Paolo Martinucci, Cristianità n. 396 (2019)
Ermanno Pavesi, Celebrare Lutero? Riflessioni sulla Riforma negli scritti giovanili di Lutero, con premessa di Oscar Sanguinetti, introduzione di don Roberto Spataro S.D.B. e una nuova traduzione italiana dell’intervista Lutero e l’unità delle Chiese del card. Joseph Ratzinger, D’Ettoris Editori, Crotone 2017, pp. 278, € 19,90
Ermanno Pavesi, psichiatra e segretario generale della FIAMC, la Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici, illustra i prodromi della Riforma protestante rintracciabili negli scritti giovanili del monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546).
Apre il volume la Premessa (pp. 11-15) di Oscar Sanguinetti, che ricorda come Lutero abbia distrutto la vita e la disciplina dei monasteri, consegnato la gestione degli affari religiosi al potere politico, causato le guerre di religione e originato una plurisecolare persecuzione contro i cattolici. Nondimeno, spiega Sanguinetti, dopo i pronunciamenti del Concilio Vaticano II (1962-1965) — e in particolare quelli del decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, del 1964 — ogni cattolico dovrebbe avvertire l’urgenza di propiziare l’unità fra i discepoli di Cristo. Tale unità, inoltre, andrebbe ricercata rispettando la verità storica e senza l’eventuale pregiudizio che ritenga tali sforzi inutili.
Segue l’Introduzione. Una panoramica storiografica (pp. 19-28) di don Roberto Spataro S.D.B., che analizza il pensiero riformato e ritiene quanto meno problematico parlare favorevolmente del monaco tedesco. A suo parere, le dichiarazioni di Papa Francesco, fatte in occasione del viaggio in Svezia, dal 31 ottobre al 1° novembre 2016, miravano a favorire un proficuo dialogo. Molti studiosi della Riforma ritengono che non sia possibile associare, senza le opportune distinzioni, le istanze luterane al rinnovamento della Chiesa. Don Spataro fa quindi menzione della lettura della storia moderna propria del pensiero cattolico-controrivoluzionario di cui ritiene che sia «compendio insigne» (p. 23) l’opera del pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Conclude, infine, affermando che nel ricordare Lutero non bisogna né dimenticare la storia né fraintendere «la vera natura del dialogo ecumenico» (p. 28).
Il capitolo I, 1517: vera data di nascita della Riforma? (pp. 31-33), sfata il mito che fa coincidere la data di nascita della Riforma con la presunta affissione sul portone della chiesa del castello di Wittenberg delle famose novantacinque tesi relative alle indulgenze. A quanto pare, tali tesi furono inviate per via epistolare ad alcuni teologi. Del resto, il pensiero teologico di Lutero viene a strutturarsi negli anni: in opere scritte tra il 1505 e il 1519 sono presenti molti elementi che preannunciano la sua svolta (cfr. p. 32). Il tema cruciale per la comprensione della Riforma è presentato nel capitolo II, Le indulgenze, vera causa della Riforma? (pp. 35-37). Non tanto le sue opinioni sulle indulgenze, quanto quelle sul libero arbitrio hanno determinato la scomunica di Lutero comminata il 3 gennaio 1521 da Papa Leone X (1513-1521) con la bolla Decet Romanum Pontificem; infatti nella bolla Exsurge Domine del 15 giugno 1520 solo sei delle tesi che gli si proponeva di ritrattare inerivano alle indulgenze.
Il capitolo III, La dottrina della giustificazione (pp. 39-42), delinea le questioni teologiche e filosofiche, da sempre oggetto di approfondite discussioni negli incontri ecumenici. Per il teologo valdese Paolo Ricca, infatti, il Concilio di Trento (1545-1563) non ha condannato «[…] la Riforma perché l’ha fraintesa. Al contrario, si deve dire che l’ha condannata perché l’ha capita» (p. 41).
