Enzo Peserico, Quaderni di Cristianità, anno II, n. 5, estate-inverno 1986
Gli «anni del desiderio e del piombo». Dal Sessantotto al terrorismo
1. Nascita di una Rivoluzione culturale
Rapporto oppure estraneità fra Sessantotto e terrorismo?
«Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita»: è l’epitaffio — una frase di Paul Nizan — che Marco Riva, ventunenne redattore del Quotidiano dei lavoratori, chiede per sé nella lettera scritta ai familiari prima di suicidarsi all’interno della propria auto, l’8 gennaio 1971 (l).
Se il gesto di Marco Riva rappresenta la drammatica conclusione dell’utopia perseguita da una generazione, la frase è emblematica dello stato d’animo di chi, a partire dal 1968, esprime la propria inquietudine attraverso molteplici forme di rivolta.
Un episodio giudiziario del settembre del 1985, cioè l’arresto dei presunti assassini di Sergio Ramelli, il giovane milanese di destra massacrato a colpi di spranga nel 1975, ha improvvisamente riportato all’attenzione dell’opinione pubblica questo capitolo violento della più recente storia italiana. Ma, una volta spenti i riflettori della cronaca, si rischia nuovamente di seppellire il ricordo di quegli anni, rinunciando a comprendere quanto avvenne (2).
Occorre invece ricordare per capire, e a tale scopo credo indispensabile porre preliminarmente una domanda di fondo: esiste un rapporto fra il Sessantotto e il terrorismo e, se esiste, quali ne sono le caratteristiche?
La risposta sembra forse ovvia a chi ha vissuto quegli anni in prima persona, ma le cose si complicano quando su un argomento, per tanti versi ancora bruciante, si accavallano anche saggi e convegni studi di politologi e di psicosociologi, e quando, soprattutto riconoscere un legame significa turbare precise strategie politiche oppure aprire armadi pieni di compromettenti «scheletri» (3).
In un acuto saggio, Nando dalla Chiesa mostra l’esistenza di questo rapporto: «La tesi che sta alla base del nostro impianto interpretativo — scrive — è poi in realtà una constatazione. Che è questa: l’odierno terrorismo di sinistra in Europa, nelle sue due uniche rilevanti espressioni immediatamente politiche (Italia e Germania) nasce con il ’68» (4). Ciò che si constata, precisa, è l’esistenza di un legame operativo, cioè il fatto che il terrorismo si radichi all’interno di quel ciclo di lotte giovanili — studentesche e operaie — e la constatazione si fonda adeguatamente sul materiale documentario, costituito da una grande quantità di scritti, di memorie e di biografie di terroristi, tutti convergenti a manifestare tale legame.
Identificata, dunque, l’esistenza di un legame operativo, il problema si sposta al tipo di rapporto corrente fra il Sessantotto e il terrorismo: si tratta di un rapporto «stravolgente» — come vorrebbe Nando dalla Chiesa — oppure di un rapporto organico (5)? In altri termini, il fenomeno terroristico contraddice la fase del processo rivoluzionario dalla quale prende le mosse, oppure rappresenta una risposta consequenziale a tale fase?
I prodromi della rivolta
La data assunta come terminus a quo della protesta giovanile è quella del maggio del 1968, il mese della rivolta a Parigi, degli scontri all’università della Sorbona, delle barricate al Quartiere Latino, del blocco di ogni settore produttivo francese attraverso scioperi generalizzati, che hanno fatto assurgere tali eventi a mitico simbolo della Rivoluzione nascente, a stagione eroica da celebrare in prosa, in versi e in musica (6).
Senza imitare l’enfasi eccessiva di qualche protagonista (7), si può comunque puntualmente indicare nel Maggio francese la significativa espressione di un incendio i cui primi focolai erano accesi già da tempo. Infatti, fin dall’inizio degli anni Sessanta si constata, all’interno del mondo giovanile occidentale — con particolare riferimento a quello studentesco — una diffusa atmosfera di disagio, più evidente nei paesi industrializzati, dove il realizzarsi della cosiddetta «società opulenta» porta con sé fatti quali l’aumento progressivo della popolazione studentesca, l’esplosione della motorizzazione come fenomeno di massa, la migrazione incontrollata di giovani e di contadini dalla campagna ad aree metropolitane, e — in Italia — soprattutto dal Meridione al Settentrione del paese (8).
Questi e altri fenomeni, a essi collegati, contribuiscono a formare un clima sociale fortemente contraddittorio. Da un lato, l’accrescimento del tenore di vita medio e le prospettive aperte dalla nascente tecnologia elettronica diffondono dagli Stati Uniti all’Europa una «cultura dell’ottimismo», che era «latente da molto tempo nell’idea di Progresso propria all’Illuminismo e cioè, la sicurezza di una progressiva e inarrestabile corsa dell’uomo verso il proprio compimento come essere perfettibile nella Storia» (9). D’altro lato, l’irruzione dell’economismo e del materialismo inerenti alla «società opulenta» provoca sentimenti di ribellione e di malessere, che si traducono confusamente nei primi fenomeni di pacifismo e di hippismo, alimentati e sostenuti da nuove culture musicali.
Alle ribellioni comportamentali vengono progressivamente sovrapponendosi quelle politiche. Così, accanto alla manifestazione-happening della cultura underground alla Albert Hall di Londra, nel giugno del 1964, si moltiplicano le manifestazioni nelle università, con occupazione seguente, e gli scontri di piazza — a Berlino come a Roma o in California — nel 1966. Dal 1967 lo scontro sociale si va radicalizzando e di volta in volta si manifesta come richiesta di «democrazia» nell’università oppure come protesta pacifista contro l’intervento americano in Vietnam. Nel 1968, mentre dietro la cortina di ferro sfiorisce rapidamente la «primavera di Praga», la contestazione dilaga: il Maggio francese significa rivolta anche negli Stati Uniti, nella Repubblica Federale di Germania e in Italia.
Se i movimenti e le occasioni che generano i singoli scontri sono molteplici e se il panorama dei comportamenti underground è variegato e anche esotico, le rivolte sono tutte unificate in una nascente Rivoluzione culturale: quanto viene rifiutato inizialmente in modo per molti istintivo, ma poi con sempre maggiore consapevolezza ideologica, è il sistema di valori, di istituzioni e di strutture giuridiche sul quale era stata edificata la società democratica occidentale.
Nel rifiuto converge tutta la rabbia di chi vede svanire la felicità promessa dall’ottimismo scientista e materialista proprio della cultura liberal-illuminista (10). Tuttavia, se il desiderio di cambiamento che anima la nuova generazione non viene travolto insieme all’esito fallimentare di questa cultura, tale rifiuto del cosiddetto «sistema» non significa neppure ritorno ai valori spirituali da essa calpestati. Al contrario, è vagheggiata una grande utopia per la quale lottare, che promette la conquista della liberazione personale e sociale, la costruzione di un ennesimo «uomo nuovo» nel regno secolarizzato della felicità desiderata (11). L’itinerario di liberazione, che esige preventivamente la distruzione del sistema vigente in quanto intrinsecamente malvagio, nel mondo occidentale percorre sentieri diversi, ma al Sessantotto italiano dedicherò la maggiore attenzione.
2. I due volti del Sessantotto: rivoluzione «in interiore homine» e rivoluzione politica
Osservando il corso della contestazione giovanile in Italia, come si articola lungo un decennio caratterizzato dall’uso sempre più radicale della violenza, si constatano, nella Rivoluzione del Sessantotto, due tendenze di fondo.
È interessante esaminare alcuni fra gli innumerevoli testi di supporto ideologico-politico pubblicati nei primi anni della contestazione stessa, come quelli raccolti, per esempio, in Ma l’amor mio non muore, un’antologia di documenti apparsi fra il 1969 e il 1971 (12). Il pensiero di fondo, che costituisce poi il leitmotiv del Sessantotto, è sintetizzato dallo slogan «il personale è politico», specificazione esistenziale del noto asserto di Antonio Gramsci secondo cui «tutto è polilica» (13). La raccolta si apre con la descrizione di rivolte carcerarie e con una confusa fondazione ideologica. Si precisa poi che «per individuare il tutto bisogna cominciare con la frammentazione dell’individualità, in questo senso la comune è un progetto nel quale si tenta di realizzare l’optimum delle relazioni interumane. Dio, patria e famiglia sono storie dell’altro ieri!» (14); in polemica con i marxisti-leninisti si sostiene che «ogni rivoluzione politica è contemporaneamente una rivoluzione economica, sessuale o viceversa» (15). Più avanti viene pubblicato un documento delle Brigate Rosse: esse — spiega — sono un gruppo di proletari, i quali hanno capito «che i padroni sono vulnerabili nella loro persona, nelle loro case, nella loro organizzazione» (16); la lotta di classe contro la reazione deve infatti prevedere «il passaggio necessario dalla risposta spontanea e di massa — anche se violenta — all’attacco organizzato, che sceglie i suoi tempi, calcola la sua intensità, decide il terreno, impone il suo potere» (17). Seguono consigli di «fai da te»: come costruire bottiglie incendiarie e produrre gas lacrimogeni e artifizi fumogeni, che «rallegrano la festa proletaria per le strade» (18). Si passa quindi all’esaltazione delle droghe allucinogene: l’LSD «non solo può dare piacevoli visioni, ma può allargare la coscienza, essere determinante per la distruzione delle inibizioni e quindi aumentare le possibilità di comunicazione fra uomo e uomo» (19). Viene pure raccolto un «ricettario» accurato per la preparazione di cibi alla marijuana, dai nomi invitanti anche se forse di avventurosa digestione (20). L’antologia si chiude esaltando la Rivoluzione sessuale: «competenti medici» assicurano che «l’aborto non è niente di più di un intervento medico ambulatoriale, come l’incisione di un foruncolo o la medicazione di una scottatura», e si auspica venga rimosso il pregiudizio razzista contro l’omosessualità, perché «l’individuo deve avere la libertà d’usare il suo corpo come crede» (21). Le pagine finali sono dedicate ai bambini, con l’appello al «proletariato infantile» contro l’infantilismo borghese: dopo aver loro assicurato che «S. Giuseppe e Gesù Bambino non esistono», li si invita alla rivolta contro i genitori e li si inizia ai giochi erotici e al furto (22).
La lunga descrizione è significativa per molte ragioni: anzitutto, perché non siamo in un momento di disgregazione del movimento del Sessantotto, ma nella sua piena espansione; poi, perché si tratta di testi diffusissimi nella costellazione dei «collettivi», delle «comuni» e dei «centri sociali» (23); infine, soprattutto, perché mostra come il coacervo di impulsi ideologici che caratterizzano la nuova utopia — ricevuti da Karl Marx e da Max Horkheimer, da Herbert Marcuse e da Wilhelm Reich — spinga la Rivoluzione culturale verso un’unica direzione di marcia, che è anzitutto la negazione radicale dei valori e dei costumi tradizionali (24).
Questo è certamente un volto della Rivoluzione; l’altro è quello politico in senso stretto: il Sessantotto, infatti, rivela il fermento di ideologie che, ispirandosi al denominatore comune marxista-leninista, propugnano la distruzione del sistema di valori e di istituzioni esistente come premessa per la costruzione di un «mondo nuovo». L’odio verso il sistema, ritenuto intrinsecamente malvagio, costituisce il momento unificante negativo (25); la rivoluzione socialcomunista il momento unificante positivo: «la trasformazione della società deve avvenire e deve essere “rivoluzionaria”. Il problema è quanto, come, da che punto di vista, deve esserlo» (26).
