di Valter Maccantelli
Domenica 24 giugno si svolgeranno in Turchia le elezioni sia presidenziali sia politiche per il rinnovo dell’assemblea parlamentare. Entrambe le consultazioni, la cui scadenza naturale sarebbe stata nel 2019, sono state anticipate di un anno dal presidente Recep Tayyip Erdogan.
Si tratta di una tornata elettorale molto importante ‒ forse la più importante per la Turchia del secolo XXI ‒ tanto sul piano interno quanto per i riflessi che l’evento avrà nel quadro internazionale. E questo a dispetto di un risultato che molti danno, a ragion veduta, per scontato: Erdogan sarà infatti rieletto e l’Adalet ve Kalkınma Partisi (AKP, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), il suo partito, sarà la prima forza politica del Paese.
Altra questione è come queste vittorie si realizzeranno. Bisognerà vedere se Erdogan vincerà al primo turno o se sarà costretto a un improbabile turno di ballottaggio e, soprattutto, se la coalizione parlamentare che lo ha sostenuto finora, formata dall’AKP e dal Milliyetçi Hareket Partisi (MHP, Partito del Movimento Nazionalista), la formazione panturca legata al movimento nazionalista estremista Ülkü Ocakları, i Lupi Grigi, otterrà ancora la maggioranza assoluta dei seggi.
Sono questi gli indicatori principali che lunedì fuori e dentro la Turchia diranno come proseguirà il cammino di Erdogan, iniziato nel 2002 e da allora passato di successo in successo fino ai primi sintomi di stagnazione dell’ultimo periodo.
Comunque vadano, le elezioni di domenica una conseguenza l’avranno certamente: entrerà pienamente in vigore la riforma costituzionale varata lo scorso anno e sancita dal referendum della Pasqua 2017. Tale riforma sancisce la trasformazione della Turchia in repubblica presidenziale, eliminando la figura del primo ministro, e concentra nelle mani del presidente il potere di controllo su magistratura e forze armate oltre al dominio sull’attività parlamentare.
Il nuovo parlamento non sarà tuttavia una variabile irrilevante. La presenza di una solida maggioranza dell’AKP e dei suoi alleati garantirebbe un più tranquillo esercizio del potere da parte di Erdogan. Il dato discriminante da tenere sotto controllo è quello che riguarderà la percentuale del partito filo-kurdo Halkların Demokratik Partisi (HDP, Partito Democratico dei Popoli, ma in curdo Partiya Demokratik a Gelan): se supererà la soglia di sbarramento ‒ che in Turchia è al 10 % ‒ sarà in grado di modificare significativamente la composizione parlamentare.
In caso di difficoltà nell’esercizio del potere o di vittoria dimezzata da un ballottaggio è possibile che il “neosultano di Ankara” sia tentato da qualche mossa teatrale per rafforzare la propria posizione. In questo momento, le sue difficoltà principali derivano da un quadro economico nazionale in forte rallentamento dopo l’exploit dei primi anni 2000 di cui Erdogan, con ragione, si è intestato il merito, aggravato da un’accentuata debolezza della moneta, la nuova lira turca, sotto pressione speculativa internazionale.
È facile immaginare che per uscire da questo angolo Erdogan usi le armi più affilate: i tre milioni di profughi che stazionano sul territorio turco (che spaventano molto la Germania) e la posizione transcontinentale del Paese, passaggio pressoché obbligato degl’idrocarburi centro-asiatici in rotta per l’Europa meridionale.
Lo sfrenato attivismo turco su qualunque episodio che metta in difficoltà la comunità musulmana in Europa testimonia anche la volontà di fare leva sulle cospicue minoranze turche presenti nel nostro continente allo scopo di convincere i governi europei a pagare un nuovo giro di musica, come avvenuto con l’accordo Turchia-Unione Europea del 2016.
Venerdi 22 giugno 2018