Con il capitolo IV, 1516-1520. Lutero, dalla crisi spirituale alla Riforma (pp. 43-56), Pavesi inizia la disanima della vita e degli scritti giovanili del riformatore tedesco. La sua entrata in convento, anzitutto, non sembra conseguire a una vocazione autentica, ma pare determinata dalla paura di una morte improvvisa e di subire la dannazione eterna in conseguenza dei peccati commessi, fra cui forse l’uccisione di uno studente in un duello: il convento lo avrebbe anche sottratto alla giustizia civile. In seguito sarebbe diventato per qualche tempo un monaco zelante e scrupoloso, sempre più tormentato tuttavia da dubbi circa la possibilità di resistere al demonio. Tale sofferenza lo avrebbe portato a separare Mosè da Cristo, cioè la Legge veterotestamentaria dal Nuovo Testamento, come si evince da una sua omelia sui vizi capitali del 3 agosto 1516, nella quale peraltro Lutero afferma che gli uomini non agiscono di propria volontà ma sono determinati nell’azione da Dio. La confessione sacramentale diventerebbe così un’illusione, alimentando la superbia, perché la remissione dei peccati è possibile invece solo per intervento gratuito di Dio.
Il tema, centrale nel pensiero di Lutero, viene affrontato nel capitolo V, La dottrina della giustificazione di Lutero nel commento alla lettera ai Romani di san Paolo, 1515-1516 (pp. 57-69). L’uomo ai fini della salvezza non deve compiere opere, ma solo accettare la giustizia divina. Pensare di potersi salvare con mezzi propri sarebbe presunzione diabolica. Esisterebbero due tipi di giustizia, quella umana e quella celeste; quest’ultima sarebbe estranea all’uomo. Chi in passato ha commesso un’ingiustizia non può chiedere giustizia, nemmeno quando è innocente. Non sarebbe legittimo nemmeno combattere contro i nemici della fede, i turchi — il cui obbligo morale era invece sostenuto dalla bolla Exsurge Domine —, in quanto essi sono uno strumento di Dio per mostrare all’uomo la sua malvagità. Lutero, comunque, ammette che l’uomo possa volere e fare qualcosa di buono. Infatti, sebbene sempre incline al male, non lo sarebbe in modo tale da rendere infruttuosa la grazia divina, qualora il Creatore gliela dovesse elargire.
Il distacco fra la parola della Scrittura e la sapienza umana, sancito da Lutero, è l’oggetto del capitolo VI, Postulati della Riforma e de-ellenizzazione del cristianesimo (pp. 71-81). Infatti, nelle lezioni sulla Lettera ai Romani, egli sostiene che il pensiero di san Paolo e quello metafisico sarebbero inconciliabili. Nella Disputa contro la teologia scolastica, del settembre 1517, affronta anche i temi fondamentali del libero arbitrio, dichiarandosi seguace della dottrina agostiniana. Secondo la teologia scolastica, il godimento del creato è un’anticipazione del godimento di Dio. Il monaco tedesco rigetta tale pensiero: chi ama Dio dovrebbe odiare sé stesso e non conoscere nulla al fuori di Dio. L’etica fondata sulle facoltà naturali dell’uomo, intelligenza e volontà, sarebbe nociva e nemica della grazia.
L’opera Novantacinque tesi per chiarire l’efficacia delle indulgenze dell’ottobre 1517 — descritta nel capitolo VII, Dalle Novantacinque tesi alla scomunica (pp. 83-100) — suscitò molte reazioni e le successive Resolutiones del 1518 ebbero lo scopo di spiegarle meglio. L’indulgenza, secondo Lutero, mette in second’ordine l’annuncio evangelico. La tesi XXVII, infatti, esprime una decisa condanna di chi ritenga che un’offerta in denaro assicuri immediatamente il Paradiso.
