17-10-1978, in L’Osservatore Romano, 18-10-1978), la conferenza del prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede offre una egregia esposizione dell’insegnamento tradizionale in materia, utile per leggere ed eventualmente integrare in modo adeguato il documento conciliare.
Secondo il Magistero tradizionale della Chiesa
Doveri dello Stato cattolico verso la religione
Premessa
Non avrei pensato a dare alle stampe la conferenza che tenni il 2 marzo 1953 nell’aula magna del Pontificio Ateneo Lateranense, se non mi avesse a ciò spinto il gran numero delle richieste pervenutemi da pubblicisti e da membri del corpo insegnante di diversi istituti di studi superiori, i quali hanno insistito sull’opportunità di divulgare quanto io dissi in quella solenne adunanza (1).
«È da troppo tempo – mi ha scritto un distinto religioso – che il diritto pubblico della Chiesa non conosce che le riservate aule degli istituti ecclesiastici, mentre è urgente il bisogno di divulgarlo in mezzo a tutti i ceti sociali, sopra tutto tra quelli più elevati.
La stampa ne tace per principio, diretta com’è da uomini che hanno il culto della libertà assai più di quello della verità […]. Lo smarrimento generale cui assistiamo, le perplessità degli uomini di Stato e gli stessi enormi errori che si commettono nelle ibride unioni fra Stati e partiti richiedono che il problema capitale fra Stato e Chiesa venga posto, apertis verbis, che se ne discorra largamente e con la maggiore chiarezza, e, sopra tutto, senza paura.
«Il coraggio cristiano è virtù cardinale che si chiama fortezza».
Tutte queste vive insistenze mi hanno convinto come oggi, più d’ogni altro tempo, sia necessario che ogni sacerdote ed ogni laico che collabora all’apostolato del clero imiti, nella misura che gli è possibile, l’esempio del divin Maestro, il quale disse di sé: «Ad hoc veni in mundum ut testimonium perhibeam veritati» (2).
«Qualcuno, forse, noterà che non ho fatto nomi di autori, anche riportandone qualche volta testualmente alcune affermazioni. Me ne sono astenuto per due motivi: anzitutto, perché poco importa sapere che certe idee sono sostenute dall’uno o dall’altro scrittore, quando sono talmente diffuse, da non potersi considerare più come proprie di qualche individuo; inoltre ho voluto seguire la norma di sant’Agostino, che c’insegna a combattere non già gli erranti, ma l’errore. E con ciò mi sono attenuto anche al programma e all’esempio dell’augusto Pontefice, gloriosamente regnante, che ha assunto per motto del suo pontificato: «Veritatem facientes in caritate» (3).
Roma, 25 marzo 1953
A. Card. Ottaviani
Che i nemici della Chiesa abbiano in ogni tempo osteggiata la sua missione, negandole alcune – o anche tutte – le sue divine prerogative e i suoi poteri, non fa meraviglia.
L’impeto dell’assalto, con i suoi fallaci pretesti, proruppe già contro il divino Fondatore di questa bimillenaria e pur sempre giovane istituzione: contro di lui si gridò – come si grida tuttora «Nolumus hunc regnare super nos!» (4).
E con la pazienza e la serenità che le viene dalla sicurezza dei suoi profetati destini, e dalla certezza della sua divina missione, la Chiesa canta nei secoli: «Non eripit mortalia qui regna dat caelestia» (5).
Sorge invece in noi la meraviglia, e cresce fino allo stupore, e si effonde in mestizia, quando il tentativo di strappare le spirituali armi di giustizia e di verità dalle mani di questa Madre benefica che è la Chiesa viene effettuato proprio dai figli: ed anche da quei figli che, trovandosi in Stati interconfessionali, vivendo in continuo contatto coi fratelli dissidenti, dovrebbero sentire più di ogni altro il dovere di gratitudine verso questa Madre che ha sempre usato dei suoi diritti per difendere, custodire, salvaguardare i propri fedeli.
Chiesa carismatica e Chiesa del diritto?
Oggi si ammette da alcuni nella Chiesa soltanto un ordine pneumatico, e viene quindi affermato il principio che la natura del diritto della Chiesa è in contraddizione con la natura della Chiesa stessa.
Secondo essi, l’elemento originale sacramentale andrebbe sempre più affievolendosi, per dar posto all’elemento della giurisdizione, che ora è la forza e la potenza della Chiesa; prevalse l’idea, come asserisce il giurista protestante Sohm, che la Chiesa di Dio è costituita come lo Stato.
Ma il can. 108, § 3, dove si parla della esistenza nella Chiesa del potere di ordine e del potere di giurisdizione, si richiama al diritto divino. E che questo richiamo sia legittimo, lo dimostrano i testi evangelici, le allegazioni degli Atti degli Apostoli, le citazioni delle loro Lettere, frequentemente addotte dagli autori di diritto pubblico ecclesiastico, per provare l’origine divina degli enunciati poteri e diritti della Chiesa.
Nella enciclica Mystici Corporis l’augusto Pontefice felicemente regnante si esprimeva, a tal proposito, nei seguenti termini: «[…] riproviamo […] il funesto errore di coloro i quali sognano una Chiesa ideale, una certa società alimentata e formata di carità cui (non senza disprezzo) oppongono l’altra che chiamano giuridica. Ma erroneamente suggeriscono una tale distinzione: giacché essi non avvertono che il divin Redentore che il ceto di uomini da Lui fondato fosse anche una società perfetta nel suo genere e fornita di tutti gli elementi giuridici e sociali, per perpetuare in terra l’opera salutare della Redenzione; e perciò la volle arricchita dallo Spirito Santo di celesti doni e grazie» (6).