Il carattere unitario del Sessantotto non va perciò ricercato nei molteplici e talora contrastanti motivi di rivolta che lo alimentano, ma nella Gesinnung messianico-rivoluzionaria, ossia in un «modo di sentire», in un’atmosfera di idee e di sentimenti che si diffonde nel mondo giovanile fino a diventare culturalmente dominante (27).
Questa Gesinnung messianico-rivoluzionaria, la cui linfa vitale è l’immanentizzazione dell’idea cristiana di perfezione (28), prende corpo propriamente nell’utopia di un mondo nuovo che deve venire, liberato dal male — prodotto dalle istituzioni socio-economiche esistenti — attraverso l’azione rivoluzionaria, esistenziale e/o politica.
Pertanto, le due tendenze di fondo della Rivoluzione del Sessantotto possono essere così schematizzate:
– la prima tendenza si esprime nella rivoluzione in interiore homine, come mostra il volto della Rivoluzione a livello microsociale; il tipo antropologico che l’incarna è il rivoluzionario d’elezione: «la mia vita come rivoluzione»; egli opera la Rivoluzione rovesciando lo stile di vita dell’uomo naturale e cristiano e portando alle estreme conseguenze lo slogan «il personale è politico»;
– la seconda tendenza si manifesta nella rivoluzione politica, che mostra il volto della Rivoluzione a livello macrosociale; il tipo antropologico che l’incarna è il rivoluzionario di professione: «la mia vita per la Rivoluzione»; egli realizza il suo progetto attraverso due linee: a. la lotta politica (anche) violenta; b. la lotta politica armata, cioè il terrorismo.
Queste due tendenze percorrono, non di rado intersecandosi e confondendosi — anche a livello individuale — (29), tutta la storia del Sessantotto, per ripresentarsi emblematicamente unite in quel Movimento del ’77 che rappresenta, nella sua pur breve stagione, il crepuscolo della contestazione giovanile. Infatti, tale movimento ha vita breve: l’ala «desiderante» — che si esprime, per esempio, negli «indiani metropolitani» — svanisce nell’autodistruzione personale, nella droga e nel nichilismo; l’ala violenta invece — espressa dall’area che si denomina Autonomia Organizzata — andrà a ingrossare le file ormai decimate dei gruppi terroristici (30).
3. La genesi del «rivoluzionario di professione»
La tendenza che si manifesta nella ribellione politica assume in Italia un ruolo preponderante: il fenomeno eversivo e terroristico, che trae origine dalla Rivoluzione culturale descritta, prende proporzioni impressionanti, sia per il numero dei giovani terroristi che per la quantità e la qualità delle azioni delittuose (31).
La straordinaria diffusione del fenomeno induce a porsi un’ulteriore domanda, relativa al come ha potuto moltiplicarsi — nelle scuole e nelle fabbriche — il tipo umano costituito dal rivoluzionario di professione.
Sabino S. Acquaviva descrive, al proposito, un itinerario che ha come riferimento storico la Rivoluzione francese, letta attraverso il quadro magistrale tracciato da Augustin Cochin (32).
Pur nell’ovvia irripetibilità delle situazioni storiche, le analogie che il giacobinismo presenta con il Sessantotto sono tali da giustificare una comparazione. Sabino S. Acquaviva così sintetizza gli «anni di piombo» italiani: «tutto è accaduto in tre fasi che riguardano l’evoluzione di tutta la società italiana: la prima è stata quella della disgregazione dei valori dominanti, che abbiamo vissuto in questi dieci-venti anni; la seconda fase è stata quella dell’aggregazione di tipo ideologico dei movimenti politico culturali in cui cresce l’ideologia della guerriglia e del terrorismo; la terza è quella che definirei di guerriglia diffusa: cioè una fase rivoluzionaria verso la quale andiamo» (33).
Si può notare che, in Italia, la terza fase rimane incompiuta, come nella Francia rivoluzionaria al terrore giacobino fa seguito la reazione termidoriana (34).
La prima fase, quella della disgregazione, si fonde con la seconda, quella dell’aggregazione: la Rivoluzione del Sessantotto segna l’inserirsi dell’ideologia — intesa come sistema di miti che promette il raggiungimento della felicità attraverso la politica — in un humus socio-politico carico insieme del rifiuto dei valori dominanti e dell’attesa di un mondo nuovo. Il periodo di elaborazione ideologica viene realizzato attraverso la socializzazione del pensiero.
Questa fase ha bisogno, in negativo, dell’eliminazione del dissenso. Che ciò sia avvenuto in Italia lo conferma lo stesso Sabino S. Acquaviva: «In Italia gli ultimi 15 anni, o poco più, hanno visto una progressiva conversione… progressista della “repubblica delle lettere”, che si è venuta tingendo dal rosa al rosso» (35). Non sono pochi coloro che, a tutti i livelli del mondo intellettuale, rispondono alla fame di verità e al confuso slancio etico giovanile con il veleno della retorica ideologica (36).
Più rilevante è comunque, in positivo, la produzione del pensiero socializzato. Le innumerevoli «società di pensiero» della Francia prerivoluzionaria esistono anche nell’Italia del Sessantotto, sebbene — inizialmente — queste siano più indotte e meno direttamente organizzate: si chiamano «collettivi» nelle scuole, sono i «comitati unitari di base» nelle fabbriche. «Sono i collettivi, i gruppi culturali di ogni genere e tipo, che creano dunque una specie di “città del pensiero” che elabora incessantemente le linee del movimento; si forma così, socialmente, una sorta di spirito pubblico che coinvolge tutti coloro che gravitano attorno alla cultura del movimento […]. Giovani e meno giovani, elaborano, discutono, scrivono, all’insegna del diverso, a volte dello stravagante, ma spesso con un cemento culturale marxista, a volte leninista, che da un lato lega fra loro i prodotti culturali del movimento, dall’altro lo spinge incessantemente, vista la chiave di lettura del marxismo adottata, verso la tematica rivoluzionaria» (37).
In queste «città del pensiero» l’ideologia rivoluzionaria viene dunque prodotta da un insieme di «miti» che rispondono a un «bisogno di credere per agire» (38), secondo un processo sperimentato durante la Rivoluzione francese. Infatti, in queste città si «producono parole», cioè si fabbricano schemi ideologici, che vengono poi trasportati nella realtà sociale per adeguarla a quegli schemi, come scrive Augustin Cochin a proposito delle società di pensiero francesi: «Qui è la chiesa che precede e crea il proprio vangelo; si è uniti per la verità, non dalla verità» (39).
Il «vangelo» è sostanziato dalla teoria rivoluzionaria di Karl Marx e di Vladimir Iliyc Lenin, la quale fornisce sia il modello utopico del futuro che la tecnica, cioè la dottrina dell’azione politica, per giungervi infallibilmente. Si elaborano anche altri miti, che rendono l’utopia credibile e prossima a realizzarsi: la Resistenza, il cui mito è ben radicato nell’ideario socialcomunista in Italia (40), la Cina del presidente Mao, la guerra dei vietcong contro gli Stati Uniti, la guerriglia di Ernesto Che Guevara e di Carlos Marighela in America Latina (41). La produzione dei miti segna il passaggio dalla socializzazione del pensiero alla socializzazione della volontà. Ora, nei gruppi «non si dibatte se bisogna fare la rivoluzione, ma se la rivoluzione deve essere armata o meno» (42). Un ex terrorista pentito, Mario Ferrandi, evoca l’atmosfera in un liceo di Milano, nel 1969: «Studiavamo scienze sociali e leggevamo “lettera ad una professoressa”; l’impegno politico era favorito, io scoprii il movimento studentesco. […] al pomeriggio, quando si faceva il tempo pieno, venivano quelli del Comitato Vietnam, con gli audiovisivi. […] Cominciai a leggere i testi consigliati nei gruppi di studio sulla repressione. La società è divisa in classi, il mondo appartiene agli operai, in Cina hanno vinto, in Vietnam vinceranno, la polizia è al servizio dei padroni, della D. C. e dei fascisti. Studiai a fondo il “manifesto dei comunisti” finché la mia coscienza politica crebbe. Mi proposero di entrare nel servizio d’ordine del M[ovimento]. S[tudentesco]., accettai. Sentivo la città, Milano, con me» (43).
Testimonianze analoghe potrebbero essere migliaia. Le «città del pensiero» si moltiplicano, cresce il numero dei loro abitanti. Il vulcano dei collettivi è il crogiolo che amalgama le elaborazioni ideologiche, è il luogo dove si prendono le decisioni dell’avanguardia rivoluzionaria. Le assemblee studentesche, come quelle di fabbrica, costituiscono il momento di «verifica» delle decisioni prese dai collettivi: le piccole avanguardie rivoluzionarie riescono — attraverso gli slogan, la pressione psicologica e l’intimidazione — a far scaturire da queste più grandi «fabbriche di parole» la propria «volontà generale»; l’allontanamento di studenti e di professori «fascisti», l’occupazione delle facoltà oppure delle fabbriche, lo sciopero, vengono «decisi» dall’assemblea — è il cosiddetto «decisionismo» — che farà propria la strategia distillata dal gruppuscolo-collettivo (44). Insieme alla tensione messianica sale la consapevolezza che l’utopia si può raggiungere soltanto distruggendo il nemico.
La prospettiva della lotta di classe divide l’umanità in «buoni» e in «cattivi», e lo slogan ha una funzione liturgica, perché è il distillato del pensiero socializzato, è il verbo della volontà generale. Lo slogan è composto da «parole-talismano» (45) che simboleggiano il «bene» — «pace», «democrazia», socialismo, rivoluzione — e il «male» — «fascismo», «imperialismo», «reazione». Etichettare un individuo con una qualifica che rimanda al male significa privarlo del diritto alla parola e, in seguito, del diritto alla vita. Così «uccidere un fascista non è reato» costituisce la verità prodotta dal collettivo, da trasferire — senza verifiche di nessun tipo — nella realtà sociale, nelle piazze e nelle fabbriche. Marco Barbone, un altro ex terrorista pentito, racconta del suo ingresso al liceo, nel 1971: «Ho cominciato subito a partecipare ai collettivi, senza passare dai grossi gruppi […]. Era il collettivo il centro di tutto […]. Più che altro raccoglieva un malessere generale, diciamo umano, metropolitano, per indirizzarlo verso la politica, l’attivismo […]. Ma noi esistevamo e ci rapportavamo in base a discussioni politiche. Era il nostro universo, il microcosmo (cosa che verrà drammaticamente accentuata nelle organizzazioni combattenti), l’orizzonte dell’esistenza» (46).
4. Dal rivoluzionario di professione al brigatista rosso
All’interno di questa controsocietà il passaggio al momento dell’azione rivoluzionaria, cioè alla terza fase, risponde a una logica ferrea. Nelle scuole e nelle fabbriche si aggregano e si disgregano in continuazione gruppuscoli di rivoluzionari. Lì si apprendono «la psicologia e la prassi della rivolta» (47), che vanno dalla propaganda al linciaggio morale e alla violenza fisica.
Quanto accade nelle aule scolastiche avviene anche nelle fabbriche. La stagione delle lotte più radicali, egemonizzate dai comitati unitari di base, non è esente dal clima di violenza. Ne è prova il fatto che i primi atti terroristici delle BR, compiuti contro sindacalisti «fascisti» e contro dirigenti industriali, incontrano larga approvazione nel mondo operaio e non vengono denunciati dal sindacato unitario (48).
