Da La bianca Torre di Ecthelion del 05/11/2018. Foto da articolo
Domani gli Stati Uniti d’America saranno chiamati al voto utile a eleggere tutti i deputati della Camera federale, 435. Per vincere ne servono 270. I sondaggi danno i Democratici favoriti. Domani gli statunitensi voteranno anche per eleggere 35 dei 100 seggi di cui si compone il Senato federale (due voti, in Minnesota e in Mississippi, saranno elezioni speciali per sostituire due dimissionari). Di qui 35 seggi in pallio, 26 sono attualmente occupati dai Democratici. Visto che adesso nel Senato 51 seggi sono dei Repubblicani, 47 dei Democratici e 2 degli indipendenti dipendenti dalla Sinistra, basterà che i Repubblicani perdano due elezioni per perdere la maggioranza. È sufficiente quest’istantanea per comprendere quanto la consultazione di domani sia cruciale.
Gli Stati Uniti godono infatti di un sistema politico lungi dall’essere perfetto, ma perfettamente funzionante. Essendo una repubblica presidenziale, l’elezione dell’esecutivo è decisiva. Però talvolta la Corte Suprema, il massimo tribunale del Paese che ha il compito (anche se a volte traligna) di vegliare sulla costituzionalità delle leggi, ha un ruolo anche più importante della Casa Bianca, che pure ne nomina i giudici, sentito il parere del Senato. E il Congresso federale, di cui fa appunto parte il Senato, viene sì giudicato nella propria attività legislativa dalla Corte Suprema, nominata dal presidente con il concorso di una parte del Senato poi giudicato assieme alla Camera, ma ha il potere di paralizzare qualsiasi iniziativa politica del presidente, il quale a propria volta dispone di un diritto di veto. Sembra un gioco di scatole cinesi, ma in realtà è la divisione dei poteri all’americana; e mentre in Cina vige il totalitarismo più vieto, negli Stati Uniti regna la peggiore delle forme di governo, la democrazia, eccettuate tutte le altre.
Domani, dunque, la contro-rivoluzione iniziata due anni fa da Trump potrebbe subire una battuta d’arresto secca, tragica. Prima di conquistare la nomination presidenziale del Partito Repubblicano, nel 2016, Trump assomigliava a un guastatore venuto da chissà dove per disfare quanto di buono avevano costruito i conservatori negli ultimi decenni dentro e fuori il Grand Old Party (GOP, l’altro nome del Partito Repubblicano). Poi ha capito in fretta che senza i conservatori, dentro e fuori il GOP, non ce l’avrebbe mai fatta contro Hillary Clinton e la sua triste macchina da guerra. Gli stessi conservatori hanno capito che ostinandosi a boicottare Trump anche fuori tempo massimo avrebbero solamente insediato la Clinton alla Casa Bianca. Ne è nato un connubio strano, che a tratti è sembrato contro natura, fra conservatori e Trump, cristiani tutti di un pezzo e sciupafemmine, su cui nessun bookmaker ha scommesso. Epperò è successo pure qualcosa d’altro, una chimica esplosiva che ha compiuto l’impresa, sbaragliando i Democratici. Trump è andato alla Casa Bianca e il GOP ha ottenuto la maggioranza nei due rami del Congresso.
Con questa forza atomica, Trump da un lato e i conservatori dall’altro, sono riusciti, pur venendo da pianeti diversi, a introdurre nella vita politica degli Stati Uniti novità sensazionali. A tratti si sono persino piaciuti, e spesso Trump è stato ed è felicemente irriconoscibile. I conservatori hanno imparato, per certi versi, la lealtà verso Trump e Trump ha imparato che il conservatorismo non è una medicina amara. Insieme hanno mosso passi significativi per invertire alcune delle leggi più assurde introdotte nell’ordinamento statunitense nell’era di Barack Obama, dal 2008 al 2016. Soprattutto quanto ai princìpi non negoziabili. Sottolineo questi non per partigianeria, ma perché sono quello che sono: se sono non negoziabili, lo sono sia per chi li difende sia per chi li attacca, e chi li difende e chi li attacca lo fa proprio per quello. Perché danno l’assetto, il tono e il bersaglio di un’amministrazione politica. Non che non ve ne siano altri importanti, ma essendo per definizione questi secondi negoziabili, possono essere tranquillamente considerati dopo.