Non vuole quindi la Chiesa essere uno Stato; ma il suo divin Fondatore l’ha costituita società perfetta con tutti i poteri inerenti a tale condizione giuridica, per svolgere la sua missione in ogni Stato senza contrasti tra le due società, di cui egli è in diverso modo autore e sostegno.
Adesione al Magistero ordinario
E qui sorge il problema della convivenza della Chiesa con lo Stato laico. Vi sono dei cattolici che, su questo argomento stanno divulgando idee non del tutto a posto.
A molti di tali cattolici non può negarsi né l’amore alla Chiesa, né la retta intenzione di trovare una via di possibile adattamento alle circostanze dei tempi. Ma non è men vero che la loro posizione rispecchia quella del delicatus miles che vuol vincere senza combattere, o quella dell’ingenuo che accetta una insidiosa mano tesa, senza rendersi conto che quella mano lo trarrà poi a passare il Rubicone verso l’errore e l’ingiustizia.
Il primo torto di costoro è proprio quello di non accettare in pieno le arma veritatis e gli insegnamenti che i Romani Pontefici in quest’ultimo secolo, in modo particolare il regnante Pontefice Pio XII, con encicliche, allocuzioni e ammaestramenti d’ogni sorta, hanno impartito in proposito ai cattolici.
Essi, a propria giustificazione, affermano che nel complesso dell’insegnamento impartito nella Chiesa occorre distinguere una parte permanente e una caduca, dovuta, quest’ultima, al riflesso di particolari condizioni temporanee.
Purtroppo, però, estendono ciò anche ai princìpi affermati nei documenti pontifici, principi sui quali si è mantenuto costante l’insegnamento dei Papi, facendo essi parte del patrimonio della dottrina cattolica.
Su questa materia la teoria del pendolo, introdotta da alcuni scrittori nel vagliare la portata delle encicliche nelle varie epoche, non può applicarsi.
«La Chiesa – è stato scritto – scandisce la storia del mondo come un pendolo che, attento a conservare la misura, mantiene il suo movimento invertendolo quando pensa di avere raggiunto il massimo di ampiezza […]. Da questa angolazione ci sarebbe da fare tutta una storia delle encicliche; così, in materia di studi biblici, la Divino afflante Spiritu segue alla Spiritus Paraclitus e alla Providentissimus. In materie di teologia del politico, la Summi Pontificatus, la Non abbiamo bisogno, la Ubi arcano Dei seguono la Immortale Dei» (7).
Ora, se questo fosse inteso nel senso che i principi generali e fondamentali di diritto pubblico ecclesiastico, solennemente affermati nella Immortale Dei, riflettono soltanto momenti storici del passato, mentre poi il pendolo degli insegnamenti enciclicali di Pio XI e di Pio XII sarebbe passato nella sua «inversione», a posizioni diverse, la cosa sarebbe da ritenersi del tutto erronea, non solo perché non rispondente al contenuto delle encicliche stesse, ma anche perché inammissibile in linea teoretica.
Il regnante Pontefice nella Humani generis ci insegna come dobbiamo accettare nelle encicliche il Magistero ordinario della Chiesa: «Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, di cui valgono pure le parole: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc. 10, 16); e per lo più, quanto viene proposto e inculcato nelle Encicliche, è già, per altre ragioni, patrimonio della dottrina cattolica» (8).
Col timore di essere accusati di voler tornare al Medioevo, alcuni nostri scrittori non se la sentono di tenere le posizioni dottrinali che sono state costantemente affermate nelle encicliche, come appartenenti alla vita e al diritto della Chiesa di ogni tempo. E per costoro il monito di Leone XIII, il quale, raccomandando la concordia e l’unità nel combattere l’errore, aggiunge: «[…]; e da questo lato bisogna stare bene in guardia di non lasciarsi andare ad essere conniventi all’errore, o ad opporgli più debole resistenza, che la verità non comporti» (9).
Doveri dello Stato cattolico
Toccata questa preliminare questione del doveroso assenso agli insegnamenti della Chiesa, anche nel suo Magistero ordinario, veniamo ad una questione pratica che, in termini usuali, potremmo dire «scottante»: quella, cioè, di uno Stato cattolico e delle relative conseguenze di fronte ai culti non cattolici.
È noto che in alcuni paesi, con popolazioni in assoluta maggioranza cattolica, nelle rispettive Costituzioni la religione cattolica viene proclamata religione dello Stato. Citerò, a modo di esempio, il caso più tipico, quello della Spagna.
Nel Fuero de los Españoles, la carta fondamentale dei diritti e dei doveri del cittadino spagnolo, all’articolo 6 viene stabilito quanto segue: «La professione e la pratica della religione cattolica, che è quella dello Stato spagnolo, godrà della protezione ufficiale.
«Nessuno sarà molestato per le sue credenze religiose né nell’esercizio privato del suo culto.
«Non si permetteranno né altre cerimonie né manifestazioni esterne diverse da quelle della religione dello Stato».
Ciò ha sollevato le proteste di molti acattolici e di miscredenti; ma, quel che più dispiace, è considerato come anacronistico anche da alcuni cattolici, che pensano poter la Chiesa convivere pacificamente, e nel pieno possesso dei propri diritti, nello Stato laico, pur composto di cattolici.
È nota la controversia, svoltasi recentemente in un paese d’oltre oceano, tra due autori di opposte tendenze, nella quale il sostenitore della tesi sopra accennata afferma:
1. lo Stato, propriamente parlando, non può compiere un atto di religione (lo Stato è un semplice simbolo o un insieme di istituzioni);
2. «un passaggio immediato dall’ordine della verità etica e teologica all’ordine della legge costituzionale è, in via di principio, dialetticamente inammissibile» (10). L’obbligo, cioé, dello Stato al culto di Dio non potrebbe mai entrare nella sfera costituzionale;
3. infine, anche per uno Stato composto di cattolici non vi è l’obbligo di professare la religione cattolica; quanto all’obbligo di proteggerla, questo non diviene operante che in determinate circostanze, e precisamente quando la libertà della Chiesa non può essere altrimenti garantita.
