L’affermazione di Russia Unita è netta, favorita dall’ormai famigerato voto on-line, ma emerge anche la nuova formazione “Gente Nuova”, forse ben più di una lista civetta
di Vladimir Rozanskij
La chiusura dello spoglio delle schede in Russia ha confermato la vittoria del partito putiniano “Russia Unita”, che con quasi il 50% dei voti si è assicurato la maggioranza “costituzionale”, necessaria per modificare la Costituzione a piacimento, come avvenuto nel 2020. Hanno fatto significativi progressi i comunisti del Kprf, che hanno sfiorato il 20%, e sono riusciti a superare la barriera del 5% altri tre partiti: al 7,5% i liberal nazionalisti (Ldpr) dell’eterno Vladimir Žirinovskij, al 7,4% i moderati anti-corruzione di “Russia Giusta” e con il 5,3% un nuovo partito, “Gente Nuova”, creato dalla macchina putiniana per dirottare i voti di opposizione. I liberali di “Yabloko” scompaiono mestamente dalla scena politica, non avendo raggiunto neppure l’1% dei voti.
Le elezioni parlamentari in Russia non avevano mai attirato l’attenzione dei media internazionali come quest’anno, dopo la stagione delle proteste navalniste represse con tutte le modalità più o meno “soft” possibili e immaginabili. Si tratta della VII legislatura dal 1993, da quando la Duma di Stato fu restaurata da Boris Eltsyn (era esistita prima della Rivoluzione, tra il 1905 e il 1917). Le ultime cinque sessioni, compresa quella appena costituita, appartengono al “regno putiniano” e hanno sempre supportato il potere assoluto dello “zar”, anche se con modalità differenti.
Nel 1999, quando Putin era “solo” primo ministro, non esisteva ancora un suo partito e i comunisti vinsero con il 25%, ma altre liste contribuirono a formare una maggioranza solida in mano al leader. Il nuovo partito, con un nome più elaborato, ottenne il 37,5% nel 2003, relegando il Kprf al 12%; nel 2007 gli edinorossy (i membri del partito, dal suo nome russo) di Putin raccolsero il 65%, scendendo al 49,3% nel 2011, con i comunisti al 19% (più o meno come oggi), facendo segnare una flessione alla fine del mandato presidenziale di Dimitri Medvedev. Con il ritorno di Putin alla presidenza nel 2016, il suo partito raggiunse la maggioranza assoluta dei seggi con le stesse percentuali, usando un sistema più complesso e assai meno trasparente.
Anche questa volta non mancano le critiche e le proteste, soprattutto per l’introduzione del voto on-line, i cui risultati sono apparsi molto contraddittori e probabilmente molto “ritoccati”. Ha fatto scalpore in particolare il destino di alcuni seggi uninominali moscoviti, dove fino al 99% dello spoglio erano in testa dei candidati indipendenti vicini alle opposizioni, tra cui soprattutto Anastasia Brjukhanova e Anastasia Udaltsova, che alla fine hanno clamorosamente perso la sfida proprio grazie al conteggio dei voti on-line. I “navalnisti”, tramite il portavoce Leonid Volkov, hanno accusato esplicitamente il comitato elettorale di avere falsificato gli esiti a Mosca e in diverse altre località, privando le opposizioni di significative affermazioni.
Alcuni leader regionali fedeli a Putin sono stati rieletti con risultati altrettanto controversi. A Khabarovsk, dove il precedente governatore Sergej Furgal è in galera da mesi, è stato eletto il suo facente funzioni imposto dal centro, Mikhail Degtarev, con il 56,8% dei voti, lasciando molti dubbi sulla regolarità dello spoglio. Il super-putiniano presidente della Cecenia, Ramzan Kadyrov, ha ottenuto addirittura il 99,7% dei voti. Anche altri leader hanno ottenuto percentuali clamorose, come l’86,8% di Vladislav Kovalyg a Tuva, la repubblica del ministro della difesa Sergej Šojgu, il 96,9% di Igor Ruden a Tver, l’83,7% di Aleksej Djumin a Tula e altri simili. Al di là della popolarità più o meno reale di alcuni di questi governatori, l’impressione è che in provincia non si sia guardato troppo per il sottile, usando il “metodo Lukašenko” per imporre percentuali gonfiate, mentre al Parlamento si è usata almeno una parvenza di democrazia.
Una questione riguarda il ruolo politico dei comunisti, che da tradizionali e fedeli alleati dello “zar” ora sembrano essere il punto di riferimento delle opposizioni. Una parte del consenso recuperato proviene certamente dal “voto utile” navalnista, che nei candidati del Kprf aveva trovato diverse personalità oneste e credibili. Certamente ha influito la crisi economica in corso ormai da alcuni anni, a partire dalle sanzioni occidentali, per finire con la catastrofe della pandemia di Covid-19, ancora tutt’altro che superata.
Molte garanzie del sistema assistenziale statale, in buona parte di eredità sovietica, si sono molto indebolite negli ultimi anni, a partire dalle retribuzioni pensionistiche. Putin ha cercato di porre rimedio negli ultimi mesi, promettendo una serie poco credibile di sussidi a famiglie e categorie più deboli, ma lo scontento di parte della popolazione è molto evidente, soprattutto nelle regioni dell’Oriente siberiano, poco considerate dal centro moscovita.
Un’ultima incognita riguarda il nuovo partito della Gente Nuova, guidato dall’imprenditore Aleksej Nečaev e dalla popolare ex-sindaca di Jakutsk, Sardana Avksentieva. Fin dall’inizio è stato descritto come una “lista civetta” inventata dai tecno-politologi del Cremlino, ma il problema è che è stato pensato talmente bene da riuscire a entrare in Parlamento con 13 deputati, sottratti di fatto a Russia Unita. Questo non dovrebbe costituire un problema per la super-maggioranza putiniana, ma la “gente nuova” ha nel suo programma la richiesta di leggi meno repressive, ispirata proprio dal Cremlino per attrarre gli oppositori, e ora potrebbe in qualche modo fare da controcanto al regime.
Questa nuova Duma sarà in carica al momento delle prossime elezioni presidenziali del 2024, che dovrà celebrare il primo mandato di Putin secondo la nuova Costituzione (in realtà il quinto) e il quarto di secolo dello “zar”, che spera di non avere impicci dai parlamentari.
Mercoledì, 22 settembre 2021