L’obbiettivo è la realizzazione della giustizia rivoluzionaria: per raggiungerlo occorre dispiegare l’azione politica distruggitrice delle istituzioni irrimediabilmente malvagie.
Infatti, identificando etica e politica, il rivoluzionario di professione ha l’obbligo morale di far trionfare i postulati dell’ideologia con qualsiasi mezzo. Una volta sancita la legittimità, e talora la doverosità, dell’azione violenta, non vi è soluzione di continuità fra la teorizzazione dell’annientamento fisico dell’avversario, l’atto di violenza e l’azione terroristica. Marco Barbone narra con estrema lucidità: «L’antifascismo era già un passo dentro la lotta armata: nessuno condannò l’omicidio del consigliere missino Enrico Pedenovi, avvenuto in risposta a non so quale accoltellamento contro un compagno […]. Dal metodo dell’annientamento fisico dell’avversario discendeva un metodo generalizzato di intolleranza: chiunque poteva diventare un nemico, qualsiasi nemico un fascista, e la violenza restava legittimata da questi passaggi» (49).
Il salto dalla violenza al terrorismo è semmai costituito dalla totalizzazione dell’esperienza precedente, ma non vi è frattura logica oppure ideologica: «[…] non era la ricerca di emozioni, ma la consapevolezza che si metteva in gioco la vita propria ed altrui in nome — questo oggi pare assurdo — di una ideologia totale assunta come interpretazione ed espressione della realtà. La vita era un elemento della strategia, dal progetto veniva la forza di superare il problema umano» (50).
La diffusione degli schemi ideologici del Sessantotto, attraverso la socializzazione del pensiero, produce nel tempo una tale misura di odio collettivo da rendere il minimo pretesto sufficiente a scatenare la violenza e da trasformare il più vile atto terroristico in una pratica di giustizia: poche ore dopo l’omicidio di Enrico Pedenovi — il 29 aprile 1976 — cinquemila giovani sfilavano in corteo poco lontano dal luogo dell’agguato gridando «Dieci, cento, mille Pedenovi» (51). Un anno prima, l’aggressione a Sergio Ramelli aveva sortito identico effetto: moltissimi accolgono con soddisfazione la notizia, altri ammoniscono dai muri di Milano: «Dieci, cento, mille Ramelli, con la spranga tra i capelli» (52).
Dunque, l’itinerario del Sessantotto porta i suoi protagonisti a costituire una sorta di piramide, disposti su piani diversi, anche se con possibilità di osmosi fra un piano e l’altro: in basso si situa il nucleo più numeroso, formato da quanti partecipano dell’atmosfera di idee e di sentimenti, cioè simpatizzano con l’estremismo di sinistra prendendo parte a scioperi e a cortei, e forniscono il «materiale umano» per la socializzazione del pensiero; in mezzo stanno i rivoluzionari di professione, cioè i membri dei collettivi, quelli delle spranghe, delle molotov e dei servizi d’ordine; al vertice, infine, vengono i terroristi in senso stretto.
5. Partito e Movimento
La nascita delle BR apre lo scenario del terrorismo di sinistra in Italia (53). Siamo nel 1970, ma soltanto con il sequestro del giudice Mario Sossi, il 18 aprile 1974, esse incominciano a incutere paura. Il «nucleo storico» delle BR prende l’avvio, alla fine degli anni Sessanta, presso la facoltà di sociologia dell’università di Trento, dove il processo di «distillazione» di rivoluzionari di professione — nel caso concreto Renato Curcio, Margherita Cagol, Mauro Rostagno e Marco Boato — avviene in vitro: accanto alla città reale, di forte tradizione cattolica ma immersa in una profonda apatia culturale, nasce la «città del pensiero» universitaria, che diventerà presto la fucina della Rivoluzione (54). Renato Curcio e compagni scendono a Milano e nel 1969 fondano il CPM, il Collettivo Politico Metropolitano, in cui confluiscono i comitati unitari di base della Sit-Siemens e pochi altri transfughi dalla FGCI dell’Emilia.
Dopo breve tempo segue la fondazione delle BR, struttura clandestina che recluta i rivoluzionari di professione nell’ambito delle altre organizzazioni di sinistra. E accanto alle BR si sviluppano presto molti altri nuclei terroristici: nell’ambito dell’identico filone marxista-leninista tali organizzazioni si distinguono perché aderiscono sostanzialmente a due diverse concezioni strategiche: «Al di là delle molteplici distinzioni teoriche, la differenza essenziale tra i due filoni consiste nel diverso modo d’intendere il rapporto tra Partito e Classe, tra il ruolo dell’“avanguardia cosciente” e organizzata e la spontaneità delle masse» (55). Le BR — insieme alla loro versione operaista, cioè a PL, Prima Linea — sono un «nucleo d’acciaio» di rivoluzionari di professione. Esse, infatti, intendono essere assolutamente fedeli alla dottrina dell’azione elaborata da Vladimir Iliyc Lenin, così come è esposta in Che fare? (56), in cui si ipotizza appunto un gruppo di rivoluzionari di professione, che consacrano la loro vita alla Rivoluzione e che operano interpretando le istanze del proletariato affinché esso «prenda coscienza». Nella risoluzione strategica del 1978 si legge: «Le Brigate Rosse non sono il Partito comunista combattente, ma un’avanguardia armata che lavora all’interno del proletariato metropolitano per la sua costruzione» (57).
Anche a proposito delle azioni più efferate i brigatisti rossi non mancano mai di rivendicare la propria ortodossia ideologica e l’intrinseca «moralità» dell’atto terroristico. All’indomani dell’assassinio dell’on. Aldo Moro, due capi storici delle BR dichiarano dal carcere: «Non accettiamo le leggi, non accettiamo lo Stato, denunciamo questo Stato come strumento di una classe. In questo senso diciamo (citando da Lenin) che per noi non esiste una moralità presa fuori dalla società umana: sarebbe un inganno; per noi la moralità dipende dagli interessi della lotta di classe del proletariato; la morale è ciò che serve a distruggere la vecchia società sfruttatrice. In questo senso noi affermiamo che l’atto di giustizia rivoluzionaria, esercitato nei confronti di Moro… è il più alto atto di moralità possibile in questa società divisa in classi […]» (58).
Se quella delle BR è una scelta radicale pensata «scientificamente», altri gruppi dell’estrema sinistra navigano a lungo fra la teoria e la pratica della violenza di massa, dopo l’esperienza maturata durante le rivolte del 1968 e del 1969 (59). Nei collettivi si discute «se la rivoluzione deve essere armata o meno», e da essi usciranno i militanti del partito armato; emblematico, al riguardo, il caso di LC, Lotta Continua, che, dopo aver approvato, in un primo tempo, nel 1972, la scelta della militarizzazione, torna poi a predicare la Rivoluzione senza terrorismo, provocando così una spaccatura che porta alcuni militanti alla fondazione dei NAP, i Nuclei Armati Proletari (60).
Altro fenomeno di estremo interesse è quello costituito da Autop, Autonomia Operaia, vivaio di non pochi protagonisti della lotta armata (61), e che rappresenta il secondo grosso filone del terrorismo.
Autop nasce nella primavera del 1973 dalle ceneri del disciolto Potop, Potere Operaio, raccogliendone integralmente l’eredità. A livello ideologico-strategico Potop/Autop parte dallo stesso soggetto politico delle BR, cioè la classe operaia. Ma la differenza è profonda: nelle BR la struttura organizzativa precede l’azione rivoluzionaria; nell’area di Autop essa invece segue l’azione, sì che la strategia di Autop prevede appunto l’eversione diffusa della classe operaia contro lo Stato, cioè prevede l’illegalità di massa (62). Come spiega Toni Negri, capo carismatico di Potop/Autop, il partito «è un ordine religioso combattente, non la totalità ecclesiale del processo» (63): efficace metafora che esprime la funzione sussidiaria, a un più alto grado di «autocoscienza», del partito nei confronti della Rivoluzione, cioè una funzione di coordinamento, di continua interazione fra organi periferici e organo centrale.
La forma della lotta operaia è l’insurrezione, cioè la costruzione graduale del «contropotere proletario» attraverso la «distruzione molecolare, determinata, continua di tutti i gangli dell’organizzazione statale» (64). Il partito è il momento offensivo della lotta, il «soggetto della lotta d’attacco, dell’aggressione al comando» (65). Poiché l’eversione di massa va attuata a tutti i livelli dell’establishment capitalista, il partito «difenderà» l’azione proletaria non solo dagli «ufficiali» del sistema, ma anche dai suoi «sottufficiali», cioè da quanti rendono possibile il funzionamento del sistema stesso pur senza guidarlo: «Essi [i «sottufficiali»] sono imputabili perché esistono, perché il loro mero esistere è il presupposto della violenza organizzata del dominio. Contro costoro (e non solo contro i ministri e i generali) […] va esercitata la violenza e il terrore rivoluzionario» (66).
Se così si esprimeva Potere operaio, non diverso è il messaggio che emerge dai numeri di Rosso, la rivista di Autop. E, come avverte in proposito Mario Ferrandi scrivendo a Toni Negri, «scripta manent, magari la stessa pubblica accusa provvederà a mostrarteli» (67).
In questo modo, secondo il meccanismo già descritto, attorno ad Autop si cristallizzano numerosi gruppi terroristici (68). Altri «autonomi» vanno a ingrossare le fila di PL e, soprattutto, delle BR, come nel caso di Valerio Morucci e di Adriana Faranda.
Intanto gli anni passano e lo slancio utopico dei primi fermenti della contestazione svanisce. La primavera del 1977 vede un’improvvisa recrudescenza di scontri violenti e di piazza, e sancisce contemporaneamente l’agonia del movimento, che cede la parola alle armi. Ma il rivoluzionario di professione del 1977 ha mutato aspetto: l’utopia della Rivoluzione culturale, cioè il mito dell’uomo nuovo, è sempre più intrisa di disperazione. I miti del marxismo sono in buona parte crollati sotto le evidenze del «socialismo reale». L’ansia messianica si regge ormai quasi esclusivamente sul polo negativo, cioè sulla distruzione del sistema malvagio, e il mezzo utilizzabile allo scopo sembra essere soltanto uno, cioè la violenza armata. Sempre Mario Ferrandi testimonia molto efficacemente questo mutato stato d’animo: «Ciò che provavo allora verso la città, verso la società è simile all’effetto che dà assumere 250 microgrammi di Lsd girando per un centro urbano. Gli spacciatori coscienziosi ti sconsigliano di farti un “trip” in città, perché rischi di “andare in paranoia” […]. Voglio dire che non mettevo in discussione questo o quell’aspetto della società, dell’organizzazione, ma tutto, tutto. Si sapeva già all’inizio che non avevamo speranza […]. A differenza del tossicomane che vive lo stesso stato di percezione della realtà, noi avevamo deciso di batterci» (69).
L’analisi svolta fino a questo punto ha mostrato il rapporto organico fra il Sessantotto e il terrorismo di sinistra, rivelatosi un rapporto di continuità sia sotto il profilo ideologico che relativamente al processo di produzione e di diffusione del tipo umano costituito dal rivoluzionario di professione. Il quadro necessita di essere completato con alcune precisazioni.
Gli autori che hanno cercato la spiegazione del fenomeno terroristico in fattori esogeni rispetto alla contestazione, si sono trovati di fronte, specialmente dopo le confessioni rese dai terroristi, a fatti incontrovertibili, che hanno messo in evidenza la limitatezza delle loro analisi (70).