Vengono, perciò, mossi attacchi all’insegnamento esposto nei manuali di diritto pubblico ecclesiastico, non ponendosi mente che tale insegnamento è basato, in massima parte, sulla dottrina esposta nei documenti pontifici.
Ora, se c’è verità certa e indiscutibile tra i principi generali del diritto pubblico ecclesiastico, è quella del dovere dei governanti in uno Stato composto nella quasi totalità di cattolici e, conseguentemente e coerentemente, retto da cattolici, di informare la legislazione in senso cattolico. Il che importa tre immediate conseguenze:
1. la professione sociale e non soltanto privata della religione del popolo;
2. la ispirazione cristiana della legislazione;
3. la difesa del patrimonio religioso del popolo contro ogni assalto di chi vorrebbe strappare ad esso il tesoro della sua fede e della pace religiosa.
Ho detto in primo luogo che lo Stato ha il dovere di professare anche socialmente la sua religione.
Gli uomini socialmente uniti, non sono meno sotto la sudditanza di Dio, di quanto lo siano come singoli, e la società civile, non meno dei singoli, è debitrice verso Dio, «dal quale essa riconosce l’essere, la conservazione e tutto quel cumulo immenso di beni che ha nel suo seno» (11).
Quindi, come a nessun individuo è lecito trascurare i suoi doveri verso Dio e verso la religione, con la quale Dio vuole essere onorato, allo stesso modo «gli Stati non possono, senza empietà, condursi come se Dio non fosse, o passarsi della religione come di cosa estranea e di nessuna importanza» (12).
Pio XII rafforza l’insegnamento, condannando «l’errore contenuto in quelle concezioni, le quali non dubitano di sciogliere l’autorità civile da qualsiasi dipendenza dall’Ente supremo, causa prima e signore assoluto sia dell’uomo che della società, e da ogni legame di legge trascendente, che da Dio deriva come da fonte primaria, e le concedono una facoltà illimitata di azione, abbandonata all’onda mutevole dell’arbitrio o ai soli dettami di esigenze storiche contingenti e di interessi relativi» (13).
E proseguendo, l’augusto Pontefice mette in evidenza quali disastrose conseguenze anche per la libertà e per i diritti dell’uomo derivino da tale errore: «Rinnegata, in tal modo, l’autorità di Dio e l’impero della sua legge, il potere civile, per conseguenza ineluttabile, tende ad attribuirsi quella assoluta autonomia, che solo compete al Supremo Fattore, e a sostituirsi all’Onnipotente, elevando lo Stato o la collettività a fine ultimo della vita, a criterio sommo dell’ordine morale e giuridico (14).
Ho detto, in secondo luogo, che è dovere dei governanti di informare la propria attività sociale e la legislazione ai principi morali della religione.
È una conseguenza del debito di religiosità e di sottomissione dovuto a Dio non soltanto individualmente ma anche socialmente, e ciò con sicuro vantaggio del vero benessere del popolo.
Contro l’agnosticismo morale e religioso dello Stato e delle sue leggi Pio XII ribadiva il concetto dello Stato cristiano nella sua augusta lettera del 19 ottobre 1945 per la XIX Settimana Sociale dei cattolici italiani in cui si doveva studiare appunto il problema della nuova Costituzione.
«Ben riflettendo sulle conseguenze deleterie, che una costituzione la quale, abbandonando “la pietra angolare” della concezione cristiana della vita, tentasse di fondarsi sull’agnosticismo morale e religioso, porterebbe in seno alla società e nella sua labile storia, ogni cattolico comprenderà facilmente come ora la questione che, a preferenza di ogni altra, deve attirare la sua attenzione e spronare la sua attività, consiste nell’assicurare alla generazione presente e alle future il bene di una legge fondamentale dello Stato, che non si opponga a sani principii religiosi e morali, ma ne tragga piuttosto vigorosa ispirazione, e ne proclami e ne persegua sapientemente le alte finalità» (15).
Il Sommo Pontefice, a questo proposito, non ha mancato di tributare «la lode dovuta alla saggezza di quei governanti che, o sempre favorirono, o vollero e seppero rimettere in onore, con vantaggio del popolo, i valori della civiltà cristiana, nei felici rapporti fra Chiesa e Stato, nella tutela della santità del matrimonio, nella educazione religiosa della gioventù» (16).
In terzo luogo ho detto essere dovere dei governanti di uno Stato cattolico di difendere da ogni incrinatura l’unità religiosa di un popolo che si sente unanimamente nel sicuro possesso della verità religiosa. Su questo punto sono numerosi i documenti in cui il Santo Padre afferma i principi enunciati dai suoi predecessori, specialmente da Leone XIII.
Nel condannare l’indifferentismo religioso dello Stato, Leone XIII, mentre nell’enciclica Immortale Dei si appella al diritto divino, nell’enciclica Libertas si appella anche ai principi di giustizia e alla ragione. Nella Immortale Dei mette in evidenza come non possano i governanti «adottarne indifferentemente una tra le molte [religioni]» (17), perché – spiega egli – sono obbligati, nel culto divino, a seguire quelle leggi e quei modi con cui Dio stesso ha comandato di voler essere onorato, «in quel modo che Egli stesso mostrò di volere» (18). E nell’enciclica Libertas incalza, appellandosi alla giustizia e alla ragione: «Ragione adunque e giustizia del pari condannano lo Stato ateo o, chè lo stesso, indifferente verso i vari culti e ad ognuno di loro largo de’ diritti medesimi» (19).
