Da Tempi del Marzo 2019. Foto da ilfattoquotidiano.it
Da 4 mesi la Corte costituzionale ha messo in mora il Parlamento sul reato di agevolazione e aiuto al suicidio: chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, che punisce questo tipo di condotta – a ciò sollecitata dalla Corte di assise di Milano, nel c.d. caso Cappato -, la Consulta ha rinviato la decisione all’udienza del prossimo 24 settembre. Fin qui poco di strano: il rinvio non è uno scandalo. E’ singolare che avvenga con una ordinanza che, invece che di poche righe – quelle che servono a motivare lo slittamento e a indicare la nuova data -, impieghi pagine e pagine per sostenere che la norma penale impugnata qualche ragione l’avrà pure (tutelare le persone più deboli e in difficoltà, per le quali il suicidio è una tentazione da non assecondare), ma comunque va rivista. Ancora più singolare è che il Giudice delle leggi affermi con questa lunga motivazione un principio di carattere generale astraendo dal caso concreto che ha originato la questione a esso sottoposta, e cioè la tragica vicenda di Fabiano Antoniani, il c.d. dj Fabo: capovolgendo l’ordine dei fattori, poiché è la norma generale che va applicata con equilibrio e saggezza al caso concreto, non quest’ultimo che deve assurgere a canone normante. Il vertice di singolarità sta nella conclusione: se una disposizione vigente è ritenuta incostituzionale la Consulta la dichiara illegittima; se è invece ravvisata in linea con la Costituzione la questione sollevata viene rigettata; vi è perfino un tertium genus, la c.d. sentenza interpretativa di rigetto che, mantenendo in piedi la norma impugnata, ne orienta l’esegesi al fine di non dichiararla illegittima. Nel caso dell’aiuto del suicidio la Corte ha scelto una quarta strada: ha motivato in larga parte una pronuncia di illegittimità, e ha tuttavia dato tempo al Parlamento – nel senso proprio della parola: ha fissato termine fino alla prossima udienza, appunto il 24 settembre – perché esso modifichi la disposizione impugnata, facendo intendere neanche tanto per implicito che in caso di inerzia alla fine deciderà. In Parlamento finora sono state presentate proposte di legge tutte nella direzione di una eutanasia spinta, e di esse alla Camera si è pure avviata la discussione, in Commissione Giustizia. Quelle che finora non si sono ascoltare in modo chiaro e forte sono le ragioni della vita: in Parlamento, da parte delle forze politiche che a ogni vigilia di voto qualche impegno sul punto lo assumono; e nel corpo sociale, che pare interessato da altro. Che ci siano all’ordine del giorno altre questioni rilevanti è certo; ma qui è in discussione la probabile legittimazione dell’uccisione di un uomo da parte di un altro uomo, se pure in circostanze particolari, insieme con l’abisso di solitudine e di dissolvimento di qualsiasi dovere di solidarietà che fa da sfondo alla rivendicazione del suicidio in termini di diritto. E’ pure in discussione che un organo pur autorevole come la Consulta sia abilitato a “dettare i compiti” al Parlamento, e addirittura i tempi per svolgerli, come a uno scolaretto, andando oltre confini istituzionali che una volta erano più netti. Non che manchino le riflessioni e le prese di posizione, dal Movimento per la vita a Scienza & Vita, fino al Centro studi Livatino, del quale mi onoro di far parte. Ma quel che è assente è una consapevolezza ampia della posta in gioco e dei tempi stretti per agire: non è nemmeno seriamente iniziata la considerazione del “che fare”. Nel “che fare” potrebbe rientrare una risposta di resistenza da parte delle Camere a quella che appare una imposizione da parte di un organo la cui funzione – già elevata – è di sancire se una norma è costituzionale oppure no, non indicare percorsi e date al Parlamento. Ovvero una risposta che, evitando il conflitto istituzionale, recepisca talune indicazioni della Consulta – non tutte -, e muova in direzione opposte rispetto alla deriva eutanasica che oggi pare dominare la scena. Già prendere in esame differenti ipotesi di risposta all’ordinanza della Corte significa entrare nel merito. Ma, circa sei mesi prima del 24 settembre, tutto tace, perfino nell’area ecclesiale (con le eccezioni prima indicate), e anzi da chi ci si attende un contributo di idee e di proposte vengono inviti al cedimento, insieme con l’evocazione di un accanimento terapeutico che col suicidio nulla ha a che fare. Sono i medesimi colpevoli inviti che in pochi anni hanno contribuito a regalarci matrimonio solubile nell’acqua, unioni same sex e testamento biologico. Svegliarsi dal torpore è doveroso: giusto per mostrare la differenza fra una “pennica” semi-cosciente e la cappa di morte che incombe su un corpo sociale che sembra non volere più riprodursi né vivere.
Alfredo Mantovano