Peraltro, la complessità del fenomeno costituito dalla contestazione induce a valutare l’importanza di accadimenti esterni a essa. Ho già sottolineato come, perché possa diffondersi un’ideologia messianico-rivoluzionaria, sia necessaria la presenza di un humus socio-politico idoneo (71). Né vanno sottovalutate altre circostanze che hanno pesato durante gli anni della contestazione, come la tragedia della guerra fra giovani e la logica della ritorsione (72), le parole dei maître à penser e degli «utili idioti» del momento, e soprattutto l’inerzia colpevole e la connivenza di tanti esponenti dell’autorità politica (73).
Non pochi autori hanno creduto di individuare le radici del terrorismo di sinistra nella cultura cattolica e in quella comunista: il Sessantotto, elevando la temperatura sociale — per così dire — avrebbe portato alla estremizzazione e alla «fusione a caldo» delle due Weltanschauung totalizzanti (74). Tale parallelismo non sembra però fondato né sul piano dottrinale né su quello fattuale.
Il connubio fra cristianesimo e comunismo viene teorizzato in quegli anni dalle correnti più spinte della «teologia della liberazione», che combinano la fede cristiana e la prassi marxista nella prospettiva di realizzare la Rivoluzione (75). Il risultato della commistione non è però un «cristianesimo dinamico», al passo con i tempi, ma una nuova ideologia, quella cristiano-rivoluzionaria (76).
Secondo questa corrente la fede non solo è pienamente compatibile con il marxismo-leninismo, di cui essa accetta la chiave interpretativa della vita e della storia della società, ma viene utilizzata come «utopia mobilitatrice di tutte le energie» (77); perciò il cristiano-rivoluzionario «non è rivoluzionario perché è cristiano, ma essere rivoluzionario è il suo modo di essere cristiano» (78); la religione viene ridotta a puro sentimentalismo fideistico e il suo contenuto viene immanentizzato; e il Regno di Dio è la società marxista, il regno dell’uguaglianza.
Tuttavia, le correnti marxisteggianti della teologia della liberazione costituiscono un segno, non la causa dell’ideologia cristiano-rivoluzionaria (79); sono una cartina di tornasole dello sbandamento in atto nella Chiesa, che, di fronte alla crisi della cultura liberal-illuministica e all’irrompere della Rivoluzione culturale marxista e libertaria «inventò la crisi del proprio schema, la crisi della propria cultura» (80). Invece di attingere risposte dall’originale pensiero cristiano, non mancano ambienti cattolici che preferiscono accettare l’analisi sociale marxista, accantonando la dottrina sociale della Chiesa (81); e alla base di questa autodemolizione, che si manifesta negli anni seguenti il Concilio Ecumenico Vaticano II, «vi fu (e vi è) un inguaribile e ingiustificato ottimismo; quell’ottimismo del tutto umano che discende dalla mancanza di coscienza che il male c’è, ed è all’opera tragicamente nel mondo» (82).
Il Sessantotto diventa così, per i cattolici, una grande occasione perduta: il disorientamento dei giovani di educazione cattolica, unito al desiderio di giustizia, non si tradurrà in una più forte consapevolezza della fede cristiana e delle sue capacità di rinnovamento del mondo, ma nell’abbraccio con il marxismo, che si presenta assai più suggestivo (83). Infatti, come afferma il cardinale Joseph Ratzinger, «[…] nell’ideologia marxista si approfitta anche della tradizione giudeo-cristiana, rovesciata però in un profetismo senza Dio; si strumentalizzano per fini politici le energie religiose dell’uomo, indirizzandole verso una speranza solo terrena che è il capovolgimento della tensione cristiana verso la vita eterna» (84).
All’interno di queste tensioni si situa la storia personale di parecchi terroristi, quali Renato Curcio e Margherita Cagol: «Margherita è cattolica praticante, come la madre e le sorelle. Conosce e attiva attraverso la religione la generosità, il sacrificio, il “bisogno di dare”» (85). Tuttavia, «una volta passata al marxismo, le strutture precedenti sembravano non influire più sul suo carattere» (86). Il cattolicesimo viene quindi sostituito dal marxismo. Così è per Renato Curcio: arriva all’università di Trento come cristiano «in crisi, che legge Camus e che non tarderà a dichiarare di non considerarsi più cristiano, bensì marxista» (87).
L’ideologia cristiano-rivoluzionaria non è, dunque, la commistione di due Weltanschauung, bensì il passaggio dalla visione del mondo cattolica a quella marxista, secondo l’aforisma per il quale «soltanto un ateo può essere un buon cristiano» (88).
7. L’«altro» Sessantotto e il terrorismo nero
Esigenze di ordine nell’esposizione — ma non soltanto queste — impongono di trattare a parte temi e avvenimenti che si intersecano con quelli finora descritti. Se sul terrorismo di sinistra la mole degli studi e dei documenti è perfino eccessiva, il contrario avviene per quanto riguarda il terrorismo nero: infatti, soltanto negli anni Ottanta alcuni autori si sono occupati di questo fenomeno, per cui — anche grazie alle istruttorie processuali — è oggi possibile partire da dati di fatto senza la pregiudiziale demonizzazione operata dalla cultura dominante a proposito di tutta una realtà giovanile etichettata come «fascista» (89).
La prima importante constatazione è relativa al carattere eterogeneo dell’eversione nera. Non pochi, fra pubblicisti e magistrati, insistono nel tentarne una reductio ad unum, alcuni prospettando un comune disegno eversivo dei terroristi neri, altri credendo di poter identificare una stessa ideologia neofascista. L’esame dei documenti porta invece ad affermare che, volendo sostenere questa omogeneità, si fa letteralmente di ogni erba un fascio, come quando, a proposito della cultura «di destra», non si distinguono nel suo ambito più culture, che talora sono addirittura in aperta antitesi fra loro (90).
Per questa ragione pare più opportuno parlare di un «fascio» di terrorismi, all’interno del quale si situano tre filoni eterogenei.
A. Il «golpismo» e il terrorismo «stragista»
Lungo l’arco degli anni Settanta, a ogni strage terroristica è stata attribuita pregiudizialmente un’etichetta «fascista»: basti pensare che, su 1.339 attentati — dinamitardi e non dinamitardi — attribuiti alla destra fino al 1980, ne sono stati rivendicati solo 133; e sempre ad ambienti vetero oppure neofascisti è stata imputata una pervicace volontà cospiratrice, mirante al golpe (91).
Di contro, i dati processuali sono al riguardo inconsistenti. Per esempio, la Corte d’Assise d’Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati del fantomatico golpe Borghese, sventato l’8 dicembre 1970 (92).
Purtroppo, non è ancora stata fatta luce sulle stragi, eccettuata quella perpetrata a Milano dall’anarchico Gianfranco Bertoli, colto sul fatto. Gli inquisiti sono stati parecchie centinaia, ma nessuno è stato a tutt’oggi condannato con sentenza irreformabile (93). La giustizia ha individuato soltanto responsabili neofascisti di alcuni attentati minori a treni e a linee ferroviarie. Indicazioni importanti sono a tutt’oggi emerse dalla sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio per la strage alla stazione ferroviaria di Bologna (94). Alla luce delle indagini svolte relativamente a questo eccidio è da annoverare tra i fatti la trama di disinformazione — un autentico «montaggio» — tessuta con precisione e abilità dalla loggia massonica P2 guidata da Licio Gelli attraverso i suoi affiliati del SISMI, il Servizio Informazioni Sicurezza Militare, i generali Giuseppe Santovito e Pietro Musumeci, i colonnelli Giuseppe Belmonte e Stefano Giovannone, quest’ultimo — ora defunto — «vero personaggio chiave della politica italiana nello scacchiere medio-orientale» (95). L’accurato piano di depistaggio dei giudici è volto, fin dall’indomani della strage, ad accreditare un piano terroristico internazionale di gruppi neofascisti italiani, tedeschi e francesi, con il supporto logistico dei cristiano-maroniti libanesi. Così, con l’aiuto dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, vengono «individuati» neonazisti tedeschi addestrati nei campi dei cristiani, ma in realtà preparati negli stessi campi palestinesi (96). Si utilizzano estremisti di destra, controllati dal SISMI, per aprire «piste» d’indagine giudiziaria oppure semplicemente giornalistica (97); si prepara e si colloca una valigia contenente esplosivo e armi sul treno Taranto-Milano, che viene «ritrovata» insieme agli indizi di un pericoloso piano di terroristi della destra internazionale denominato «operazione terrore sui treni» (98).
L’intento perseguito dalla loggia massonica attraverso i servizi segreti era — secondo i giudici — quello «di impedire che i responsabili della strage di Bologna fossero individuati» (99); e tali presunti responsabili vengono identificati in altri neofascisti, rinviati a giudizio insieme ai supposti mandanti, cioè a Licio Gelli e ai suoi complici. Questa sarebbe la chiave che permetterebbe di raccogliere in un unico disegno eversivo tutte le stragi, da quella di piazza Fontana, nel 1969, a quella del rapido 904, nel 1984, nella prospettiva finale del golpe. Si tratta tuttavia di un’ipotesi, sulla cui veridicità sembra lecito nutrire forti dubbi. Infatti, quando dal «teorema» si tratta di passare alle prove, l’anello di congiunzione tra i fatti e le ipotesi è rappresentato troppo spesso soltanto da testimonianze di delatori, cioè di detenuti politici oppure di delinquenti comuni elevati dai mass media al ruolo di «pentiti» con eccessiva rapidità (100).
Di fronte a questa situazione, sembra quindi indispensabile andare oltre i pregiudizi ideologici. In relazione a questo primo filone del terrorismo nero la gravità degli episodi, infatti, contrasta crudamente con l’inconsistenza e la rapida fatiscenza delle interpretazioni (101). Forse — come afferma Mimmo Mignetta, terrorista pentito di destra —, «la verità è che non si vuole che quella stagione venga ricostruita, non si vuole sapere cos’erano e cosa sono i fascisti. A tutti conviene che il nostro mondo rimanga avvolto nel mistero» (102). In ogni caso, i pochi episodi accertati lasciano sospettare l’esistenza di un inquietante iceberg, costituito da importanti centri di potere occulti animatori di misteriosi progetti, il cui settore emerso, cioè appunto la loggia massonica P2, potrebbe verosimilmente rappresentare soltanto la parte più superficiale del montaggio oppure, semplicemente, quella destinata a un’eventuale sconfitta.
B. Il terrorismo di destra
Maggiore importanza, in quanto necessario completamento del quadro del Sessantotto, riveste la conoscenza dell’altro Sessantotto, dal momento che la Rivoluzione culturale prima descritta non costituisce tutto il Sessantotto, non lo esaurisce, benché ne sia la parte più rilevante.
A fronte dell’attiva minoranza di rivoluzionari di professione, la maggioranza dei giovani rimane passiva, seguendo per forza d’inerzia l’avanguardia egemone. Ma, di contro al fenomeno rivoluzionario di sinistra, si organizza un’agguerrita, benché minoritaria, avanguardia di reazione: è la contestazione di destra, che si diffonde soprattutto in ambito studentesco. Da tale contrapposizione nasce una tragica guerra fra giovani fatta di manifestazioni, di scontri, di violenze e costellata di omicidi.
