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Ettore: l’eroe vinto che commuove il nemico

22 Febbraio 2025 - Autore: Lucia Menichelli Tursi

Ettore riportato a Troia

Il valore di un uomo che non arretra di fronte alla tragicità del destino

di Lucia Menichelli

A differenza di quella cristiana, la civiltà della Grecia riflessa nei poemi omerici è una civiltà  non “della colpa” ma “della vergogna”, secondo la definizione coniata a partire dalla metà degli anni 40 del ‘900 da antropologi americani e poi attribuita dallo studioso Eric Robertson Dodds (1893 – 1979) alla civiltà micenea e greca del periodo arcaico. Questo implica che per un uomo ciò che conta principalmente non è il valore in sé e per sé ma la sua reputazione, ovvero il suo pubblico riconoscimento: pertanto l’eroe omerico, è tale solo se tale viene riconosciuto dalla sua comunità.

In base a ciò, è più facile comprendere il senso della trama dell’Iliade e del comportamento dei suoi protagonisti: Agamennone sottrae la schiava Briseide (parte del bottino di guerra a lui spettante) ad Achille, che quindi a sua volta viene defraudato di ciò che spettava a lui: un disonore insopportabile, fonte di “vergogna” cui lui può reagire solo ritirandosi sdegnosamente dalla battaglia (la sua famosa “ira”). Da questo momento prende vita il doloroso segmento della più ampia (e ancor più dolorosa) vicenda della guerra di Troia, che viene narrato nel primo dei poemi omerici, in cui i comportamenti di tutti i personaggi sono conformi al sentimento comune della “vergogna” che condiziona le loro scelte, dalle più crudeli alle più nobili. E ciò riguarda tanto i Greci quanto i Troiani. E tra i Troiani, Ettore, l’eroe più rappresentativo e più forte, è capace di andare a combattere con Achille, pur sapendo di andare incontro a una morte certa: un sacrificio estremo pur di non procurarsi il pubblico disprezzo, come è costretto a spiegare a sua moglie e ai suoi genitori piangenti.

Ettore è un nemico ammirato, per diversi aspetti.

E’ per eccellenza il difensore della patria, non un assalitore come i Greci. Il suo non è un popolo di barbari, ma di uomini che condividono la stessa mentalità e cultura dei Greci che li assediano e dei quali con pari attenzione sono narrate le sofferenze.

E’ un marito e un padre, come testimonia uno dei passi più celebri dell’Iliade, l’addio alla moglie e al piccolo figlio: è a questa scena di intimità familiare che viene riservata nel poema l’eccezione di una sobria effusione sentimentale, in cui risalta la consapevolezza di un ruolo paterno che culmina nella toccante preghiera rivolta a Zeus con il bambino in braccio alzato in alto, al cielo.

Ettore è il nemico ucciso e massacrato dalla furia omicida di Achille, che ne strazia ripetutamente il cadavere, trascinandolo nel campo di battaglia dopo averlo legato al suo carro. Di fronte a tanta crudeltà risalta ancora di più il suo sacrificio, di lui che non è indietreggiato davanti all’imminente e annunciata sopraffazione.

Ma il suo cadavere non resta insepolto, come doveva essere secondo le intenzioni di Achille: è suo padre Priamo che fa cambiare idea all’implacabile nemico, quando si reca coraggiosamente nella sua tenda ad implorare la restituzione del corpo del figlio. E di fronte a tanto strazio, lo spietato “piè veloce” non riesce a dire no: un’altra situazione straordinariamente commovente che ruota sempre intorno ad Ettore, il cui funerale significativamente occupa la scena finale del poema.

Il rituale di sepoltura è proprio quello riservato agli eroi, dopo che al corpo martoriato dell’eroe troiano è garantita dagli dèi quella integrità fisica (“il corpo non si è putrefatto, né i vermi lo rodono”, Iliade, XXIV, 414-415), necessaria perchè conservi la propria kalokagathia di cui naturale esito è la “bella morte” in battaglia.

Ettore è l’emblema della resistenza alla tragicità del destino umano, come osserva Rachel Bespalloff (1895 – 1949) nel suo saggio “Sull’Iliade” scritto nel 1943.  Il suo destino è un esempio della forza che schiaccia e pietrifica, secondo la visione di Simone Weil (1909-1943) espressa nel celebre saggio “L’Iliade o il poema della forza”, anche questo del 1943. Prima di queste scrittrici, Giacomo Leopardi (1798-1837) nello Zibaldone aveva già espresso profonde considerazioni sul “mistero” di tanta ammirazione mostrata dai Greci per i nemici, arrivando addirittura ad affermare che l’Iliade “È anche il poema più Cristiano. Poichè interessa pel nemico, pel misero ec. ec.» (G. Leopardi, Zibaldone, nota, p. 3157, 5-11 agosto 1823).

Sabato, 22 febbraio 2025

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