Tuttavia, il vero problema è prettamente teologico. Lutero presentò queste sue tesi al capitolo generale degli agostiniani, nella città di Heidelberg, il 26 aprile 1518. Il tema è affrontato partendo dal precetto evangelico di penitenza, da non confondere con quella sacramentale: i cristiani dovrebbero seguire Cristo attraverso un’infinità di sofferenze corporali. Bisognerebbe agire secondo la volontà di Cristo. Questa potrebbe anche consistere nel volerci dannati all’inferno per sua imperscrutabile decisione. L’indulgenza sarebbe utile per le anime turbate che necessitano di una conferma della remissione dei peccati. L’assoluzione del sacerdote di per sé non sarebbe necessaria, né efficace. Nel giugno dello stesso anno Lutero venne convocato a Roma, ma riuscì a ottenere il permesso di essere interrogato in Germania dal generale dei domenicani, il cardinale Tommaso De Vio (1469-1534), detto Caetano — di Gaeta —, il quale gli contestò le teorie del «tesoro» della Chiesa — i meriti di Cristo e dei santi che agevolano la salvezza degli uomini — e della penitenza. Lutero non ritrattò. A Lipsia, nel luglio del 1519, affrontò una disputa con il teologo tedesco Johann Mayr (1586-1543), esponendo le argomentazioni già presentate in altre opere e confermando di essersi ispirato alle opere anti-pelagiane di sant’Agostino (354-430). Roma aveva già deciso nell’aprile 1518 di sottoporre Lutero a processo. Il 15 giugno 1520 è pubblicata la bolla Exsurge Domine, che elenca quarantuno tesi eterodosse presenti nelle pubblicazioni del riformatore tedesco. Pure condannata è la tesi secondo la quale il battesimo non cancella il peccato originale. Lutero risponde alla bolla con l’Assertio, in cui ribadisce la propria concezione del libero arbitrio. La scomunica è inevitabile.
Nel capitolo VIII, I motivi della scomunica: non solo le indulgenze e la loro efficacia (pp. 101-103), si nota come già nelle opere del 1520 e quelle di poco successive Lutero si fosse allontanato dall’ortodossia cattolica su numerosi punti: il sacerdozio universale di tutti i fedeli, i sacramenti ridotti a due, anche questi concepiti in modo difforme dalla dottrina cattolica, la concezione della Messa. La rottura non è quindi attribuibile al Papa e alla Curia, scarsamente «accoglienti» e poco inclini al dialogo, come sostengono alcuni teologi attuali.
Il capitolo IX mette a fuoco il tema della libertà. Il titolo ricorda due opere di Lutero pubblicate entrambe nel 1520: La Libertà del cristiano e La cattività babilonese della Chiesa (pp. 105-128). Nella prima, sostiene che la libertà cristiana sarebbe tutta interiore e non obbligherebbe all’osservanza delle norme, poiché la sua anima è spirituale. La seconda è una reprimenda contro la Chiesa, che avrebbe inventato arbitrariamente prescrizioni, regolamenti, pratiche, sacramenti. Su questi ultimi ribadisce che solo tre avrebbero fondamento scritturale: il battesimo, la penitenza e l’eucaristia. Lutero è critico pure nei confronti della Messa, non credendo nella transustanziazione. La vita monacale, negato il valore delle opere, diventa per lui inutile e dannosa. La confessione, invece, sarebbe stata voluta da Dio, nel vangelo di Matteo (3,6); quella segreta, pur non avendo il suo fondamento nella Scrittura, sarebbe utile e necessaria. Tuttavia, precisa che si tratterebbe di uno strumento usato in forma tirannica dai sacerdoti, forti dell’interpretazione tradizionale del passo evangelico in cui Gesù dà a Pietro le chiavi del Regno. Per Lutero i sacerdoti non hanno ricevuto il potere delle chiavi e tutti i fedeli avrebbero la facoltà di ascoltare la confessione delle colpe segrete. Nemmeno il matrimonio sarebbe stato divinamente istituito e pertanto non sarebbe sacramento: se il marito non è in grado di procreare, la moglie può divorziare e, nel caso in cui il marito si rifiuti di concederglielo, lei potrebbe, altrettanto lecitamente, unirsi a un altro uomo. La bigamia sarebbe comunque preferibile al divorzio. Il sacramento dell’ordine poi non sarebbe stato istituito da Cristo, ma dai pontefici; il sacerdozio, universale e aperto a tutti i fedeli, consisterebbe unicamente nella predicazione della parola e andrebbe esercitato solo con il consenso della comunità. Infine, l’estrema unzione non avrebbe fondamento nella Scrittura. Dopo aver detto di accettare tre sacramenti, Lutero ne riconosce in realtà solamente due, il battesimo e l’eucaristia, pur non credendo nella transustanziazione.