A differenza della Rivoluzione totale propugnata dalla contestazione di sinistra — messianico-rivoluzionaria e, perciò, sostanzialmente unitaria —, la posizione dei giovani di destra si caratterizza come una reazione alla prima, ed è poco preoccupata di essere ideologicamente compatta e convincente. In contrapposizione alla Rivoluzione culturale la reazione di destra è anticomunista, individualista, antiugualitaria e antidemocratica. Il suo riferimento storico è il fascismo, considerato però non tanto dal punto di vista ideologico, quanto come espressione di un tipo umano, letto cioè in chiave eroica, legionaria, come esaltazione dell’individuo; spesso, in questa prospettiva, vi è un richiamo positivo anche al nazionalsocialismo. I riferimenti ideologici sono molteplici e contraddittori: vanno dal tradizionalismo paganeggiante di Julius Evola a quello orientaleggiante di René Guénon, fino allo spiritualismo politico, incarnato da Corneliu Zelea Codreanu, e al «superomismo» di Friedrich Nietzsche, al sindacalismo soreliano e al giustizialismo peronista (103).
A questo punto pare importante mettere in rilievo più che i tratti delle organizzazioni di destra (104), un duplice aspetto che caratterizza la destra giovanile:
– essa non si basa su un’ideologia di tipo messianico-rivoluzionario, non spera in un mondo perfetto, né invoca la distruzione in toto della società esistente;
– nessun filone culturale della destra esprime precise dottrine e prassi della lotta politica. Perciò, molto spesso, i gruppi si aggregano non sulla base di una strategia in qualche modo studiata e ragionata, ma si fondano sul primato della prassi fascisticamente intesa, ossia dell’azione vitalistica e, in quanto tale, ipotizzata come sempre positiva.
Ciò che i vari gruppi hanno in comune, oltre le divergenze ideologiche e — con i limiti indicati — strategiche, è solitamente il riferimento a un tipo umano, e il tipo umano da realizzare è l’eroe, spesso incompreso e perseguitato, fedele all’«idea» e marcatamente individualista (105).
L’azione politica della destra accetta l’utilizzazione della violenza. All’interno delle scuole e nelle piazze si affrontano, quotidianamente, la sinistra costruita nel 1968 — che vuole rapidamente allargare alle scuole l’egemonia conquistata nelle fabbriche — e la destra che reagisce «tenendo la piazza», ossia cercando di mantenere l’agibilità politica: è la guerra all’interno di una generazione giovanile.
Ma, mentre il terrorismo di sinistra — come ho cercato di mostrare — emerge organicamente dalla cultura del Sessantotto, quello di destra si forma piuttosto attraverso una progressiva emarginazione di alcuni militanti dalla lotta politica violenta. Chi è ricercato per violenze commesse sulla parte avversa, entra in latitanza e da qui, insieme ad altri camerati, comincia a compiere azioni terroristiche finalizzate alla punizione del nemico e alla vendetta contro i persecutori, ossia magistrati e uomini della polizia giudiziaria, e contro i delatori. Si assiste, in altri termini, a un progressivo passaggio dalla legalità — e dalla difesa della legalità — all’illegalità, e da questa al terrorismo, vissuto quasi come un destino ineluttabile, come espressione di un’«ultima battaglia». In questo modo cominciano a costituirsi gruppi di consistenza esigua, formati da estremisti passati alla latitanza. Dopo lo scioglimento del MpOn, viene tentata la costituzione di un gruppo terroristico unitario, il cui capo militare è Pierluigi Concutelli, che, nel luglio del 1976, a Roma, uccide il magistrato Vittorio Occorsio: con questo delitto «per la prima volta la destra eversiva intende dichiaratamente colpire un simbolo dello Stato, oltre che consumare una vendetta personale con la punizione pubblica di una persona vista come nemica» (106).
Si tratta dell’azione più clamorosa del terrorismo di destra, ma già nell’autunno del 1976 una serie di arresti lo riduce all’impotenza.
C. Il neo-terrorismo nazionalrivoluzionario
Mentre nella seconda metà degli anni Settanta cessa la pur limitata pericolosità del terrorismo di destra, anche nelle scuole e sulle piazze la sinistra sbaraglia la destra nella guerra fra giovani, e soltanto a Roma e nel Meridione sopravvive un certo equilibrio fra le parti. Intanto si registrano i primi fenomeni di «riflusso» della contestazione. Occorrerà attendere il 1980 per veder rifiorire — e con una certa consistenza — il terrorismo nero, che però si presenta con caratteri radicalmente diversi da quelli della stagione precedente.
Gli osservatori più attenti mettono unanimemente in rilievo la «mutazione» del tipo umano giovanile che si schiera all’estrema destra, e che porta alcuni gruppi di quest’area a una lettura della realtà del tutto parallela a quella dell’estrema sinistra (107).
Dunque, la Rivoluzione culturale del Sessantotto ha condizionato anche la destra giovanile, portandola, in alcuni settori, a una metamorfosi (108), cosicché, per esempio, diventa sostanzialmente impercettibile la differenza fra il giovane di destra nazionalrivoluzionario delle borgate romane dal giovane di Autonomia cresciuto nello stesso ambiente. Lo stato d’animo d’insofferenza radicale verso la realtà quotidiana e la consapevolezza dell’inanità della propria azione politica provocano una crescente disperazione, in parallelo con la condizione esistenziale dei coetanei di sinistra. Il riferimento ideologico non è più quello tradizionale; la rivista Quex, elaborata da terroristi in carcere, «si riconosce in grandissima parte nelle posizioni rivoluzionarie espresse da Freda nella “Disintegrazione del sistema”» (109); la rivista Costruiamo l’azione e il gruppo Terza Posizione si gettano oltre gli schieramenti, invitando Autonomia a lottare insieme per distruggere il sistema (110). Da questi ambienti emergeranno, caratterizzati da un disperato nichilismo, i nuovi terroristi dei NAR, i Nuclei Armati Rivoluzionari, e del MRP, il Movimento Rivoluzionario Popolare (111). In queste realtà talora sopravvive un’eco della precedente tematica eroica — e un poco tanatomane —, ma l’ansia di liberazione del camerata non è ora diversa da quella del compagno: la lotta armata è per entrambi la via disperata che spinge il «desiderio» nel nichilismo. Il neo-terrorismo nazionalrivoluzionario nasce già idealmente sconfitto, scarsamente organizzato e all’interno di uno scenario di forte controffensiva da parte dello Stato, cosicché viene presto debellato, dopo aver lasciato sulle strade la propria scia di sangue.
8. Antropologia del terrorismo
Il terrorismo scaturito in Italia dalla Rivoluzione culturale del Sessantotto sta passando rapidamente dalla cronaca alla storia. Dopo averne descritto — sia pure a grandi linee — la fenomenologia, è forse possibile tentare di identificarne l’intima natura: esso si presenta come ulteriore manifestazione di un processo denominato Rivoluzione gnostica oppure, con termine sostanzialmente equivalente, messianismo rivoluzionario (112). E ogni fenomeno rivoluzionario di tipo gnostico, seppure diverso nella sua espressione ideologica e nelle sue modalità operative, storicamente rivela caratteristiche
sostanziali permanenti così sintetizzabili (113):
a. all’origine dell’episodio rivoluzionario di tipo gnostico sta il senso di insoddisfazione nei confronti dell’esistente unito all’attesa di un mondo nuovo, presente in un determinato gruppo sociale oppure nell’intera società;
b. in un tale momento storico la Rivoluzione gnostica appare come particolarmente seducente in quanto essa è sostanzialmente utopica, odia il presente quasi di per sé e aspira a un mondo perfetto;
c. quest’ansia si traduce in ideologia, con caratteri di religione secolarizzata, «prometeico sforzo di divinizzazione dell’uomo da parte dell’uomo» (114). In presenza di un humus socio-politico favorevole, l’ideologia tenta di realizzarsi attraverso l’azione politica, che diventa la tecnica utilizzata per far trionfare il mito messianico-rivoluzionario proprio dell’ideologia stessa dinamicamente assunta.
Identificando etica e politica, il rivoluzionario di professione si assume il compito — che considera un obbligo — di far trionfare il fine con qualsiasi mezzo. Proprio in questo passaggio è da ravvisare il movente più profondo del terrorismo rivoluzionario: omicidio oppure strage, «purga» oppure genocidio, le differenze sono soltanto quantitative e strategiche. Per questa ragione passa in secondo piano anche l’atteggiamento psicologico del rivoluzionario di fronte all’atto di violenza, sia esso di ripugnanza o di esaltazione, di struggente conflitto interiore o di militare indifferenza. Si comprende perciò come il rivoluzionario di professione non sia necessariamente un terrorista: il terrore è mezzo dell’azione politica, ossia della prassi rivoluzionaria; in altri termini, si teorizza la moralità dell’azione violenta o terroristica molto più spesso di quanto la si pratichi (115).
Poiché il terrorismo costituisce mezzo rispetto al fine rivoluzionario, se l’élite dei rivoluzionari di professione è al potere avrà di fronte due obbiettivi: in un primo tempo, la repressione terroristica per eliminare le resistenze e quindi ottenere il dominio assoluto sul corpo sociale, cioè il «terrorismo situazionale»; in un secondo tempo, l’azione pedagogica per sostituire il sistema tradizionale di valori con quello nuovo proprio dello Stato totalitario e, dunque, per riplasmare il corpo sociale affinché «prenda coscienza» della propria liberazione, cioè il «terrorismo pedagogico» (116).
Se invece il rivoluzionario di professione deve ancora conquistare il potere, imposterà l’azione terroristica al fine di disarticolare le categorie sociali potenzialmente reattive (117) e di porre le premesse psicologiche e militari per l’insurrezione della classe o del popolo, di cui si autoproclama interprete e avanguardia: con le parole di Mario Moretti, leader delle BR, si tratterà di «passare dalla propaganda armata alla rivoluzione» (118).
Sulla base delle caratteristiche illustrate sembra, finalmente, possibile tipizzare il rivoluzionario di professione come homo ideologicus, ossia come uomo a una sola dimensione, precisamente quella ideologica.
L’homo ideologicus, infatti, è prodotto e nutrito dall’ideologia, che rende superabili le contraddizioni entro le quali egli si muove. Così, la contraddizione fra l’idea di giustizia e la pratica del terrorismo è risolta da Maximilien Robespierre: «Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile» (119). Tutto diventa politica, ossia ogni giudizio di valore viene subordinato all’azione rivoluzionaria: per Lev Trotskij «è morale soltanto ciò che prepara il rovesciamento totale e definitivo della bestialità capitalista, e nient’altro. La salvezza della Rivoluzione: ecco la legge suprema» (120); di conseguenza, «il terrore rosso è uno strumento che viene usato contro una classe al tramonto che non vuole tramontare» (121).
Vladimir Iliyc Lenin definisce inequivocabilmente il rapporto fra morale e politica nella prospettiva rivoluzionaria: «Ma esiste una morale comunista? — si chiede — Esiste un’etica comunista? Certo, esiste. […] la nostra etica dipende in tutto e per tutto dagli interessi della lotta di classe del proletariato» (122).
A questo punto sembra di conseguenza possibile dare una risposta al problema del rapporto fra Sessantotto e terrorismo, se cioè esso sia organico oppure stravolgente. Le «grandi contraddizioni» che — secondo Nando dalla Chiesa — caratterizzano la contestazione giovanile in Italia fino a corromperla — cioè il fatto che la teoria si degradi in ideologia, la democrazia in «decisionismo» e la difesa della dignità umana in disprezzo per la vita — non sono il segno dello stravolgimento terroristico della «positività» del Sessantotto (123). Infatti, la Rivoluzione gnostica è intrinsecamente contraddittoria di per sé, per cui non vi è radicalizzazione terroristica, così come non esiste frattura fra il momento utopico e la realizzazione totalitaria nella Rivoluzione francese, nel socialcomunismo oppure nel nazionalsocialismo.
