Da “La bianca torre di Echtelion” del 7 settembre 2017. Foto da articolo
Ci sono molti modi carogneschi di delinquere. Uno è quello di contrabbandare come hashish i propri figli oltre i confini di uno Stato sovrano per poi esigere che se li accolli quel sistema-Paese in virtù di una qualsiasi delle forme, reali, virtuali o anche solo presunte, dello ius soli. Negli Stati Uniti, l’insostenibile leggerezza della faccia di tolla liberal li chiama “dreamer”, cioè “sognatori”. Sono arrivati a frotte, ignari; i loro genitori sapevano invece benissimo di forzare la mano alle istituzioni, imponendo agli Stati Uniti un dazio umano straziante. E così è stato.
Nel 2012 il presidente Barack Obama ha firmato quella che di fatto è un’amnistia non prevista dalla Costituzione federale, il programma “Deferred Action for Childhood Arrivals” (DACA) che garantisce ai clandestini giunti minorenni di vivere temporaneamente negli Stati Uniti, studiando e lavorando legalmente. Una decisione unilaterale con cui la Casa Bianca sospendeva i rimpatri dall’oggi al domani. Per accedere al DACA, i clandestini dovevano avere meno di 31 anni al 15 giugno 2012 (quando il provvedimento fu deciso), essere entrati illegalmente negli Stati Uniti prima di avere compiuto i 16 anni e avere vissuto nel Paese senza soluzione di continuità dal giugno 2007. Attualmente, i clandestini inseriti nel programma DACA sono 787.580, di età compresa fra i 15 e i 36 anni, per la maggior parte sudamericani di varie nazioni entrati comunque sempre attraverso il Messico.
Quel provvedimento fu peraltro un compromesso, dopo che il Congresso federale ebbe più volte bocciato il “Development, Relief and Education for Alien Minors Act” (indicato con l’acronimo DREAM, da qui il nome di “dreamer”). Presentato in modo bipartisan nel 2001, mirava a garantire la residenza permanente ai minorenni entrati illegalmente nel Paese che avessero soddisfatto certi requisiti d’impegno civico e di buona condotta. Alcuni degli stessi criteri di ammissibilità sono stati poi adottati dal DACA a cui hanno dunque avuto diritto gl’incensurati, gli studenti, i diplomati e laureati o chi avesse prestato servizio militare. Una volta accettati, i clandestini hanno avuto diritto a rimandare di due anni il rimpatrio. Allo scadere di quei due anni hanno comunque avuto la possibilità di accedere nuovamente al programma. Cittadini non americani, insomma, cui Obama concesse di far finta di esserlo. Questi americani per finta sono infatti privi di carte d’identità, anche se assurdamente il DACA consente loro di ottenere la patente di guida, cioè lo stesso documento usato dagli attentatori dell’Undici Settembre, cittadini non americani, per beffare i controlli di sicurezza.
Di fatto fu una procrastinazione sine die di un irregolarità evidente, in attesa di una riforma complessiva delle leggi sull’immigrazione che però non è mai arrivata. A torto o a ragione, è su questo che Donald J. Trump ha costruito la propria fortuna elettorale, motivo per cui adesso passa all’incasso.
Martedì 5 settembre, infatti, il ministro della Giustizia Jeff Sessions (colui che quando era Guardasigilli in Alabama mandò sulla sedia elettrica un leader del Ku Klux Klan, lo ricordo davanti alle immancabili accuse di razzismo) ha annunciato la revoca del DACA. D’ora in avanti non verrà più accettata alcuna domanda. Chi è già inserito nel programma, vedrà decadere i diritti di cui gode a partire dal marzo 2018 a meno che il Congresso non vari prima un’altra legge. Se non accadrà, i “dreamer” perderanno ogni diritto entro il marzo 2020. Coloro il cui permesso di lavoro scade fra il 5 settembre di quest’anno e il 5 marzo prossimo possono fare domanda di rinnovo entro il 5 ottobre. Tecnicamente, alla fine potrebbero essere tutti rimpatriati.
Per questo i “dreamer” sono subito scesi in piazza, ma si tratta di un provvedimento di assoluto buon senso e affatto punitivo, che mira a sanare il limbo d’“illegalità legale” creato da un Obama nel 2012 già avviato all’uscita e dunque intenzionato a lasciare la patata bollente al proprio successore.
Anzitutto la revoca del DACA afferma una cosa fondamentale, che nessuno può permettersi di contraddire: entrare clandestinamente in un Paese sovrano è un reato e i reati non possono fondare la società civile. Gl’immigrati illegali non possono cioè essere equiparati a chi è o è diventato cittadino degli Stati Uniti in modo legale.
In secondo luogo, non si accanisce; anzi, lenisce. Come ha deciso il presidente Trump in persona, il provvedimento di revoca del ministro Sessions diventerà esecutivo solo tra sei mesi quando il Congresso avrà sostituito l’abuso costituzionale di Obama con una legge che trovi il modo di tutelare i clandestini non in quanto perpetratori di un crimine, bensì nel loro essere persone meritevoli di dignità e di tutela a monte di tutto il resto, in specie in considerazione del loro status, almeno in origine, disagiato. Perché questo il Congresso deve ora fare. Repubblicani conservatori eminenti come il presidente della Camera federale Paul Ryan e Repubblicani a metà strada come John McCain si sono detti contrario al rimpatrio dei “dreamer”. Trump ha fatto lo stesso: tant’è che ha dato modo e tempo ai legislatori d’impedirlo non con qualsiasi mezzo, ma con una legge giusta. È quanto scrive Rich Lowry, direttore di National Review, ed è quanto ribadisce l’intera direzione di quel periodico conservatore per eccellenza ma per nulla trumpiano a ogni costo.
Il boccino in mano l’ha dunque il Congresso, folto di buoni conservatori cristiani. Potrebbero anche passare una versione finalmente legale del DACA, o addirittura riesumare, nella sostanza, il vecchio DREAM. Nessuno infatti a interesse a deportare e ad alienarsi i quasi 800mila stranieri che studiano e producono negli Stati Uniti. Quello che però nessuno può fare è legittimare la delinquenza, altrimenti si sgretolerebbe la civiltà. Qualsiasi decisione prenda il Congresso a proposito dei “dreamer”, in fin dei conti vittime di reati commessi dai loro genitori, la legislazione statunitense sull’immigrazione andrà quindi modificata in senso restrittivo. Infatti, “dreamer” a parte, gli 11 milioni di clandestini presenti oggi negli Stati Uniti secondo le statistiche ufficiali (quindi in realtà molti di più) non possono esigere servizi e benefit pagati dai contribuenti americani già gravati del loro discreto fardello di povertà interna. E soprattutto nessuno può infrangere impunemente la legge.
Marco Respinti