Si appella il Papa alla giustizia e alla ragione, perché non è giusto attribuire gli stessi diritti al bene e al male, alla verità e all’errore. E la ragione si ribella al pensiero che, per deferire alle esigenze di una piccola minoranza, si ledano i diritti, la fede e la coscienza della quasi totalità del popolo e si tradisca questo popolo, permettendo agli insidiatori della sua fede di portare in mezzo ad esso la scissione con tutte le conseguenze della lotta religiosa.
Fermezza di princìpi
Questi principi sono saldi e immobili: valsero ai tempi di Innocenzo III, di Bonifacio VIII, valgono ai tempi di Leone XIII e di Pio XII, che li ha riaffermati in più di un suo documento. Per questo egli con severa fermezza ha anche richiamato i governanti ai loro doveri, appellandosi al monito dello Spirito Santo, monito che non conosce limiti di tempo: «Dobbiamo chiedere con insistenza a Dio – così Pio XII nell’enciclica Mystici Corporis – che tutti coloro che sono al governo dei popoli amino la sapienza, in modo che la seguente gravissima sentenza dello Spirito Santo non ricada mai su di essi: “L’Altissimo esaminerà le vostre opere e scruterà i pensieri; perché, ministri del suo regno non avete governato rettamente, né avete osservato la legge di giustizia, né secondo il volere di Dio avete camminato. Terribile e veloce egli piomberà su voi, chè rigorosissimo giudizio verrà fatto di quei che stanno in alto. Al tapino invero si usa misericordia, ma i potenti saranno potentemente puniti! Perché non indietreggerà dinanzi a persona il Signore di tutti, né avrà soggezione della grandezza di nessuno; ché il grande e il piccolo egli ha creato, ed ha cura ugualmente di tutti» (20).
Riferendomi, poi, a quanto ho detto sopra circa la consonanza delle encicliche messe in questione, sono sicuro che nessuno potrebbe dimostrare che vi sia un’oscillazione qualsiasi, in materia di questi principi, tra la Summi Pontificatus di Pio XII, le encicliche di Pio XI Divini Redemptoris contro il comunismo, Mit brennender Sorge contro il nazismo, Non abbiamo bisogno contro il monopolio statale del fascismo e le precedenti encicliche di Leone XIII Immortale Dei, Libertas e Sapientiae cristianae.
«Le ultime, profonde, lapidarie, fondamentali norme della società – proclama l’augusto Pontefice nel radiomessaggio del Natale 1942 – non possono essere intaccate da intervento d’ingegno umano; si potranno negare, ignorare, disprezzare, trasgredire, ma non mai abrogare con efficacia giuridica» (21).
I diritti della verità
Ma qui occorre risolvere un’altra questione, o meglio una difficoltà, così speciosa, che, a prima vista, sembrerebbe insolubile.
Ci si obietta: voi sostenete due criteri o norme d’azione diverse, secondo che vi fa comodo: nel paese cattolico sostenete l’idea dello Stato confessionale, col dovere di protezione esclusiva della religione cattolica; viceversa, dove voi siete una minoranza, reclamate il diritto alla tolleranza o addirittura alla parità dei culti: quindi due pesi e due misure; una vera duplicità imbarazzante, della quale i cattolici, che tengono conto degli sviluppi attuali della civiltà, vogliono sbarazzarsi.
Ebbene, appunto due pesi e due misure sono da usarsi: l’uno per la verità, l’altro per l’errore.
Gli uomini, che si sentono in sicuro possesso della verità e della giustizia, non vengono a transazioni. Essi esigono il pieno rispetto dei loro diritti. Coloro invece che non si sentono sicuri del possesso della verità come possono esigere di tener soli il campo, senza farne parte a chi ama il rispetto dei propri diritti in base ad altri princìpi?
Il concetto di parità di culto e di tolleranza è un prodotto del libero esame e della molteplicità delle confessioni. È una logica conseguenza delle opinioni di coloro che ritengono, in fatto di religione, non esservi posto per i dogmi, e che soltanto la coscienza dei singoli individui dia il criterio e la norma per la professione della fede e l’esercizio del culto. E allora, in quei paesi dove vigono queste teorie, quale meraviglia che la Chiesa cattolica cerchi di avere un posto per svolgere la sua divina missione, e cerchi di farsi riconoscere quei diritti che, per logica conseguenza dei principi adottati dalle legislazioni di quei paesi, può reclamare?
Essa vorrebbe parlare e reclamare in nome di Dio: ma presso quei popoli non è riconosciuta l’esclusività della sua missione. E allora si contenta di reclamare in nome di quella tolleranza, di quella parità e di quelle comuni garanzie cui si ispirano le legislazioni dei paesi in questione.
Quando nel 1949 si tenne ad Amsterdam la riunione delle varie chiese eterodosse per il progresso del movimento ecumenico, erano in quel convegno rappresentate ben 146 chiese o confessioni diverse, I delegati presenti appartenevano a circa 50 nazioni: vi erano calvinisti, luterani, copti, vecchi cattolici, battisti, valdesi, metodisti, episcopaliani, presbiteriani, malabarici, avventisti, ecc.
La Chiesa cattolica, che si sente già nel sicuro possesso della verità e dell’unità, non doveva, logicamente, essere presente, per cercarvi quell’unione che gli altri non hanno.
Ebbene, dopo tante discussioni, i convenuti non si trovarono d’accordo nemmeno per una comune celebrazione finale della cena eucaristica, che doveva essere il simbolo della loro unione, se non nella fede, almeno nella carità: tanto che nella sessione plenaria del 23 agosto 1949 il dott. Kraemer, calvinista olandese, poi direttore del nuovo Istituto Ecumenico di Celigny in Svizzera, faceva osservare che sarebbe stato meglio omettere qualsiasi cena eucaristica, invece di manifestare tanta divisione, facendo molte cene separate.