L’aporia della Rivoluzione sta appunto nel fatto che essa può riuscire «a patto, paradossalmente, di non avvenire» (124). Infatti, la Rivoluzione fallisce quando la si può — per così dire — segnare a dito, confrontando ciò che ha realizzato con quanto aveva promesso: in tal caso l’utopia gnostica, espressa come ideologia, si materializza nel GULag e nel terrorismo eversivo e così manifesta la sua vera natura, distruttiva e nichilistica.
9. «Homo ideologicus» e «homo religiosus»
Rimane da risolvere il problema originato dal presunto carattere religioso che — secondo alcuni autori — sarebbe alla base del fenomeno sessantottesco, e che si può esprimere in questi termini: l’homo ideologicus si identifica con l’homo religiosus?
Se la risposta fosse positiva, la violenza e il terrorismo sarebbero una conseguenza dello spirito religioso, in sé, quindi, portatore di prevaricazione e di violenza (125): perciò l’homo ideologicus sarebbe semplicemente la versione secolarizzata dell’homo religiosus, e più precisamente, nel caso in esame, del cattolico «integrale»; di conseguenza, l’alternativa antropologica al rivoluzionario di professione sarebbe costituita dal neoilluminista, «laico» e razionalmente pragmatico.
L’equazione relativa all’homo ideologicus e all’homo religiosus sottende, con ogni evidenza, un pregiudizio proprio della cultura laicista, così descritto da Augusto Del Noce: «consegna del nuovo laicismo è che bisogna essere tolleranti con ogni forma di pensiero, meno che una, quella che si presenta come asserzione di una verità assoluta e definitiva […]» (126).
In realtà, l’homo ideologicus è la figura antropologica del rovesciamento della religiosità operato dalla Rivoluzione gnostica, per cui non si può assolutamente parlare di identità fra i due tipi, ma di contrapposizione irriducibile, evidenziabile attraverso il confronto diretto fra alcuni capisaldi rispettivamente del cattolicesimo e dell’ideologia rivoluzionaria in questione.
Fondamento e ragion d’essere della Chiesa è la persona di Gesù Cristo: nel suo nome il Magistero esercita l’autorità, «insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso» (127); l’ideologia, invece, viene elaborata dalla «chiesa» stessa che la incarna e — come spiega Alain Besançon appunto a proposito del marxismo-leninismo — «è una fede ed è insieme una teoria razionalmente sviluppata» (128). Ma la «fede» rivoluzionaria è cosa diversa dall’ossequio ragionevole a Dio, in quanto «alla base dell’ideologia c’è quello che si conosce, che si sa. Lenin non sa di credere: crede a quello che sa» (129).
Di conseguenza, l’ideologia deve negare qualsiasi limite alla perfettibilità terrena dell’uomo. Quindi, mentre la Rivelazione cristiana individua la limitatezza umana nella dipendenza creaturale, la Rivoluzione gnostica, prima con Jean-Jacques Rousseau e poi con Karl Marx, afferma il dogma dell’innata bontà dell’uomo, che porta alla rivolta prometeica contro Dio: «la critica della religione porta alla dottrina secondo la quale l’uomo è per l’uomo l’essere supremo» (130). Lo sforzo prometeico della Rivoluzione gnostica si traduce in azione politica secondo lo slogan per cui anche «il personale è politico»; e la politica si trasforma in mistica rivoluzionario e diviene metro di giudizio della stessa morale (131). Ogni aberrazione è consentita, e Marco Barbone descrive perfettamente il capovolgimento della morale dell’homo ideologicus: «[…] è stato per me difficile ammettere di aver ucciso un uomo e non di aver esercitato una funzione dell’ideologia» (132). Al contrario, nella visione del mondo cattolica in certo modo «anche il politico è personale», nel senso che l’azione politica è subordinata alla sfera religiosa ed etica, che ne conosce i limiti e ne giudica la moralità.
Infine, il principio ispiratore dell’azione politica rivoluzionaria si rivela essere l’odio, dal momento che l’homo ideologicus — indipendentemente dall’atteggiamento interiore di ogni singolo soggetto rivoluzionario —, proponendosi la distruzione della società malvagia, segue l’aforisma di Vladimir Iliyc Lenin secondo cui l’«odio di un rappresentante delle masse oppresse e sfruttate è in realtà il “principio di ogni saggezza”, il fondamento di ogni movimento socialista e comunista e delle sue vittorie» (133).
L’homo religiosus invece, a imitazione di Gesù Cristo, fonda ogni sua opera — e, quindi, anche l’azione politica — sulle parole di san Giovanni: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore», «Deus Charitas est» (134),
In sintesi, il conflitto irriducibile fra la «religiosità» di tipo ideologico-gnostico e la religiosità cristiana si incarna anche in due opposte antropologie, quella rivoluzionaria, che esalta lo sforzo prometeico dell’uomo, arbitro del bene e del male (135), e quella cristiana, che l’amor Dei porta al riconoscimento del proprio limite e della imperfettibilità della società umana, e quindi al rifiuto del totalitarismo e dell’atto terroristico di «giustizia» contro gli inermi.
10. Gli «anni del desiderio e del piombo» fra nichilismo e riconciliazione
L’icastica definizione di «anni del desiderio e del piombo» — coniata da Vittorio Alfieri, leader della colonna Walter Alasia delle BR e oggi «dissociato» (136) — pare la più efficace per definire quindici anni della storia più recente d’Italia nei quali il desiderio febbrile di cambiamento nel mondo giovanile si è trasformato, attraverso l’abbraccio mortale con l’ideologia, in piombo.
Ma il bilancio del Sessantotto non si esaurisce nella sconfitta — ideale prima che militare — del terrorismo, dal momento che — oltre ad aver coinvolto il modo di pensare e di vivere di un’intera fascia giovanile — i suoi effetti si estendono alle nuove generazioni.
L’esito più evidente è costituito dall’esaltazione del pragmatismo, del riflusso e del disimpegno politico seguita agli anni del gramsciano «tutto è politica». Ma si tratta soltanto dell’aspetto superficiale di una trasformazione più profonda per cui una generazione — scagliandosi contro le degenerazioni illuministiche e liberali di una società che vive ancora alimentandosi di valori propri della tradizione cristiana — ha, nello stesso tempo, smarrito la memoria storica necessaria a conservare consapevolmente e quindi a trasmettere tali valori ereditati. In altri termini, combattendo la sclerotizzazione e l’inincidenza di un patrimonio di verità, non ha contemporaneamente coltivato e sviluppato la capacità di comprendere i contenuti di tale patrimonio e di trasmetterli. Ed ecco il risultato: mentre negli anni Settanta i modelli di comportamento rivoluzionari si sono sostituiti a quanto rimaneva di quelli tradizionali, il riflusso segna il rinnovato predominio di quel «laicismo illuminato» che — promulgando le «leggi» sul divorzio e sull’aborto — ha istituzionalizzato alcune istanze — e fra le più corpose — della Rivoluzione culturale (137). Di conseguenza la nuova generazione «ritiene ciò che sussiste come ciò che non può non essere accettato» (138).
Accanto al riflusso dei più rimane anche la disperata autodistruzione di quanti — e non sono pochi —, non rientrati nei ranghi del conformismo, scompaiono dalla scena della vita passando «dall’esaltazione al suicidio» (139). La testimonianza di Marco Riva è, a riguardo, un grido di disperazione che non può non trascinare al compatimento: «Avrei tanto voluto vivere, amare, essere amato. Non è stato il rifiuto della vita, ma l’impossibilità di vivere, di vivere la mia vita, la mia realtà, a farmi scegliere la morte» (140).
Dopo la dissoluzione dei miti e l’esaurimento dell’esaltazione messianica generata dall’ideologia rimane il nulla, di fronte a cui ci si rassegna oppure ci si dispera. Il terrorista è colui che non si rassegna, anche se, a volte, e già disperato: infatti, crollata l’impalcatura ideologica che giustificava il suo agire, il gesto di distruggere vigliaccamente una vita rimane in tutto il proprio squallore tragico e nichilistico.
Purtroppo, le polemiche seguite alle indagini giudiziarie sul caso Ramelli hanno evidenziato una scarsa propensione a riconoscere l’essenza ideologica del Sessantotto e del terrorismo, che si vorrebbe salvare semplicemente condannandone gli «eccessi» e gli «errori», quasi si trattasse di un classico abusus che però non tollit usum (141)!
Anche la sporadica ripresa di manifestazioni studentesche a partire dal novembre del 1985 — oltre la scoperta operazione delle sinistre volta a creare artificialmente un movimento studentesco unitario ampiamente simile alla sua precedente edizione (142) — rende visibile un disagio giovanile tutt’altro che passeggero e superficiale. Si dovrebbe quindi intuire che i problemi delle nuove generazioni — e le nuove generazioni si susseguono incessantemente — non possono essere risolti né esorcizzando il Sessantotto con soporiferi ritorni al «privato» né, tanto meno, riesumando e riproponendo i logori schemi ideologici socialcomunisti e libertari. Come osserva Marco Barbone, «il male si può rimuovere, è vero, ma non basta, perché poi esplode da un’altra parte. Non è forse vero che siamo pieni di morti per eroina? Se i giovani non esprimono il proprio malessere nel conflitto sociale, trovano altri modi: la questione non è risolta» (143).
Ma gli «anni del desiderio e del piombo» chiudono la loro parabola soltanto nel nichilismo, oppure indicano anche la via di una riconciliazione, con sé stessi e con la società?
Un segno positivo sembra venire proprio da non pochi giovani terroristi che, ripudiando pubblicamente l’ideologia rivoluzionaria, indicano la via nella speranza di una rinascita personale nella espiazione, dopo aver distrutta in sé stessi la figura dell’homo ideologicus (144).
Infatti, la riconciliazione orizzontale, cioè quella dell’uomo con gli altri uomini, ha come indispensabile presupposto la riconciliazione verticale, cioè quella dell’uomo con Dio (145). In questa prospettiva, l’homo ideologicus assomiglia all’evangelico «uomo vecchio», la cui morte apre la via a riconoscere che l’unico e reale «uomo nuovo» (146) è l’uomo redento, cosicché ogni riscatto personale e sociale trova nel Redemptor hominis il proprio modello e la propria speranza.
Enzo Peserico
Note:
(1) Cfr. il testo completo della lettera in il manifesto, 9-1-1979. Paul Nizan, scrittore e giornalista francese contemporaneo, membro del partito comunista, si dimette nel 1939 e viene considerato dagli ex compagni traditore e confidente della polizia. Muore in guerra nel 1940. Si può considerare figura rappresentativa di una concezione marxista con forti coloriture esistenzialistiche, nello stesso tempo militante e disperata.
Sul rapporto fra suicidio e Rivoluzione, cfr. ALFREDO MANTOVANO, Il suicidio come esito coerente
del parossismo rivoluzionario, in Cristianità, anno XI, n. 101-104, novembre-dicembre 1983.
(2) Sul caso Ramelli e sulle polemiche sorte dopo gli arresti, cfr. il mio Capire o dimenticare il Sessantotto?, in Cristianità, anno XIII, n. 126, ottobre 1985.
