Le scene dipinte da Buffalmacco nel Camposanto di Pisa incalzano lo sguardo e la mente dello spettatore, ricordando l’ineluttabile e tuttavia oscurata realtà della morte.
di Stefano Chiappalone
A Pisa non c’è solo la “torre di Pisa”. Sia perché il celeberrimo campanile non è l’unico a pendere in città, ma è in compagnia di quelli, variamente inclinati, di San Nicola e di San Michele degli Scalzi. Sia perché i numerosi visitatori, intenti a farsi fotografare fingendo di reggere la torre, non sempre si rendono conto di camminare accanto a uno dei più importanti tesori disseminati nell’antica Repubblica marinara. Il complesso di Piazza dei Miracoli include, infatti, oltre alla torre campanaria, al battistero e naturalmente al duomo, anche il camposanto monumentale. E “campo santo” lo è di nome e di fatto, poiché al tempo della quarta crociata (1202-1204) fu deposta della terra proveniente da Gerusalemme sul suolo destinato alla sepoltura dei pisani. Alcuni decenni dopo si provvide a erigere l’attuale costruzione, iniziata nel 1277 e proseguita nel corso del Trecento. Man mano che se ne innalzavano le pareti, aveva inizio anche un’impresa iconografica che vide avvicendarsi artisti del calibro di Francesco Traini (XIV sec.), Spinello Aretino (1350-1410) e Benozzo Gozzoli (1420-1497), per non citarne che alcuni, insieme a un ignoto “Maestro del Trionfo della Morte”, così chiamato dall’affresco più caratteristico del ciclo pisano. Dopo vani e vari tentativi di identificarlo, il “Maestro” ha assunto infine – specialmente grazie alla testimonianza di Lorenzo Ghiberti (1378-1455) e agli studi dello storico dell’arte fiorentino Luciano Bellosi (1936-2011) – i tratti del pittore fiorentino e girovago Buonamico Buffalmacco (1290-1340), personaggio noto per gli scherzi inflitti al collega Calandrino nel Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-1375).
Il tema del Trionfo della Morte non costituisce un unicum, essendo trionfi e danze macabre tipici di quell’epoca che lo storico Johan Huizinga (1872-1945) definì L’Autunno del Medioevo. Pensiamo agli esempi più noti in Italia presenti a Clusone (Bergamo) e a Palermo, entrambi risalenti al Quattrocento. Tuttavia, l’affresco pisano è singolare sia perché addirittura precede la peste nera di metà Trecento, palese ispiratrice di opere analoghe, sia per il ritmo e lo stile, che hanno contribuito alla difficoltà di identificarne l’autore, come se questi rivelasse i tratti di troppe scuole o di nessuna.
Il ciclo attribuito a Buffalmacco si dipana in quattro scene: la Tebaide, il Trionfo della Morte, il Giudizio universale e l’Inferno, ma il Trionfo a sua volta è articolato al suo interno in varie scene, con un ritmo sincopato e frastagliato come un Dies irae dipinto, come la roccia su cui dimorano monaci dai volti burberi e a tratti persino grotteschi, che proseguono imperturbabili la loro vita scandita dalla preghiera e dal lavoro manuale, in ideale continuità con la Tebaide, come se fossero al riparo dal dramma che si va consumando intorno e sopra di loro. Al riparo, ma non immuni, né ignari: quei monaci tranquilli come i cervi e le lepri accovacciati sulla roccia – anch’essi destinati prima o poi a perire – sanno bene però che la fine giungerà per tutti e uno di loro scende ad ammonire chi non vi pensa. Eccolo distendere un cartiglio ammonitore di fronte a una nobile schiera di cavalieri riccamente abbigliati, con cani e servitori, che si arresta ammutolita di fronte a tre bare contenenti altrettanti corpi: uno ancora integro, l’altro decomposto, l’ultimo infine scheletrizzato. Una rivisitazione del classico “incontro dei tre vivi e dei tre morti”. E i morti parlano ai vivi:
Tu che mi guardi et sì fiso mi miri
Vedi quanto io son ladio [laido] al tuo conspecto,
Quantunque che tu sii chiaro giovanecto
Pensalo or prima che Morte ti tiri…
Buffalmacco non si risparmia nei dettagli. Uno dei cavalieri, inorridito, si tura il naso di fronte a quei corpi in disfacimento, così come il suo cavallo che tende il collo in segno di disgusto.