In tali condizioni di cose – dico io – potrebbe una di queste confessioni, convivente con le altre, o anche predominante in uno stesso Stato, assumere una posizione intransigente ed esigere quello che la Chiesa cattolica si attende da uno Stato in grande maggioranza cattolico?
Non deve, quindi, far meraviglia se la Chiesa si richiami almeno ai diritti dell’uomo, quando sono misconosciuti i diritti d Dio!
Questo essa fece nei primi secoli del cristianesimo, di fronte all’impero e al mondo pagano: questo continua a fare oggi, specialmente là dove ogni diritto religioso è negato, come nei paesi sotto la dominazione sovietica.
Il regnante Pontefice, dinanzi alle persecuzioni, cui son fatti oggetto tutti i cristiani – in prima fila i cattolici – come poteva non appellarsi ai diritti dell’uomo, alla tolleranza, alla libertà delle coscienze, quando appunto di questi diritti vien fatto sì detestabile scempio?
Tali diritti dell’uomo egli rivendicò in ogni campo della vita individuale e sociale nel suo messaggio natalizio del 1942, e, più recentemente, nel messaggio natalizio del 1952, a proposito delle sofferenze della «Chiesa del silenzio».
Appare chiaro, quindi, quanto a torto si voglia far credere che quel riconoscimento dei diritti di Dio e della Chiesa, che si ebbe in passato, sia inconciliabile con la civiltà moderna, quasi che fosse un regresso accettare il giusto e il vero di tutti i tempi.
A un ritorno del Medioevo accenna, per esempio, il seguente testo di un noto autore: «La Chiesa cattolica insiste sul principio che la verità deve avere il sopravvento sull’errore, e che la vera religione, quando essa è conosciuta, deve essere aiutata nella sua missione spirituale di preferenza alle religioni in cui il messaggio è più o meno manchevole e in cui l’errore si mescola con la verità. È questa una semplice conseguenza di quanto l’uomo deve alla verità. Sarebbe tuttavia assai falso concludere che questo principio non può applicarsi che reclamando per la vera religione i favori di un potere assolutistico o l’assistenza delle persecuzioni e che la Chiesa cattolica rivendichi dalle società moderne i privilegi che ha goduti in una civiltà di tipo sacrale, come quella del Medio Evo» (22).
Per fare il proprio dovere un governante cattolico d’uno Stato cattolico non ha bisogno di essere un assolutista, né un mero poliziotto, né un sagrestano, né di tornare al complesso della civiltà del Medioevo.
Un altro autore obietta: «Quasi tutti coloro che fino a ora cercavano di riflettere sul problema del pluralismo religioso urtavano contro un pericoloso assioma, cioè che solo la verità ha diritti, e che l’errore non ha diritti […].
«Infatti da tutte le parti ci si accorge oggi che questo assioma è fallace. Non è che vogliamo riconoscere dei diritti all’errore, ma semplicemente, ci accorgiamo di questa verità lapalissiana, cioè che né l’errore né la verità che sono astrazioni, sono soggetti di diritti, sono capaci di avere diritti, di creare un dovere vicendevole tra persona e persona» (23).
Mi sembra, invece, che la verità lapalissiana consista piuttosto in questo: ossia che i diritti in questione sono ottimamente subiettati negli individui i quali si trovino in possesso della verità, e che uguali diritti non possono esigere gli individui a titolo del loro errore.
Ora nelle encicliche da noi citate risulta che il primo soggetto di questi diritti è proprio Iddio: dal che consegue che sono nel vero diritto solo coloro che obbediscono ai suoi mandati e sono nella sua verità e nella sua giustizia.
In conclusione, la sintesi delle dottrine della Chiesa in questa materia è stata, anche nei nostri giorni, chiarissimamente esposta nella lettera che la Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi inviava ai vescovi del Brasile il 7 marzo 1950. Questa lettera, che si richiama continuamente agli insegnamenti di Pio XII, tra l’altro mette in guardia contro gli errori del rinascente liberalismo cattolico, il quale «ammette e incoraggia la separazione dei due poteri. Nega alla Chiesa cattolica il potere indiretto sulle materie miste. Afferma che lo Stato deve mostrarsi indifferente in materia religiosa […]; che si deve concedere la stessa libertà alla verità e all’errore; che alla Chiesa non spettano privilegi e favori o diritti superiori a quelli concessi alle altre confessioni religiose, neppure nei paesi cattolici» (24) e via di seguito.
Contrasto di legislazioni
Trattata la questione sotto l’aspetto dottrinale e giuridico, mi si permetta di fare un piccolo excursus di aspetto pratico.
Intendo parlare della differenza e della sproporzione tra il clamore sollevato contro i principi su esposti, attuati nella Costituzione spagnola, e lo scarso risentimento che viceversa tutto il mondo laicista ha dimostrato per il sistema legislativo sovietico, oppressivo di ogni religione. Eppure, abbondano per le conseguenze di quel sistema, i martiri che languiscono nei campi di concentramento, nelle steppe della Siberia, nelle prigioni, senza contare le schiere di coloro che, con la vita e con tutto il loro sangue, ne hanno sperimentato fino all’estremo l’iniquità.
L’art. 124 della Costituzione staliniana, promulgato nel 1936, intimamente connesso con le leggi sulle associazioni religiose degli anni 1929 e 1932, dice testualmente: «Allo scopo di assicurare ai cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa è separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa. La libertà di professione religiosa e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini».
A parte l’offesa fatta a Dio, a ogni religione e alla coscienza dei credenti, garantendo con la Costituzione la piena libertà di propaganda antireligiosa – propaganda che si esercita nel modo più licenzioso – occorre mettere in chiaro in che cosa consista la famosa libertà di fede garantita dalla legge bolscevica.