Trump e il Congresso guidato dal GOP hanno agito a livello legislativo, sì, ma anche, forse soprattutto, a livello di mentalità e di costume. Dopo gli otto anni debosciati di Obama, hanno saputo mostrare che un’alternativa è possibile, che non è necessario rassegnarsi, che si può reagire al politicamente corretto. Ne hanno pagato le conseguenze duramente, e proprio di questo parleranno le urne domani.
Ma appunto per questo domani l’esito delle urne sarà tranchant: se il GOP perde la maggioranza alla Camera, peggio ancora se la dovesse perdere pure al Senato, si fermerà l’attività legislativa che ha permesso di iniziare a fermare la decadenza della cosa pubblica statunitense. Anzi, tornerà lo scoramento, la rassegnazione, il sapore acre della disfatta.
Certo, se domandi perderà, qualche zampata il GOP saprà assestarla ancora, ma il più sarà perso. Gli Stati Uniti dovranno quindi arrendersi a vivere i rimanenti due anni fino all’elezione del prossimo presidente, nel 2020, come una guerra continua di veti contro veti che bloccherà il Paese. Qualcuno tra chi non ha mai amato Trump ne approfitterà per pensionarlo anzitempo, e questo interesserà soprattutto i partigiani stretti di Trump. Qualcun altro ne approfitterà per stilare il bilancio dell’era Trump, e questo interesserà soprattutto i partigiani stretti dei conservatori che inevitabilmente verranno, a ragione o a torto, colpiti dalla frana.
Comunque sia, non sarò un voto limpido. Sarà condizionato dal fango gettato su Trump in questi due anni. I successi economici, industriali e fiscali conteranno molto per chi sceglierà il GOP, ma la propaganda Democratica farà di tutto, le ultime ore sono spesso quelle decisive, per mistificare la realtà. La controversia attorno al giudice Brett M. Kavanaugh premierà il GOP, ma i Democratici ripeteranno le calunnie. E siccome l’elettorato, un certo elettorato, ha la memoria corta, qualcuno voterà con la pancia a seconda dell’ultimo titolo strombazzato di giornale, anzi di Twitter. Qui peserà forse la vicenda di Jamal Ahmad Khashoggi, il giornalista assassinato brutalmente nell’ambasciata saudita di Istambul, pretesto per mettere in croce il profondo legame fra Stati Uniti e blocco sunnita a regia saudita nato in funzione anti-sciita e anti-Russia (e anti-Cina), ignorando il fatto che, dopo un imbarazzo autentico e sincero, Trump sta cercando di fare del proprio meglio per non dimenticare il fattaccio senza con questo mandare a monte mezzo mondo di alleanze strategiche.
E poi c’è quella parte sempre decisiva di elettorato che sono gli indecisi. Molti di loro hanno già cominciato a gonfiare le fila del divario registrato dai sondaggi a favore dei Democratici, altri ci stanno pensando. È un elettorato che purtroppo c’è sempre e per cui conta solo il “Franza o Spagna purché se magna”. Se i Democratici riusciranno a vendere loro, come riuscì bene a suo tempo Obama, la minestra rancida del “tutto per tutti”, il GOP perderà. Ma siccome, dice un proverbio americano, there is nothing like a free lunch, potrebbero pentirsene presto, ancorché troppo tardi.
Per tutti questi motivi è assolutamente necessario che domani il GOP vinca. Alcuni dicono che è impossibile, ma gli Stati Unti ci hanno già abituato a colpi di scena clamorosi.
Marco Respinti