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Fermenti religiosi, nazionali ed etnici nell’impero sovietico

28 Maggio 1987 - Autore: Pierre Faillant de Villemarest

Pierre Faillant de Villemarest, Cristianità n. 144-145 (1987)

 

Un insieme di situazioni esplosive permette di prevedere — e in un futuro non troppo lontano — avvenimenti tali da sconvolgere profondamente e drasticamente il mostro storico-politico nato settant’anni fa con la Rivoluzione d’Ottobre.

 

All’Est qualcosa di nuovo

Fermenti religiosi, nazionali ed etnici nell’impero sovietico

 

I polacchi — anche quelli legati ai sindacati ufficiali, creazione del generale Wojciech Jaruzelski — si levano contro i rialzi dei prezzi dei beni di consumo correnti, dell’energia e dei trasporti, che — nonostante la «normalizzazione» — suscitano, da dieci anni a questa parte, le proteste popolari.

Identici moti si verificano in Jugoslavia da parecchie settimane, e tuttavia questo paese viene presentato come il modello del comunismo sedicente indipendente.

Identiche proteste e scioperi si svolgono in Romania, altro mito del «nazionalcomunismo». Identica atmosfera si respira in Ungheria, dove, per esempio, lo stesso organo del partito comunista francese, L’Humanité, il 26 marzo 1987 ammetteva esservi una «situazione economica difficile».

All’altro capo del mondo comunista, il Vietnam è sottoposto al più rigido razionamento nonostante il saccheggio del Laos e della Cambogia, e vive una situazione drammatica.

Nelle altre colonie sovietiche le cose vanno forse più o meno allo stesso modo? La Commissione dell’ONU per l’Europa riferiva, nel marzo del 1987, che «il grande sviluppo dei paesi dell’Est» fra il 1972 e il 1986 era stato solamente artificiale, cioè creato grazie a importazioni e a prestiti dai paesi capitalisti, a tal punto eccessivi che le loro finanze sono a secco, incapaci di far fronte al loro superindebitamento, che — alla fine del 1986 — ammontava a centodiciassette miliardi di dollari, di cui trentotto della sola Unione Sovietica.

Ma altre scintille volteggiano attorno alle polveriere costituite attualmente dagli Stati-colonie dell’URSS. Lo si voglia o no, esse stanno a significare che o l’annunciata «distensione» fra Est e Ovest si costruirà contro le prossime rivolte popolari; oppure Mosca sarà costretta a rientrare nelle sue frontiere anteriori al 1939. Purtroppo, nel gioco attuale fra Est e Ovest si inserisce la prima ipotesi. Diciamo in anticipo che sarà solamente un palliativo, e che il fiume sovietico, prima della fine del secolo, sarà costretto a rientrare nel suo letto. Grandi spargimenti di sangue non muteranno in nulla questo esito. Le dighe del «riformismo» apparente di Mikhail Gorbaciov saranno spazzate via. Il totalitarismo non è riformabile: è tutto oppure non è niente, bastona oppure perde. Ebbene, i picchiatori non hanno più la coesione né la convinzione che avevano negli anni dal 1919 al 1979…

Dagli Stati baltici al Mar Nero, lo spirito nazionale è sopravvissuto alle repressioni, dopo aver toccato il fondo della disperazione negli anni che vanno dal 1944 al 1960. Ne danno testimonianza sia la stampa sovietica che il nazionalismo delle repubbliche musulmane dell’URSS. 

Non potendosi esprimere in quanto tale, in certi paesi questo spirito nazionale si rivela attraverso le rivalità etniche. 

In Romania, una minoranza costituita da circa due milioni di ungheresi è perseguitata dalla polizia di Nicolae Ceausescu. In Slovacchia, dove vive una minoranza di circa seicentomila ungheresi, la polizia provoca incidenti talora mortali, nella speranza di fare da arbitro appunto fra ungheresi e slovacchi, e in questo modo spezzare la straordinaria coesione della resistenza slovacca al comunismo, condotta dal settanta per cento di cattolici raccolti dietro al loro primate, il cardinale Frantisek Tomasek, arcivescovo di Praga. Ma questo gioco è destinato a sfuggire di mano ai provocatori, e lo si constaterà presto.

In Bulgaria, sotto la pressione di persecuzioni comuniste, la minoranza costituita da novecentomila turchi è riuscita a creare reti clandestine in collegamento con i superstiti bulgari di una resistenza più volte decimata dopo il 1960.

In Albania, la tirannide non è mutata, ma il gioco da essa condotto nel Kossovo, dominato da Belgrado, comincia a sfuggirle. 

In Jugoslavia, non è un caso il fatto che una pubblicazione abbia di recente tentato di riabilitare il generale Draza Mihailovic che, nel corso della seconda guerra mondiale, combatté nello stesso tempo i nazionalsocialisti e i comunisti. Inoltre, i comunisti serbi e i loro «fratelli» bulgari continuano a litigare a proposito della Macedonia… All’altro capo del paese, gli sloveni nazionalisti assillano con continue rimostranze i comunisti sulla base del fatto che, pur costituendo il due per cento della popolazione, producono il diciotto per cento del reddito nazionale jugoslavo, e si rivoltano contro una rappresentanza nel governo assolutamente inadeguata… 

Nella Germania Orientale, nel settembre del 1986 il coraggioso clero cattolico unanime, imitando i propri confratelli della Cecoslovacchia, metteva in guardia i fedeli contro ogni forma di collaborazione con i marxisti.

L’elemento religioso — e di tutte le religioni — si unisce ormai agli altri, contro il comunismo, risvegliato dall’esempio polacco: l’ottanta per cento della popolazione lituana è costituita da cattolici, come cattolico è il sessantanove per cento dei cecoslovacchi, il sessantuno per cento degli ungheresi — nonostante un alto clero sottomesso al regime — e il trentadue per cento degli jugoslavi. A essi si aggiungono i protestanti e, nel Sud-Est europeo, i musulmani — d’Albania e di Jugoslavia — scossi dal dramma afgano.

Con l’eccezione costituita da Varsavia e da Bucarest, dominano dirigenti più che settuagenari, destinati a cedere il potere entro uno o due anni. Ma a chi? Attorno a loro si scontrano seguaci e avversari della linea di Mikhail Gorbaciov, a imitazione di quanto accade a Mosca.

In questa primavera del 1987 è necessario avere presente tutto ciò mentre si osserva quanto accade all’Est. E certamente con un’intenzione soggiacente Giovanni Paolo II, nella sua ultima enciclica Redemptoris Mater, del 25 marzo 1987, ha ricordato — senza particolare eco sulla stampa — che nel giugno del 1988 il mondo cristiano celebrerà il «Millennio del battesimo di san Vladimiro, Gran Principe di Kiev (a. 988), che diede inizio al cristianesimo nei territori della Rus’ di allora e, in seguito, in altri territori dell’Europa orientale» e la «Rus’ di allora» inglobava la Russia, la Bielorussia e l’Ucraina… dove la Chiesa delle Catacombe rivive con sorprendente vigore.

Pierre Faillant de Villemarest

 

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