Le norme vigenti che regolano l’esercizio dei culti sono raccolte nella legge del 18 maggio 1929, la quale dà l’interpretazione del corrispondente articolo della Costituzione del 1918, e al cui spirito è informato l’articolo 124 della Costituzione attuale. È negata ogni possibilità di propaganda religiosa, e garantita solo la propaganda antireligiosa. Per quanto riguarda il culto, esso viene permesso solo nell’interno delle chiese; è vietata ogni possibilità di formazione religiosa, sia con discorsi, sia con la stampa, coi giornali, libri, opuscoli, ecc.; è impedita qualsiasi iniziativa sociale e caritativa, e le organizzazioni che s’ispirano a questo ideale sono prive di ogni diritto fondamentale di prodigarsi per il bene del prossimo.
A prova di ciò, basta leggere l’esposizione sintetica che di tale stato di cose fa un russo sovietico, l’Orleanskij, nel suo opuscolo circa la Legge sulle associazioni religiose nella Repubblica Socialista Federale Sovietica Russa.
«Libertà di professione religiosa significa che l’azione dei credenti nella professione dei propri dogmi religiosi è limitata all’ambiente stesso dei credenti e si considera come strettamente legata col culto religioso dell’una o dell’altra religione tollerata nel nostro Stato […]. Di conseguenza, ogni attività propagandistica e agitatoria da parte di uomini di chiesa o di religiosi – tanto più di missionari – non può considerarsi come attività permessa loro dalla legge sulle associazioni religiose, ma si considera come esorbitante i limiti della libertà religiosa tutelata dalla legge e diviene, quindi, oggetto delle leggi penali e civili, in quanto loro contraddice» (25).
La lotta contro la religione, poi, è condotta dallo Stato anche nel campo di tutte quelle attività che la pratica del Vangelo porta con sé, sia nei riguardi della morale, sia nei riguardi dei rapporti sociali tra uomini. I sovietici hanno ben compreso che la religione è intimamente connessa con la vita dei singoli e della collettività: per combattere, quindi, la religione ne soffocano ogni attività nel campo educativo, morale e sociale. Ecco in proposito la testimonianza di un sovietico: «Il propagandista antireligioso deve ricordare che la legislazione sovietica, pur riconoscendo ad ogni cittadino la libertà di compiere atti di culto, limita nello stesso tempo l’attività delle organizzazioni religiose che non hanno il diritto di immischiarsi nella vita politico-sociale dell’URSS. Le associazioni religiose possono occuparsi unicamente ed esclusivamente degli affari riguardanti l’esercizio del loro culto e di null’altro. I preti non possono dare in luce pubblicazioni oscurantiste, far propaganda nelle fabbriche od officine, nei kolchoz, nei sovchoz, nei clubs, nelle scuole, delle loro idee reazionarie ed antiscientifiche. In base alla legge 8 aprile 1929, alle associazioni religiose è fatto divieto di fondare casse di mutuo soccorso, cooperative, società produttive ed in generale servirsi dei beni che si trovano a loro disposizione per altri scopi che non rientrino nell’ambito di bisogni religiosi» (26).
Prima, quindi, di lanciare la pietra contro i governanti cattolici, che compiono il proprio dovere nei riguardi della religione dei loro cittadini i tutori dei «diritti dell’uomo» dovrebbero preoccuparsi di una situazione così oltraggiosa fatta alla dignità dell’uomo, a qualsiasi religione esso appartenga, da un potere tirannico, che grava su di un terzo della popolazione di tutto il mondo (27)!
Culti tollerati
Anche la Chiesa riconosce la necessità in cui possono trovarsi alcuni governanti di paesi cattolici di concedere, per gravissime ragioni, la tolleranza agli altri culti. «E infatti se la Chiesa proclama non essere lecito mettere i differenti culti ad ugual condizione giuridica con la vera religione, non condanna però quei governi che per qualche ragione o di bene da ottenere, o di male da evitare, tollerano per via di fatto i differenti culti nel loro Stato» (28).
Ma tolleranza non vuol dire libertà di propaganda, fomentatrice di discordie religiose e turbatrice del sicuro e unanime possesso della verità e della prassi religiosa in paesi come l’Italia, la Spagna e altrove.
Riferendosi alle leggi italiane sui «culti ammessi», Pio XI scriveva: «Culti “tollerati, permessi, ammessi”: non saremo Noi a fare questione di parole. La questione viene del resto non inelegantemente risolta distinguendo fra testo statutario e testo puramente legislativo: quello per se stesso più teorico e dottrinale, e dove sta meglio “tollerati”; questo inteso alla pratica e dove può stare pure “permessi o ammessi”, purché ci si intenda lealmente: purché sia e rimanga chiaramente e lealmente inteso che la Religione cattolica è, e sol’essa, secondo lo Statuto ed i Trattati, la Religione dello Stato con le logiche e giuridiche conseguenze di una tale situazione di diritto costitutivo, segnatamente in ordine alla propaganda […].
Non è ammissibile che siasi intesa libertà assoluta di discussione, comprese cioè quelle forme di discussione, che possono facilmente ingannare la buona fede di uditori poco illuminati, e che facilmente diventano dissimulate forme di una propaganda, non meno facilmente dannosa alla Religione dello Stato e, perciò stesso, anche allo Stato e proprio in quello che ha di più sacro la tradizione del popolo italiano e di più essenziale la sua unità» (29).