(3) Un esempio: quando, alla fine del 1977, l’azione terroristica delle BR, le Brigate Rosse, era già da tempo svelata nei suoi caratteri ideologici, il Partito Comunista Italiano operava ancora per rimuovere la realtà. Infatti il suo presidente, Luigi Longo, scriveva su l’Unità, del 20-11-1977: «[…] c’è in questi atti [delle BR] — non importa in nome di che cosa e sotto quale etichetta vengano compiuti — una logica che ci è nota, un modus operandi che reca, inconfondibile, il marchio reazionario […]. Di questa strategia, coloro che compiono materialmente l’attentato, non sono che tristi esecutori. In ben altre sedi, italiane ed anche straniere, si elaborano i piani eversivi, si prepara, con evidente “intelligenza politica”, l’attacco alla Repubblica e alla Costituzione». Anche se avversata da altri esponenti dello stesso partito, questa è la tesi ancor oggi prevalente in ambito comunista: cfr. GIAN MARIO BRAVO, L’estremismo in Italia, Editori Riuniti, Roma 1982, pp. 111-144. Sulla stessa linea, da ultimo e con molte pennellate di fantasia, cfr. GIORGIO GALLI, Storia del partito armato, Rizzoli, Milano 1986.
(4) NANDO DALLA CHIESA, Del sessantotto e del terrorismo; cultura politica tra clandestinità e rottura, in il Mulino, anno XXX, n. 273, 1981, p. 63, ma tutto il testo pp. 53-94. Figlio del generale dei carabinieri Carlo Alberto, ucciso a Palermo dalla mafia, Nando dalla Chiesa è docente di sociologia all’università Bocconi di Milano e si situa in area culturale comunista.
(5) Secondo Nando dalla Chiesa, di fronte al Sessantotto, «rispetto al cui segno generale si parte da una valutazione sicuramente positiva» (ibid., p. 56), si pone l’estremismo sessantottesco che, con la sua frangia terrorista, risponde al processo rivoluzionario in corso con l’impianto politico veterocomunista, qualificandosi così come una sorta di «malattia senile» del comunismo. Contra, vedi infra, § 8.
(6) Cfr. ROBERTO MAZZETTI, Genesi e sviluppo del terrorismo in Italia. Il maggio troppo lungo, Armando, Roma 1979, pp. 9-20.
(7) Qualcuno è giunto a definire il maggio del 1968 addirittura come la data più importante della storia del secolo XX: cfr. ibid., p. 10.
(8) Cfr. MARIO MARCOLLA, Il crollo dei miti, in AA. VV., Dov’è finito il Sessantotto? Un bilancio per gli anni 80, Ares, Milano 1979, p. 61. Sulla de-moralizzazione delle popolazioni migranti, cfr. FRANCO FERRAROTTI, Alle radici della violenza, Rizzoli, Milano 1979, p. 15. Sulla funzione rivoluzionaria svolta dagli «intellettuali emarginati», prodotti in gran numero dalle «fabbriche universitarie», cfr. LUCIANO PELLICANI, Capitalismo, modernizzazione, rivoluzione, in IDEM (a cura di), Sociologia delle rivoluzioni, Guida, Napoli 1976, pp. 11-43.
(9) M. MARCOLLA, op. cit., p. 61.
(10) Più diffusamente e più organicamente, cfr. FRANCO PALMIERI, Fiori del male. La nuova sinistra dall’esaltazione al suicidio, Ares, Milano 1979, pp. 5-74.
(11) Secondo Herbert Marcuse, la rivolta giovanile è «una ribellione allo stesso tempo morale, politica, sessuale. Una ribellione totale. Essa trova origine nel profondo degli individui. Questi giovani non credono più nei valori di un sistema che cerca di uniformare e di assorbire tutto. Per vivere un’esistenza governata dagli istinti vitali finalmente liberati, i giovani sono disposti a sacrificare molti beni materiali» (Marcuse: manifesto del nuovo Adamo, intervista a cura di Mauro Calamandrei, in L’Espresso, anno XIV, n. 12, 24-3-1968).
Fin dall’inizio della contestazione il momento costruttivo appare manifestamente carente — gli slogan del Maggio francese sono «siate realisti: esigete l’impossibile» e «la fantasia al potere» — e decisamente soverchiato dal momento distruttivo che, qualche anno dopo, finirà per diventare l’unico rovente trait d’union dei gruppi contestatori.
(12) Cfr. RICCARDO SGARBI e GUIDO VIVI (a cura di), Ma l’amor mio non muore, Arcana, Roma 1971.
(13) ANTONIO GRAMSCI, Quaderni dal carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. II, p. 886.
(14) R. SGARBI e G. VIVI (a cura di), op. cit., p. 11.
(15) Ibid., p. 22.
(16) Ibid., p. 31.
(17) Ibidem.
(18) Ibid., p. 47.
(19) Ibid., p. 171. Sul tema, cfr. MASSIMO INTROVIGNE, La rivoluzione della droga e la «filosofia chimica», in Cristianità, anno VI, n. 36, aprile 1978.
(20) Se le «mele del paradiso» e il «gelato di S. Rita» non garantiscono un viaggetto all’Eden, pare assicurino comunque che «si resta in palla per molte ore se non addirittura per un giorno intero», ibid., p .109.
(21) Ibid., p. 250.
(22) Ibid., pp. 253-254.
(23) Moltissimi sono i volumi e gli opuscoli stampati o ciclostilati a livello locale, di quartiere o d’istituto scolastico: altri, nazionali, sono più noti, come, per esempio, Contro la famiglia, Stampa Alternativa, Roma 1970, sequestrato, condannato e poi ripubblicato in edizione interamente aggiornata nel 1976.
(24) Sulle ideologie utopiche, cfr. i saggi raccolti in MASSIMO BALDINI (a cura di), Il pensiero utopico, Città Nuova, Roma 1974. Sulla Rivoluzione sessuale, cfr. M. INTROVIGNE, Le origini della Rivoluzione sessuale, in Cristianità, anno VII, n. 54, ottobre 1979; e IDEM, La gnosi sessuale di Wilhelm Reich, ibid., anno VIII, n. 57, gennaio 1980.
(25) I documenti al riguardo sono innumerevoli. Cfr., per esempio, quella che un leader della contestazione, Guido Viale, ha definito «la più bella canzone del ’68. E la più emblematica»: «Oggi ho visto nel corteo / tante facce sorridenti / le ragazze a quindici anni / gli operai con gli studenti. / Quando poi le camionette / hanno fatto i caroselli / i compagni hanno impugnato / i bastoni dei cartelli. / Ed ho visto le autoblindo / rovesciate e poi bruciate / tanti e tanti baschi neri / con le teste fracassate. / L a violenza, la violenza e la rivolta / chi non c’era questa volta / non sarà con noi domani» (GUIDO VIALE, Il ’68 tra rivoluzione e restaurazione, Mazzotta, Milano 1978, p. 17).
(26) SABINO S. ACQUAVIVA, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, Rizzoli, Milano 1979, p. 36. Come spiega l’autore, i due volti della Rivoluzione fanno emergere «una disfunzione chiara tra il militante socialista e comunista “storico” e quello della nuova sinistra. Quando il comunista della sinistra storica dice: “si deve fare la rivoluzione, cambiare il mondo”, lo dice all’interno di una non priorità, di una subordinazione della rivoluzione interiore, individuale. Nell’altro campo la rivoluzione come fatto individuale, la liberazione sessuale, l’emancipazione dei giovani, del proletariato giovanile e la rivoluzione come fatto politico vanno insieme» (ibid., p. 19).
(27) Il vocabolo tedesco Gesinnung aiuta a definire un «modo di sentire», un atteggiamento interiore, che, nel caso, è fatto insieme di ribellione e di attesa della catarsi rivoluzionaria: cfr. il concetto di Gesinnung nell’approfondimento della dottrina penalistica, in GIUSEPPE BETTIOL, Sul diritto penale dell’atteggiamento interiore, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1971, Giuffrè, Milano, passim.
(28) Vedi infra, § 8.
(29) Non sono mancati i «sapienti maestri» dell’ideologia che hanno enfatizzato la forza rivoluzionaria risultante dalle due tendenze unite. Toni Negri descrive l’happening del Parco Lambro di Milano, nel 1976, come la nascita del «Movimento» dalle ceneri della «grande contestazione» del Sessantotto: il quadro, dipinto con trasporto, presenta una specie di «matassa colorata, avvolgente, tanto densa di desideri quanto scevra di tabù. La gente fumava, faceva all’amore, ascoltava musica, trascorreva dolcemente il tempo nel ritrovarsi, nel sentirsi unita. Ombre leggere alla ricerca di un tempo e di un corpo collettivi» (Pipe Line. Lettere da Rebibbia, Einaudi, Torino 1983, p. 166). Nell’esaltazione dell’«io» collettivo è evidente la prospettiva marxista nella lettura della scuola di Francoforte; l’«io» collettivo è il soggetto della rivoluzione politica: «il personale è politico perché la persona e i suoi valori immediati sono trascinati in una funzione collettiva, responsabilmente collettiva, e là solamente è dato godimento — godimento collettivo del personale […], non istituzione bensì immediatezza collettiva» (ibid., p. 174).
(30) Sul Movimento del ’77, cfr. LUIGI AMICONE, Nel nome del niente. Dal ’68 all’’80 ovvero come si uccide una speranza, Rizzoli, Milano 1983. Sulla «liquidazione» della contestazione da parte del partito comunista e delle forze progressiste che l’avevano alimentata, cfr. GIOVANNI CANTONI, Il PCI e gli «indiani metropolitani» e Il «riflusso», il disimpegno e la liquidazione della contestazione, in IDEM, La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza 1980, pp. 149-164.
(31) Si stimano essere stati oltre tremila i «regolari», cioè i terroristi vero nomine, ai quali occorre aggiungere quanti svolgevano compiti saltuari oppure di fiancheggiamento: cfr. ANGELO VENTURA, Il problema delle origini del terrorismo di sinistra, in DONATELLA DELLA PORTA (a cura di), Terrorismi in Italia, il Mulino, Bologna 1984, p. 114; GIANCARLO CASELLI e DONATELLA DELLA PORTA, La storia delle Brigate rosse: strutture organizzative e strategie d’azione, ibid., pp. 187-189 e 206-207. Secondo il più recente rapporto del ministero degli Interni, dal 1969 al 1986 sono morte in episodi terroristici 415 persone, e 1181 sono state ferite; gli attentati contro caserme di carabinieri, uffici pubblici, carceri, sedi di partito e altri obbiettivi sono stati 14.589; nel solo 1979 sono stati commessi 2.513 atti di violenza politica e i morti sono stati 24; nel 1980 i morti salgono a 125, di cui 85 per la strage alla stazione di Bologna, e gli attentati sono 1.502; fra i 357 attentati, che negli ultimi diciassette anni hanno provocato morti e feriti, il 74,5 % è attribuito all’estrema sinistra, il 7,6 % a organizzazioni neofasciste e il 7 % al terrorismo arabo; alta la percentuale di azioni rimaste indecifrate (cfr. Il Giorno, 4-1-1987). Si tratta soprattutto delle stragi, su cui vedi infra, § 7. Per un quadro statistico dettagliato, sebbene non esauriente, cfr. TULLIO BARBATO, Il terrorismo in Italia negli anni Settanta. Cronaca e documentazione, Bibliografica, Milano 1980; e aggiornamenti sociali, anno XXXIV, n. 6, giugno 1983, pp. 455-473.
