Di Francesca Ghirardelli da Avvenire del 05/07/2021
Prima ancora che le ultime truppe straniere abbiano definitivamente lasciato il Paese, i taleban già guadagnano terreno nel nord, l’esercito regolare perde pezzi sul campo e l’Afghanistan imbocca a grandi passi la strada che porta alla guerra civile. Per garantirsi una parvenza di sicurezza e frenare l’avanzata del nemico non solo nei villaggi ma anche alle porte dei centri urbani maggiori, la popolazione afghana è tornata a volgere lo sguardo ai comandanti locali, i vecchi signori della guerra, gli ex mujaheddin, che stanno arruolando, finanziando e armando i civili.
Succede in molti distretti del Paese, come a Mazar-i-Sharif, dove la scorsa settimana i taleban sono giunti fino al limitare della città. Lì si trovava il giornalista afghano Mortaza Behboudi, ora rientrato a Parigi, dove vive, dopo due mesi e mezzo passati nel Paese. Ha assistito alle fasi di arruolamento della popolazione, ha parlato con chi stava per cominciare la battaglia.
«Si tratta di gente comune, semplici civili che già possiedono armi o che possono procurarsele. A Mazar-i-Sharif uno dei vecchi mujaheddin, oggi parlamentare a Kabul, è riuscito ad arruolare oltre 2.000 persone per proteggere la città. Di tasca sua paga 10.000 Afghani (la valuta locale) cioè poco più di 120 dollari a ciascun civile che decide di combattere per qualche giorno. Non si tratta di milizie controllate dall’esercito regolare, anche se con le forze armate di Kabul queste formazioni lavorano e si coordinano».
Malgrado sin dalla nascita della repubblica afghana il governo centrale abbia cercato di frenare il potere dei signori della guerra e delle milizie locali, ora queste riemergono. «A causa della drammatica situazione in cui versa il Paese, molti di coloro che si uniscono alla battaglia sono senza lavoro, ma non si deve pensare che si tratti solo di disoccupati che hanno bisogno di soldi», tiene a puntualizzare Mortaza Behboudi. «Certo, la guerra non è la soluzione, ma queste persone sentono di doversi mobilitare per difendere le loro case, le terre, le città, per non tornare alla situazione del 1996, quando i taleban presero il controllo di Kabul e del Paese».
Tra di loro, il reporter ha incontrato anche ragazzi molto giovani, le nuove generazioni di afghani, intrappolati dentro un destino di guerra che si ripete uguale da quarant’anni: «Uno di loro, di 25 anni, mi ha detto: non m’importa quanto denaro mi daranno, devo proteggere la mia famiglia, per questo combatto. C’è chi ha perso fratelli, sorelle, il padre o la madre».
Anche quando i contingenti stranieri erano dislocati in grandi numeri sul territorio, «molte di queste milizie erano già attive, nei distretti più piccoli e nei villaggi, proprio perché l’esercito regolare non riusciva a garantire loro protezione. La differenza oggi è che quello a cui assistiamo è un fenomeno che riguarda le grandi città» prosegue il giornalista afghano.
Dell’efficacia delle milizie nella difesa dei grandi centri urbani, poco si sa. Se a Mazar-i-Sharif il loro dispiegamento sembra avere posto un freno all’avanzata del nemico, c’è chi segnala che in molti altri capoluoghi di provincia meno difesi i taleban comunque si sono fermati alle porte delle città, forse nell’attesa che le truppe straniere si ritirino del tutto. Nelle intenzioni di Kabul, le diverse formazioni emergenti dovrebbero agire coordinandosi in una «rivolta di mobilitazione popolare», ma il timore è che invece guadagnino in forza e autonomia i poteri locali.
Dell’incontro con molti degli aspiranti combattenti, Mortaza Behboudi racconta dell’eccitazione di essere tutti insieme, del coraggio dato l’un all’altro: «Per paura dei taleban, in molti a Mazar-i-Sharif si erano rinchiusi in casa. Ma con la notizia della formazione delle milizie, l’entusiasmo ha iniziato a circolare, i visi si sono rianimati e c’è chi è tornato con la memoria ai Freedom Fighters della guerra civile degli Anni Novanta».
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