Punire la formica, obbligandola a foraggiare la cicala. In altre parole, anche se a prima vista non sembra, promuovere l’inflazione oppure no? Il rialzo dei prezzi è un bene o un male per l’economia?
Siccome il denaro è innanzitutto un mezzo di scambio è evidente che il suo valore “reale” dipenderà dal suo effettivo potere d’acquisto, e da come questo muta, nel tempo e nello spazio. Quante ore di lavoro occorrono per acquistare un chilo di carne? Quanti mesi di busta-paga servono ad un operaio nell’Italia del 2017 per un’utilitaria? Oppure quanti anni di mutuo per un alloggio? Meglio oggi oppure 10, 20 o 30 anni fa? Chi se la passa meglio, un italiano, un tedesco o un americano? Il punto qui non è fare classifiche ma solamente attirare l’attenzione sul fatto che ciò che conta è il valore “reale” del denaro e non quello “nominale”.
Chi vive di stipendio o pensione, in un contesto di inflazione in forte risalita vede il suo potere d’acquisto erodersi nel tempo: i redditi si adeguano infatti in ritardo e solo parzialmente rispetto al rialzo dei prezzi al consumo. A parità di controvalore speso i beni acquistabili diminuiscono.
Perché mai allora le Banche Centrali si pongono generalmente obiettivi di inflazione prossimi al 2%? Salari, stipendi e pensioni non si possono facilmente abbassare, ma lo stesso risultato si ottiene inflazionando i prezzi: in tal modo, pur restando immutati o in risalita in termini nominali i redditi fissi vengono svalutati in termini reali. Un modo di recuperare “competività” meno evidente rispetto al taglio del valore nominale di stipendi o pensioni: efficace ma subdolo.
E lo stesso capita ai risparmi: con la manipolazione al ribasso dei rendimenti dei titoli governativi, la Banca Centrale Europea porta in negativo i tassi “reali” e così facendo sgonfia in termini reali il peso del debito pubblico, ovviamente a spese dei risparmiatori. Un modo per trasferire surrettiziamente, ed iniquamente, ricchezza dalla formica alla cicala, dal creditore al debitore. Ovvio che non se parli molto.
Il denaro è mezzo di scambio, riserva di valore e unità di conto: alterandone il valore in modo artificiale i governi, a mezzo dei loro “bracci armati” che sono le Banche Centrali, trasferiscono ricchezza dai creditori ai debitori, penalizzando i risparmiatori e chi vive di stipendi o pensioni.
La storia economica insegna che i debiti fuori controllo degli Stati finiscono o in default de jure – quando uno Stato non onora più i propri debiti – oppure in default de facto, quando lo Stato persegue un’uscita inflazionistica, come spesso è accaduto dopo le guerre. Un’impennata inflazionistica consente di sgonfiare artificialmente i debiti nel tempo, ovviamente a spese dei creditori.
Un’inflazione del 2% all’anno sembra poca cosa ma consente di abbattere, in corrispondenza di tassi manipolati al ribasso verso lo zero come ai nostri giorni, il monte-debiti di oltre un quinto nell’arco di una decina di anni. Ovviamente svalutando dello stesso ammontare il valore reale dei titoli del debito pubblico detenuti dalle famiglie, cioè la loro ricchezza finanziaria: un gioco “a somma nulla”, lo Stato-cicala vince, il risparmiatore-formica perde.
Il pretesto di tali interventi è sempre lo stesso: “rilanciare l’economia“, “contrastare la deflazione“, quando invece la storia economica ha visto lunghi periodi di “stagflazione”, cioè di crisi economica con inflazione o, specularmente, di forte crescita economica con prezzi in calo (deflazione). Anche ai nostri giorni esistono industrie, come quella informatica e tecnologica in genere, che prosperano pur producendo beni sempre più avanzati a prezzi sempre più bassi: pensiamo ai computer, ai televisori, ai telefoni cellulari, ecc. Un fatto che non spiace certamente a noi consumatori.
Il mondo non ha bisogno di “inflazione” per ripartire: falsificare il valore reale della moneta, alterare i prezzi relativi di merci e servizi, immobili ed asset finanziari, svalutare l’unità di conto su cui si basano scelte di consumo, risparmio ed investimento non può essere certamente la vera soluzione alla crisi, per lo meno non per tutti.
Se le cause profonde della crisi sono “reali” – denatalità, perimetro e spesa pubblica fuori controllo, crisi morale, ecc. – la soluzione non potrà essere una qualche alchimia di tipo “finanziario” o “monetario”. Inutile allora illudersi che l’inflazione possa aiutare la ripresa dell’economia. Se così fosse, infatti, perché limitarsi ad un obiettivo del 2%? Perché mai un’inflazione negativa (deflazione) dovrebbe danneggiare la crescita economica, un tasso dello 0,5% o dell’1% sarebbe inadeguato e contemporaneamente invece un 3-4-5% sarebbe troppo elevato? Forse perché il 2% consente di spostare ricchezza dai creditori (i risparmiatori) ai debitori (gli Stati) un po’ per volta, in modo “indolore”, senza dare troppo nell’occhio? Cui prodest?
Inflazione o deflazione, ovvero l’eterna storia della formica e della cicala. Con l’inflazione il conto lo paga la formica, senza neppure saperlo. Poveri risparmiatori.