Ma gli acattolici che vorrebbero venire ad evangelizzare i paesi, dove è partita e si è diffusa per loro la luce del Vangelo, non si contentano di quello che ad essi accorda la legge, ma vorrebbero, contro la legge, e senza nemmeno sottostare alle prescritte modalità, avere piena licenza di infrangere l’unità religiosa dei popoli cattolici. E si lamentano, se i governi chiudono cappelle, aperte perfino senza la debita autorizzazione, o espellono i così detti «missionari», entrati nel paese per scopi diversi da quelli dichiarati per ottenere i permessi.
È significativo, poi, che in una tale campagna hanno tra i più forti alleati e difensori i comunisti, i quali, mentre in Russia proibiscono ogni propaganda religiosa e stabiliscono ciò nel citato articolo della Costituzione, sono, invece zelantissimi nell’appoggiare tutte le forme di propaganda protestante in paesi cattolici.
Purtroppo negli Stati Uniti di America, dove molti fratelli dissidenti ignorano alcune circostanze di fatto e di diritto, che riguardano i nostri paesi, c’è chi imita lo zelo dei comunisti per protestare contro la conclamata intolleranza a danno dei missionari inviati ad «evangelizzarci»!
Ma – di grazia – perché si dovrebbe negare alle autorità italiane di fare in casa propria quello che le autorità americane fanno nel loro paese, quando applicano, in virga ferrea, leggi tendenti ad impedire l’ingresso nel loro territorio o anche ad espellere da esso coloro che vengono considerati come pericolosi nei riguardi di certe ideologie e nocivi alle libere tradizioni e istituzioni della patria?
D’altra parte, se i credenti d’oltre Oceano, i quali raccolgono fondi per i loro missionari e per i neofiti da essi conquistati, sapessero che la maggior parte di tali «convertiti» sono autentici comunisti, ai quali non importa né punto né poco di cose religiose, se non in quanto si tratta di fare dispetto al cattolicismo, mentre importa loro moltissimo di usufruire delle elargizioni che arrivano copiosamente da oltre Oceano, credo che ci penserebbero più di una volta prima di mandare quanto, in ultima analisi va a finire ad incoraggiare il comunismo!
Nel tempio e fuori del tempio
Un’ultima questione che ha frequenti ritorni di attualità. Trattasi della pretesa di coloro che vorrebbero determinare, essi, secondo il proprio arbitrio o le proprie teorie, la sfera di azione e di competenza della Chiesa, per poterla accusare, ove oltrepassasse tale sfera, di politicantismo.
È la pretesa di tutti coloro che vorrebbero chiudere la Chiesa nelle quattro mura del tempio, separando la religione dalla vita, la Chiesa dal mondo.
Ora, più che alle pretese degli uomini, la Chiesa deve stare ai mandati di Dio. «Praedicate Evangelium omni creaturae» (30). E la buona novella si riferisce a tutta la Rivelazione, con tutte le conseguenze che essa porta per la condotta morale dell’uomo, di fronte a sé stesso, nella vita domestica, nel senso del bene della polis.
«Religione e morale – insegna l’augusto Pontefice – nella loro stretta unione costituiscono un tutto indivisibile; e l’ordine morale, i comandamenti di Dio valgono egualmente per tutti i campi dell’attività umana, senza eccezione alcuna: fin dove questi giungono, si estende anche la missione della Chiesa, e perciò anche la parola del sacerdote, il suo insegnamento, le sue ammonizioni, i suoi consigli ai fedeli affidati alle sue cure. La Chiesa cattolica non si lascerà mai chiudere nelle quattro mura del tempio. La separazione fra la religione e la vita, fra la Chiesa e il mondo è contraria alla idea cristiana e cattolica» (31).
In particolare, con apostolica fermezza, il Santo Padre prosegue: «L’esercizio del diritto di voto è un atto di grave responsabilità morale, per lo meno quando si tratta di eleggere coloro che sono chiamati a dare al Paese la sua Costituzione e le sue leggi, quelle in particolare che toccano, per esempio, la santificazione delle feste, il matrimonio, la famiglia, la scuola, il regolamento secondo giustizia ed equità delle molteplici condizioni sociali. Spetta perciò alla Chiesa di spiegare ai fedeli i doveri morali, che da quel diritto elettorale derivano» (32).
E ciò non già per ambizione di terreni vantaggi, non per strappare ai civili il potere cui Essa non può, non deve aspirare – «non eripit mortalia qui regna dat caelestia»! – ma per il regno di Cristo, ma perché vi sia la «Pax Christi in Regno Christi» (33); per questo la Chiesa non desiste dal predicare, insegnare e lottare fino alla vittoria.
Per lo stesso fine essa soffre, lacrima e versa sangue.
Ma questa del sacrificio è appunto la via per la quale la Chiesa suole arrivare ai suoi trionfi. Ciò ricordava Pio XII nel suo radiomessaggio natalizio del 1941: «Noi guardiamo, oggi, diletti figli, all’Uomo-Dio, nato in una grotta per risollevare l’uomo a quella grandezza dond’era caduto per sua colpa, per ricollocarlo sul trono di libertà, di giustizia e d’onore, che i secoli degli dei falsi gli avevano negato. Il fondamento di quel trono sarà il Calvario: il suo ornamento non sarà l’oro e l’argento, ma il sangue di Cristo, sangue divino, che da venti secoli scorre sul mondo e imporpora le gote della Sua Sposa, fa Chiesa, e purificando, consacrando, santificando, glorificando i suoi figli, diventa candore di cielo.
«O Roma cristiana, quel sangue è la tua vita» (34)!
Card. Alfredo Ottaviani
Note:
(1) Trascriviamo il testo della conferenza dall’opuscolo edito nel 1953 dalla Libreria del Pont. Ateneo Lateranense e da tempo esaurito. La trascrizione – con piccole modifiche grafiche – è alleggerita dei riferimenti bibliografici, che sono portati al piede. Le diverse citazioni in latino o in lingua straniere sono date in traduzioni, servendosi – quando possibile – di quelle più facilmente reperibili nella nostra lingua. comunque, tutte le note sono redazionali.