L’appello Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca del 1520 segna l’evento decisivo della Riforma ed è descritto nel capitolo X, Gli esordi della Riforma protestante nel primo pamphlet di Martin Lutero (pp. 129-148). Lutero con questo scritto introduce nella polemica con Roma una dimensione sociale e politica. Convinto che riformare dall’interno la Chiesa sia impossibile, decide di affidarsi al potere civile per continuare la sua ribellione, ora improntata alla confutazione dei dogmi. Nei Discorsi conviviali del 1537, infatti, dirà che il Papa va condannato non per la condotta, ma per la sua dottrina. In Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca invita alla rivolta per eliminare i privilegi papali, consolidare l’autorità civile e salvare la cristianità, abolendo le confraternite, proibendo il lusso e i vestiti costosi, gli anni giubilari, le feste, eccetto la domenica, e i pellegrinaggi, nonché auspicando l’abbattimento delle chiese mete dei pellegrinaggi stessi. L’appello, recepito da molte autorità civili, determinerà il dilagare della Riforma.
Il capitolo XI, Potere civile e Guerra dei Contadini (pp. 149-161), illustra le conseguenze delle dottrine luterane in campo sociale e politico. Lutero ritiene che sia necessario un regime politico forte e severo, essendo l’uomo dominato dalle passioni. Tuttavia le popolazioni rurali, avendo aderito alle istanze più radicali di Huldrych Zwingli (1484-1531) e di Philipp Schwarzerdt (1497-1560), noto con il nome italianizzato di Filippo Melantone, sconfessano Lutero e si ribellano ai propri signori. Lo scontro passerà alla storia come Guerra dei Contadini. Nell’Esortazione alla pace, sopra i dodici articoli dei contadini di Svevia, Lutero risponde al documento redatto dalle popolazioni rurali, accusando la nobiltà e il clero di vessare la povera gente, meritando l’ira di Dio; nondimeno mette in guardia i contadini dal seguire i predicatori ispirati da Satana, asserendo che merita la morte colui che si ribella al superiore.
Il conflitto tra Erasmo da Rotterdam e Lutero (pp. 163-184) è il tema del capitolo XII. Dopo un periodo di reciproco apprezzamento, quando Erasmo (1466/1469-1536) pubblica il De libero arbitrio i rapporti fra i due diventano tesi. L’umanista olandese riconosce che nella Scrittura vi sono passi di difficile interpretazione che, tuttavia, non negano il libero arbitrio. Erasmo mostra comunque una certa indulgenza verso l’eventuale negazione della libera volontà dell’uomo, interpretandola come reazione agli abusi nella vendita delle indulgenze. Lutero attacca Erasmo pesantemente con il De servo arbitrio: il contenuto del libro dell’umanista non sarebbe altro che «immondizia e letame» (p. 175); essendo l’onnipotenza e la prescienza di Dio inconciliabili con il libero arbitrio, l’uomo non sarebbe libero, ma schiavo; la volontà della persona è paragonata a una bestia da soma cavalcata da Dio o da Satana, il quale comunque sarebbe anche lui mosso da Dio.
Nel capitolo XIII, Sola scriptura? (pp. 185-188), Pavesi confuta la tesi secondo la quale Lutero abbia avuto come unica fonte d’ispirazione i libri della Bibbia. La Scrittura non è il fondamento delle sue teorie, infatti egli confronta i testi ebraici, quelli greci e la versione latina della Vulgata, in modo impreciso e scorretto. Anche studiosi luterani, del resto, ammettono che il confronto dei testi ebraici, quelli greci e la versione latina della Vulgata, a sostegno delle proprie tesi, sia stato effettuato da parte di Lutero in modo alquanto disinvolto, tanto che i curatori delle sue opere segnalano le volte — non poche — in cui i passi scritturali citati dall’ex monaco agostiniano sono difformi dagli originali.