Sopra di loro i cieli sono oscurati da nugoli di angeli e demoni che lottano per contendersi le anime, volteggiando intorno alla grande figura centrale della Morte: una megera dalle ali demoniache e i capelli indiavolati come le serpi di una Medusa, armata di un’enorme falce. Sotto di lei si accresce il cumulo delle sue vittime: uomini, donne, laici e chierici, vescovi e papi. “Eppur si muore…”, potremmo dire parafrasando la celebre (e mai pronunciata) frase dello scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). E a proposito di scienziati, nel mucchio di cadaveri si distingue anche un medico che ancora stringe il vaso delle urine, ma il paziente non saprà mai l’esito di quegli esami… Nessuno sfugge, a nulla valgono sapere, ricchezza o nobiltà, come attesta l’iscrizione del cartiglio centrale:
Schermo di sapere o de richeça
Di nobiltà et ancor di gentileça
Vaglian niente a’ colpi di costei…
Dè, che non trovi dumque contra lei,
O tu lector, niuno argomento?…
A dirla tutta, però, qualcuno (per ora) sfugge, qualcuno che brama ardentemente la visita della Morte. È la misera schiera dei derelitti, che avendo perso salute e beni, la implorano di porre fine alle loro tribolazioni:
Poi che prosperitade ci a llasciati,
o Morte, medicina d’ogni pena,
deh vienci a dare o[r]mai l’ultima cena…
Tuttavia, la Morte è così impietosa da ignorare proprio costoro e passa oltre, brandendo la sua falce in direzione del “verziere”, il giardino in cui dieci giovani nobili e spensierati si intrattengono tra musiche e canti. È anche grazie ai loro volti pingui e (nel caso degli uomini ovviamente) sbarbati, nonché all’ampia foggia dei loro vestiti se Bellosi ha potuto retrodatare l’affresco di qualche decennio: non oltre gli anni ‘40 del Trecento, poiché in seguito le barbe crescono e gli abiti si fanno più attillati. La datazione sarebbe compatibile con l’episcopato di Simone Saltarelli (1261-1342), domenicano come i committenti, fiorentino come Buffalmacco e come lui a Parma, prima di venire eletto alla cattedra pisana. Quei giovani dunque non dovevano essere tanto differenti da tanti che di lì a poco avrebbero visto infrangersi la propria spensieratezza e forse la stessa loro esistenza con la peste del 1348. Buffalmacco non la vide, essendo morto otto anni prima. Le sue pennellate furono forse profetiche, si direbbe. O forse il suo capolavoro non è che un affascinante ritorno al reale, poiché con la peste o senza, comunque vada sarà un… decesso.
Sabato, 13 novembre 2021
Per approfondire:
- Luciano Bellosi, Buffalmacco e il Trionfo della Morte, a cura di Roberto Bartalini, Abscondita, Milano 2016 (lo studio di Bellosi apparve per la prima volta nel 1974, con aggiunte nel 2003).
- Marcello Ciccuto, Giunte a una lettura esemplare di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa, in Italianistica: Rivista di letteratura italiana, vol. 21, n. 2/3 (maggio/dicembre 1992), pp. 407-424.
- Michele Luzzati (1939-2014), Simone Saltarelli arcivescovo di Pisa (1323-1342) e gli affreschi del Maestro del Trionfo della Morte, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, serie III, vol. 18, n. 4 (1988), pp. 1645-1664.