(2) «Sono venuto al mondo per rendere testimonianza alla vita» (Gv. 18, 37).
(3) «Seguendo il vero con amore» (Ef. 4, 15): divisa di Papa Pio XII.
(4) «Non vogliamo che quest’uomo regni su noi!» (Lc. 19, 14).
(5) «Non usurpa i regni mortali chi li dà celesti» (Ufficio dell’Epifania),
(6) PIO XII, Enciclica Mystici Corporis, del 29-6-1943, in AAS, vol. XXXV, p. 224. Sottolineatura dell’Autore.
(7) L’Encyclique «Humani generis» in Témoignage chrétien, 1-9-1950, p. 2.
(8) PIO XII, Enciclica Humani generis, del 12-8-1950, in AAS, vol. XLIII, p. 568.
(9) LEONEX III, Enciclica Immortale Dei, dell’1-11-1885. in Acta Leonis XIII, vol. V, pag. 148. Sottolineatura dell’Autore.
(10) Testo di p. John Courteney Murray S. J., cit. in p. Sotillo L. R., S. J., Compendium Juris Publici Ecclesiastici, 2ª ed., Sal Terrae, Santander 1951, n. 206 ter, p. 191.
(11) LEONE XIII, Enciclica Immortale Dei, cit., p. 122.
(12) Ibid., p. 123.
(13) PIO XII, Enciclica Summi Pontificatus, del 20-10-1939, in AAS. vol. XXXI. p. 466.
(14) Ibidem.
(15) IDEM, Lettera per la XIX Settimana Sociale dei Cattolici italiani, del 19-10-1945, in AAS, vol. XXXVII, p. 274. Sottolineatura dell’Autore.
(16) IDEM, Radiomessaggio al mondo intero, del 24-12-1941, in AAS, vol. XXXIV, p. 13.
(17) LEONE XIII, Enciclica Immortale Dei, cit., p. 123.
(18) Ibidem.
(19) IDEM, Enciclica Libertas, del 20-6-1888, in Acta Leonis XIII, vol. VIII, p, 231.
(20) PIO XII, Enciclica Mystici Corporis, cit., p. 244.
(21) IDEM, Radiomessaggio al mondo intero, del 24-12-1942, in AAS, vol. XXXV, pp. 13-14.
(22) JACQUES MARITAIN, I diritti dell’uomo e la legge naturale, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1977, p. 24.
(23) ROBERT RONQUETTE S. J., Le problème du pluralisme religieux, in L’Eglise et la liberté, Semaine des Intellectuels Catholiques (4/10-5-1952), Pierre Moray, Flore-Parigi 1952, p. 220.
(24) SACRA CONGREGAZIONE DEI SEMINARI E DELLE UNIVERSITÀ, Lettera ai vescovi del Brasile de recta clericorum institutione rite provehenda, del 7-3-1950, in AAS, vol. XLII, p. 841.
(25) N. ORLEANSKIJ, Legge sulle associazioni religiose nella Repubblica Socialista Federale Sovietica Russa, a cura del Soviet centrale degli ateisti militanti dell’URSS, Bezboznik, Mosca 1930, p. 224. Sottolineature dell’Autore.
(26) Costituzione staliniana e libertà di coscienza, in Sputnik antireligioznika, Mosca 1939, pp. 131-133.
(27) A chi volesse un aggiornamento sul tema – magari pensando che quella riferita è legislazione staliniana … – segnaliamo GIOVANNI CODEVILLA, Le comunità religiose nell’URSS. La nuova legislazione sovietica, La Casa di Matriona, Milano 1978, di cui riportiamo la significativa presentazione in quarta di copertina: «Il 23 giugno 1975, a poche settimane dalla firma degli accordi di Helsinki, il Prezidium del Soviet Supremo della Repubblica socialista federativa sovietica di Russia. (RSFSR) ha approvato un ukaz che introduce sostanziali modifiche alla normativa in materia di associazioni a finalità religiosa (parrocchie) degli anni 1929-1932. Analoghe disposizioni sono state emanate nelle altre repubbliche dell’Unione Sovietica. Tali numerose innovazioni (per altro già apportate anteriormente al 1975 mediante “circolari confidenziali”), che restringono ulteriormente l’angusto spazio di tolleranza concesso ai credenti, vengono in questo libro accuratamente esaminate anche alla luce della nuova Costituzione sovietica dell’ottobre 1977. Nel volume sono riportati, oltre al testo completo dell’ukaz del 1975, i fondamentali atti normativi sovietici in materia di libertà religiosa». Dello stesso autore, si può vedere con profitto Stato e Chiesa nell’Unione Sovietica, Jaca Book, Milano 1972; sullo stesso tema cfr. anche IGOR. R. SAFAREVIC, La legislazione religiosa nell’URSS. trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1976.
(28) LEONE XIII, Enciclica Immortale Dei, cit., p. 141.
(29) PIO XI. Lettera Ci si è tramandato, al cardinale Gasparri, del 30-5-1929, in Actes de S.S. Pie XI, Maison de la Bonne Presse, Parigi 1934, vol. V., pp. 128-29.
(30) «Predicate l’Evangelo ad ogni creatura» (Mc. 16, 15).
(31) PIO XII, Discorso ai Parroci e Quaresimalisti di Roma, del 16-3-1946, in AAS, vol. XXXVIII, p. 187. Sottolineatura dell’Autore.
(32) Ibidem.
(33) «La pace di Cristo nel regno di Cristo»: divisa di Papa Pio XI.
(34) PIO XII, Radiomessaggio al mondo intero, del 24-12-1941, cit., pp. 19-20.