Il capitolo XIV, Il Commento alla Lettera ai Galati di san Paolo: La giustificazione per sola fede (pp. 189-207), affronta un nucleo centrale della dottrina riformata, alla luce di due documenti: il Documento fondamentale «Giustificazione e libertà». 2017: 500 anni della Riforma del Consiglio della Chiesa Evangelica in Germania e la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione sottoscritta dalla Commissione luterano-cattolica nel 1999. Il primo rinnova il plauso per gli enunciati basilari di Lutero. Il secondo riconosce che «[…] la riconciliazione del rapporto tra uomo e Dio proviene da Dio e non è il risultato di una auto-riflessione o di altri sforzi culturali, politici o religiosi» (p. 190).
Lutero trova nella Lettera ai Romani e nella Lettera ai Galati la risposta ai propri dubbi: l’uomo sarebbe giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della Legge. Nel Commento alla lettera ai Galati viene affrontato il conflitto fra Legge e giustificazione. La giustizia terrena avrebbe la sola funzione di porre limiti agli istinti egoistici e aggressivi dell’uomo. La giustizia divina, invece, come già detto, sarebbe del tutto differente da quella umana perché, attraverso la redenzione, la Legge ha ceduto il posto alla grazia: Cristo, infatti, «ha stracciato la Legge, perché non entri nella coscienza» (p. 196). La coscienza morale non dovrebbe essere formata dalla Legge, ma lasciata libera da preoccupazioni, da timori e da rimorsi. Questa concezione della coscienza morale, sostiene Pavesi, anticipa alcune teorie del fondatore della psicanalisi, Sigmund Freud (1856-1939).
Il capitolo XV, Riforma e Rivoluzione (pp. 209-227), evidenzia il legame che esiste fra la Riforma e la modernità. Per molti le tesi asserite dal protestantesimo sono il presupposto della formazione della civiltà moderna; altri, fra questi gli esponenti della scuola cattolica contro-rivoluzionaria, vedono nelle stesse tesi il pensiero che ha dato inizio alla crisi dell’Occidente e dei suoi valori. Certamente la Riforma ha indebolito il ruolo dell’imperatore cristiano, generando il processo di secolarizzazione della compagine sociale e una sorta di sacralizzazione laica dello Stato. Dal pensiero di Lutero il teologo e filosofo tedesco Friedrich Schleiermacher (1768-1834) avrebbe tratto conclusioni ancora più radicali: l’uomo, che non può conoscere la realtà, né oltrepassare il piano fisico, sarebbe solo un prodotto di processi vitali. Sulla stessa scia si collocano Sigmund Freud, Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Nietzsche (1844-1900), i quali ritengono che alla base dei motivi ideali delle azioni umane vi siano invece motivazioni poco nobili: l’uomo avrebbe coscienza dei soli «[…] contenuti psichici che si sono sviluppati a livello inconscio» (p. 223). Si è giunti, infine, ad affermare che la vita dell’uomo sarebbe determinata dagli istinti.
Nel capitolo XVI, Quo vadis, La civiltà cattolica? (pp. 229-237), l’autore esamina alcuni articoli di Giancarlo Pani S.I., apparsi prima su La civiltà cattolica e poi nel saggio Lutero tra eresia e profezia (EDB, Bologna 2017). Il gesuita riduce le ragioni del dissidio con la Chiesa Cattolica alla questione delle indulgenze, nonché ai problemi relazionali e di comunicazione fra Lutero, la gerarchia ecclesiastica e l’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1558). Padre Pani sostiene che Lutero non sarebbe veramente eretico e che la sua proposta di riforma richiedeva un dialogo e un confronto ai quali la gerarchia cattolica si sarebbe sottratta.
Nell’Appendice, sotto il titolo Lutero e l’unità delle Chiese. Domande al cardinale Joseph Ratzinger (pp. 239-259), viene riproposta l’intervista rilasciata dal cardinale Ratzinger alla rivista tedesca Internationale katholische Zeitschrift «Communio» nel 1983. Concludono l’opera una Biografia essenziale di Martin Lutero (pp. 261-263), un’approfondita Bibliografia (pp. 265-274) e l’Indice dei nomi di persona (pp. 275-278).
Paolo Martinucci