Fino al 5 gennaio non si saprà come gli Stati Unti saranno governati davvero nei prossimi due anni
di Marco Respinti
È ufficiale. Per capire definitivamente quali saranno gli equilibri politici e istituzionali degli Stati Unti d’America nei prossimi due anni, cioè fino alle elezioni «di medio termine» dell’8 novembre 2022, bisognerà aspettare il 5 gennaio 2021.
Mentre infatti il numero dei voti popolari espressi in ciascuno degli Stati dell’Unione dev’essere, in alcuni Stati, ancora determinato con certezza per sapere con precisione quale sarà la composizione del Collegio elettorale che il 14 dicembre sceglierà il presidente e il vicepresidente federali attraverso il voto dei Grandi elettori rappresentanti gli Stati, e mentre certamente la Camera federale di Washington resta a maggioranza democratica, seppur assottigliata dall’elezione di un numero record di donne pro life repubblicane, la composizione del Senato federale non è decisa. Questo perché nessuna delle forze politiche in campo ha raggiunto la maggioranza dell’almeno 50% + 1 (cioè almeno 51 senatori sui 100 totali). I repubblicani contano oggi 50 seggi, i democratici 46 e 2 sono quelli degli indipendenti pressoché indistinguibili dai democratici: nella pratica, con 50 seggi i repubblicani sfiorano ma non raggiungono la maggioranza e i 48 seggi dell’opposizione possono ancora riuscire a condizionare l’aula, persino a guidarla.
In caso di parità, infatti, il voto dirimente spetta al presidente del Senato, che è il vicepresidente della repubblica federale: Kamala Harris se le presidenziali le vincesse Joe Biden, Mike Pence se a vincerle fosse Donald J. Trump.
Due seggi senatoriali sono infatti ancora da assegnare, e, se li conquistassero entrambi i democratici, si verificherebbe quella parità che darebbe la parola finale al vicepresidente della repubblica. La parità è, cioè, il massimo cui i democratici possono aspirare ora, sperando al contempo di ottenere quella Casa Bianca che spezzerebbe detta parità. Sarebbe cappotto. Ma se non accadesse, una eventuale Casa Bianca democratica camminerebbe con difficoltà: come un’anatra zoppa, «lame duck», per applicare a questa situazione l’espressione che Oltreoceano si usa per l’“interregno” tra la non riconferma elettorale di un’Amministrazione al governo e l’entrata in carica della successiva.
Ma fino al 5 gennaio non si saprà nulla, nemmeno se dopo il 14 dicembre si conoscesse il nome del presidente e del vicepresidente della repubblica federale. Infatti nessuno dei candidati in lizza per i suddetti due seggi senatoriali non ancora assegnati ha raggiunto la metà più uno dei voti espressi, e questo rende necessario il ballottaggio fra i primi due classificati, ballottaggio fissato, appunto, per l’inizio dell’anno venturo.
Tutto è avvenuto in Georgia. Per uno dei due seggi in ballo il repubblicano David Perdue ha ottenuto il 49,7% dei voti contro il 48% del Democratico Jon Ossoff, ma il 2,3% dei consensi ottenuto da Shane T. Hazel, candidato del Libertarian Party, ha negato a entrambi la maggioranza dei voti espressi.
Nell’altro seggio in palio, la repubblicana Kelly Loeffler ha ottenuto il 25,9% dei suffragi contro il 32,9% del democratico Raphael Warnock. A impedire il risultato pieno a uno dei due è stata la presenza di un alto numero di altri candidati, effetto del fatto che per questo seggio non si sono svolte le consultazioni primarie. Si tratta infatti di un’elezione speciale, resasi necessaria a causa delle dimissioni, per motivi di salute, del repubblicano Johnny Isakson, dimissioni effettive il 31 dicembre 2019. Al tempo il governatore repubblicano della Georgia, Brian Kemp, operò la sostituzione nominando d’ufficio la Loeffler (con effetto a partire dal 6 gennaio 2020), la quale ora cerca la riconferma nelle urne.
Ora, mentre Perdue spera anche nei voti che al “primo turno” sono andati ad Hazel, giacché Hazel è un ex repubblicano, la differenza politica, culturale e valoriale fra i candidati in lizza non potrebbe essere più netta.
Perdue è un uomo molto vicino a Trump e, fra le altre cose, si oppone alla riforma della sanità voluta dal presidente Barack Obama, nota come «Obamacare», nonché al “matrimonio” tra persone omosessuali, reso legale da una sentenza della Corte Suprema federale nel 2015, ed è anche co-firmatario, assieme al collega poi dimissionario Isakson, di un disegno di legge che consente a datori di lavoro e impiegati pubblici di opporsi per motivi morali e religiosi alla sua celebrazione. L’«Obamacare», che contiene anche imposizioni contrarie ai princìpi non negoziabili, è invece sostenuto dal suo sfidante Ossoff, che considera pure l’aborto un diritto.
Quanto all’altro duello, il democratico Warnock, afro-americano, pastore nella Ebenezer Baptist Church in Atlanta, un tempo governata da Martin Luther King Jr. (1929-1968) ‒ la cui nipote Alveda King è una grande supporter di Trump per via della sua politica a favore della vita, della libertà religiosa e dei neri ‒, ha operato come “educatore sessuale” ed è un filo-abortista dichiarato, sostenuto dalla Planned Parenthood. Sponsorizzato da tutti i grandi nomi del Partito Democratico, è noto come simpatizzante del despota comunista cubano Fidel Castro (1926-2016).
La Loeffler, invece, è cattolica, conservatrice, pro life e si oppone all’ideologia gender. È anche costantemente in linea con le decisioni di Trump. E questo è un dato da non sottovalutare, anche sul piano storico. Inizialmente la Loeffler non era nota come campionessa dell’antiabortismo e del conservatorismo, tanto che la decisione del governatore Kemp di scegliere lei al posto di Isakson aveva irritato la base conservatrice della Georgia, schieratasi con un altro repubblicano, Doug Collins, che oggi è proprio uno degli “incomodi” (repubblicani). Gran conservatore e pro lifer, con il suo importante 19,9% Collins non ha permesso di decidere il vincitore fra la Loeffler e Warnock. Ma nel tempo la Loeffler è cambiata. Schierandosi costantemente con Trump, ne ha di fatto seguito l’evoluzione pro life e conservatrice, tanto da votare, nei suoi mesi al Senato, sempre dalla parte giusta su questioni non negoziabili e finire per guadagnare il plauso convinto di quella Susan B. Anthony List che dal 1993 s’impegna per fare eleggere personale politico pro-life a ogni livello della vita politica e istituzionale statunitense.
Insomma, solo il 5 gennaio si saprà se 1) Biden e la Harris guideranno la Casa Bianca con al proprio fianco una Camera federale democratica e un Senato fifty-fifty che la Harris potrà pilotare in maniera perfettamente legale; se 2) Biden e la Harris governeranno con il favore della Camera democratica, ma con un Senato preziosamente contro, seppur magari di misura (persino con un solo voto di scarto); oppure se 3) Trump e Pence vinceranno ricorsi e riconteggi, governando il Paese fino al 2022, con una Camera all’opposizione e un Senato favorevole o perché quest’aula avrà i numeri o perché il vicepresidente Pence potrà, in modo perfettamente legale, pilotarne il voto.
«Georgia, oh Georgia/ No, no, no, no, no peace I find», insomma, come diceva la famosa canzone degli anni 1930, «Georgia,Georgia, non trovo pace».
Venerdì, 13 novembre 2020