Dal monogramma di Cristo all’acronimo asburgico: per una “civiltà del simbolo” la parola scritta non è solo un mezzo funzionale, ma veicola contenuti spirituali prima ancora che sia pronunciata.
di Stefano Chiappalone
Verso la fine del secolo scorso, da poco varcata la soglia del liceo classico, anche il sottoscritto si dovette cimentare con una frase che costituisce un vero e proprio rompicapo per molti principianti della lingua latina. Il professore andò alla lavagna e scrisse: «I vitelli dei romani sono belli». E ci chiese di… tradurla. Ma non era già in italiano? In realtà, la si può intendere anche in latino, e in tal caso andrebbe tradotta con: «Va’, o Vitellio, al suono di guerra del dio romano».
C’è poi il responso letteralmente sibillino, che la Sibilla (appunto) diede a un soldato prossimo ad andare in battaglia e forse a morire. Basta aggiungere una virgola tra redibis e non per fare la differenza tra la vita e la morte del militare: «Ibis, redibis, non morieris in bello» («Andrai, tornerai, non morirai in guerra»), oppure: «Ibis, redibis non, morieris in bello» («Andrai, non tornerai, morirai in guerra).
In ambito cristiano, sin dai primordi, è «il Nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9) a lasciarsi quasi condensare in un monogramma e in un’immagine, altrettanti divini giochi di parole. Il primo è il XP, costituito dalle lettere greche chi e ro, iniziali del nome di Cristo: Χρῑστός (Christòs). Lo troviamo quindi racchiuso nell’immagine del pesce, che in greco si dice: ΙΧΘΥΣ (ichthys), le cui singole lettere formano le iniziali di «’Ιησοῦς Χριστὸς ΘεoῦYἱὸς Σωτήρ (Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr)», cioè: «Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore». Ben più complesso ed enigmatico è il quadrato del Sator, non l’unico, ma di sicuro il “quadrato magico” per antonomasia (cfr. Rino Cammilleri, Il quadrato magico. Un mistero che dura da duemila anni, BUR, Milano 2004), in cui la misteriosa frase «Sator Arepo Tenet Opera Rotas», disposta in forma di quadrato, ingloba una croce e le parole «Pater noster».
Non si contano poi i significati dell’acronimo asburgico A.E.I.O.U., ideato dal creativo imperatore Federico III (1415-1493), e da allora distintivo della dinastia, dispiegandosi in un ampio ventaglio di motti, dal più politico «Austriae Est Imperare Orbi Universo» al più spirituale «Adoretur Eucharistia In Orbe Universo».
Il culmine si raggiunge nei codici miniati e specialmente in quelli liturgici, dove il segno scritto raffigura visivamente ciò che significa: anticipazione grafica dell’azione liturgica che quel significato renderà presente, una volta pronunciata la parola che vi è scritta e non di rado istoriata. Non è dunque per mera decorazione che nei messali altomedievali le due prime parole del Canone («Te igitur…») si vadano distaccando dal resto («…clementissime Pater, per Iesum Christum Fílium tuum Dóminumnostrum…») disponendosi intorno alla T: non solo perché quest’ultima è l’iniziale, il capolettera, ma soprattutto perché è a forma di croce. Il passo successivo, facile da intuire, è che quella T cruciforme finisca per ospitare il Crocifisso, raffigurando così il Sacrificio che proprio durante il Canone avrà luogo.
Sono tutti esempi di un uso simbolico della parola scritta, difficili da capire per noi che ne facciamo un uso meramente funzionale o propagandistico (i nostri acronimi sono nomi di aziende o partiti e i nostri motti gli slogan commerciali). A renderli possibili era una civiltà del simbolo, capace di veicolare significati spirituali attraverso i segni materiali in virtù di quello che il ven. FultonSheen (1895-1979) chiamava «il divino senso dello humour», e pertanto trasformare la parola in architettura e l’architettura in poesia.
Sabato, 27 gennaio 2024