(32) Cfr. S . S . ACQUAVIVA, op. cit., Appartenente all’area culturale del Partito Socialista Italiano, l’autore è stato protagonista-vittima della contestazione nella veste di preside di facoltà all’università di Padova. Relativamente allo storico francese, cfr. AUGUSTIN COCHIN, Lo spirito del giacobinismo. Le società di pensiero e la democrazia: una interpretazione sociologica della Rivoluzione francese, trad. it., Bompiani, Milano 1981; e IDEM, Meccanica della Rivoluzione, trad. it., Rusconi, Milano 1971.
(33) S . S . ACQUAVIVA, op. cit., p. 17. Augustin Cochin definisce i tre momenti del processo rivoluzionario francese come socializzazione del pensiero, o stato filosofico; socializzazione della volontà, o stato politico, e socializzazione dei beni, o stato rivoluzionario propriamente detto.
(34) Questo non significa che la rivoluzione sia fallita: infatti, più in profondità si deve rilevare — utilizzando le categorie di Plinio Corrêa de Oliveira — che in entrambi gli episodi storici — fatte le debite proporzioni — il processo rivoluzionario è passato dalla «marcia veloc» alla «marcia lenta» (Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. italiana accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 85-86).
(35) S. S. ACQUAVIVA, op. cit., p. 34.
(36) Fin da subito la contestazione ha trovato non soltanto chi la blandiva, ma anche chi a essa suggeriva il da farsi. L’argomento dovrebbe essere oggetto di una specifica ricerca: per significativi esempi, cfr. LUCIO LAMI, La scuola del plagio, Armando, Roma 1977; PIERO DAMOSSO, Quella cultura sposò l’intolleranza, in Avvenire, 24-10-1985; e FABRIZIO DAVERIO, Alla ricerca delle parole perdute, in AA. VV., Dov’è finito il ’68? Un bilancio per gli anni 80, cit., pp. 181-194.
(37) S. S. ACQUAVIVA, op. cit., pp. 35-36.
(38) ALICE GÉRARD, La rivoluzione francese. Miti e interpretazioni (1789-1970), trad. it., Mursia, Milano 1972, p. 9. Sulla produzione del mito in funzione dell’ideologia, cfr. M. INTROVIGNE, La Rivoluzione francese: verso una interpretazione teologica?, in Quaderni di «Cristianità», anno I, n. 2, estate 1985, pp. 3-25.
(39) A. COCHIN, Lo spirito del giacobinismo. Le società di pensiero e la democrazia: una interpretazione sociologica della Rivoluzione francese, cit., p. 49.
(40) Roberto Ognibene, brigatista rosso proveniente dalla FGCI, la Federazione Giovanile Comunista Italiana, rivela che appunto il partito comunista aveva predisposto un’organizzazione paramilitare per contrastare un eventuale golpe. Riguardo all’«eredità» della Resistenza, secondo la stessa fonte il partito comunista «sapeva che molti ex partigiani avevano nascosto le armi, ma non gli diceva di consegnarle; come se nella sua memoria storica ci fosse l’esitazione, direi quasi il rimorso, di privarsi di ogni prospettiva rivoluzionaria. Nelle sezioni il discorso usuale, anche se mai ufficiale, era questo: a Roma facciamo la politica nel Parlamento, ma le armi conviene tenerle ben oliate» (cit. in GIORGIO BOCCA, Noi terroristi. Dodici anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti, Rizzoli, Milano 1985, pp. 86-87). Cfr. anche MICHAEL A. LEDEEN, Lo Zio Sam e l’Elefante rosso, trad. it., SugarCo, Milano 1987, pp. 35-54.
(41) Gli esempi al riguardo, tratti dai racconti dei terroristi, sono numerosi e non mancano intellettuali che — come Pietro Secchia (Lotta antifascista e giovani generazioni, La Pietra, Milano 1973) — elaborano una strategia politica di continuità fra la vecchia e la «nuova» Resistenza. Grande importanza ha anche l’attività editoriale di Giangiacomo Feltrinelli, che muore mentre sabota un traliccio dell’alta tensione: cfr. A. VENTURA, op. cit., pp. 89-93.
(42) S. S. ACQUAVIVA, op. cit., p. 36.
(43) Il Sabato, anno VI, n. 10, 5-3-1983, Lettera a una professoressa è il noto pamphlet antiautoritario di don Lorenzo Milani (L.E.F., Firenze 1967), sul quale, globalmente, cfr. DOMENICO MAGRINI, Don Lorenzo Milani. Trame sinistre all’ombra dell’altare, Civiltà, Brescia 1983.
(44) Cfr. S. S. ACQUAVIVA, op. cit., pp. 67-69.
(45) Sulla funzione psicologica svolta dalle «parole-talismano», cfr. P. CORRÊA DE OLIVEIRA, Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo, trad. it., Edizione de L’Alfiere, Napoli 1970.
(46) MARCO BARBONE, Io, Marco Barbone, intervista a cura di Roberto Fontolan e Massimo Romano, in Avvenire, 2-2-1984.
(47) S. S. ACQUAVIVA, op. cit., p. 65.
(48) Cfr. G. BOCCA, Il terrorismo italiano 1970-1980, Rizzoli, Milano 1981, pp. 16-17; e l’intervista al brigatista rosso Franco Bonisola, in Corriere della Sera, 6-10-1985: «In fabbrica, per esempio, c’erano tensioni tra operai e dirigenti industriali […]. Da lì maturavano le nostre azioni contro capi e dirigenti. Erano gli operai, quasi sempre, a indicarne i nomi, gridandoli ripetutamente nei cortei, scrivendoli sui muri e in mille altri modi. Il sindacato non riusciva a controllare queste tensioni che spesso nascevano dal suo interno e con le quali era costretto a fare i conti».
(49) M. BARBONE, intervista cit.
(50) Ibidem.
(51) G. BOCCA, Noi terroristi. Dodici anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti, cit., p. 127.
(52) Il Sabato, anno VIII, n. 40, 5-10-1985.
(53) Sull’organizzazione e sulla strategia delle BR, cfr. G. CASELLI e D. DELLA PORTA, op. cit., pp. 153-221.
(54) L’università di Trento è il luogo dell’esperimento in vitro della Rivoluzione culturale nascente: voluta nel 1962 dalla Democrazia Cristiana e accettata dalla gerarchia ecclesiastica locale, dopo i primi insuccessi viene affidata a Francesco Alberoni e alla scuola psicosociologica che si ispira alla new left americana. Francesco Alberoni è l’apprendista stregone — o il «sapiente maestro»? — dell’esperimento: nell’anno accademico 1967-1968 si inaugura la «contro-università» e ai libri delle materie ufficiali vengono sostituiti i testi ideologici dei contro-corsi su Il Vietnam o La Rivoluzione culturale. Per un’accurata documentazione, cfr. ALESSANDRO SILJ, «Mai più senza fucile!». Alle origini dei NAP e delle BR, Vallecchi, Firenze 1977, pp. 33-68. Sul composito universo studentesco di Trento, che raccoglieva «devianti» di tutta Italia, cfr. ALDO RICCI, I giovani non sono piante, SugarCo, Milano 1978.
L’episodio di Trento mostra il connubio fra l’ottimismo liberale e illuministico e il modernismo cattolico, politico ed ecclesiastico, confermando che tali culture costituiscono premesse per la Rivoluzione marxista e, comunque, per la secolarizzazione della società. Per una lettura «dietro le quinte» della genesi del fenomeno contestativo, che comprende l’azione dell’alta finanza americana e di quella italiana, cfr. MAURIZIO BLONDET, Gli antenati insospettati della contestazione, in AA. VV., Dov’è finito il ’68? Un bilancio per gli anni 80, cit., pp. 65-86; e IDEM, Risposta a Giorgio Galli, ibid., pp. 241-261.
(55) A. VENTURA, op. cit., pp. 107-108.
(56) Cfr. VLADIMIR ILIYC LENIN, Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento, in IDEM, Opere scelte in sei volumi, vol. I, Editori Riuniti – Edizioni Progress, [Roma-Mosca] s.d., pp. 246-394.
(57) Cit. in A. VENTURA, op. cit., p. 110.
(58) Cit. in R. MAZZETTI, op. cit., p. 13.
(59) Cfr. A. VENTURA, op. cit., pp. 117-118; M. BARBONE, intervista cit.; e FABRIZIO PECI, Io, l’infame, a cura di Giordano Bruno Guerri, Mondadori, Milano 1983.
(60) Su LC, cfr. LUIGI BOBBIO, Lotta Continua. Storia di un’organizzazione rivoluzionaria, Savelli, Roma 1979; sui NAP, cfr. A. SILJ, op. cit., pp. 99-156.
(61) Secondo Mario Ferrandi, addirittura il 90% dei terroristi proveniva da Autop: cfr. la sua Lettera dal carcere a Toni Negri, in Il Sabato, anno VI, n. 38, 17-9-1983.
(62) La storia di Potop e di Autop è stata ormai sviscerata dalle indagini giudiziarie e si basa su un copioso materiale documentario. Angelo Ventura, nel suo saggio citato, si sforza di mostrare il perfetto parallelismo fra BR e Potop/Autop: la tesi è condivisibile nel senso che le BR trovano in Potop e nel movimento di Autonomia un consistente serbatoio di reclute, ma non sembra esatto sotto il profilo strategico in quanto il «salto di qualità compiuto dalle BR — che passano dagli atti terroristici tesi a guadagnare il consenso operaio agli atti di guerra per disarticolare il sistema — provoca un irrigidimento antiterroristico nelle masse, che impedisce ad Autop di realizzare la sua strategia insurrezionalista. Sul punto, cfr. la posizione espressa in T. NEGRI, Pipe Line. Lettere da Rebibbia, cit., p. 201.
(63) ANTONIO [Toni] NEGRI, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli, Milano 1978, p. 62.
(64) IDEM, cit. in A. VENTURA, op. cit., p. 129.
(65) IDEM, Partito operaio contro il lavoro, in AA. VV., Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano 1974, p. 149.
(66) I proletari seguono la regola: castigane uno educane cento (Lenin), art. non firmato in Potere operaio, cit. in A. VENTURA, op. cit., p. 129, nota 115.
(67) M. FERRANDI, Lettera dal carcere a Toni Negri, cit.
(68) Per esempio, Formazioni Comuniste Combattenti, Collettivi Politici Veneti e Milanesi, Proletari Armati per il Comunismo, Brigate XXVIII Marzo, e così via.
(69) M. FERRANDI, Così iniziai banalmente a sparare, in Il Sabato, anno VI, n. 10, 5-3-1983.
(70) Cfr., per esempio, l’interpretazione psicosociale in GABRIELE CALVI e MASSIMO MARTINI (a cura di), L’estremismo politico. Ricerche psicologiche sul terrorismo e sugli atteggiamenti radicali, Franco Angeli, Milano 1982; oppure la spiegazione, in termini di rapporto fra emarginazione e terrorismo, in FRANCO FERRAROTTI, Alle radici della violenza, Rizzoli, Milano 1979, respinta in G. CASELLI e D. DELLA PORTA, op. cit., pp. 200-201.
(71) Su tale humus socio-politico e, in particolare, a proposito dell’area di Autonomia, cfr. A. VENTURA, op. cit., p. 113.
(72) Vedi infra, § 7.
(73) Basta una scorsa alla stampa del tempo per raccogliere un florilegio di faziosità. Nell’aprile del 1975, mentre Sergio Ramelli agonizza, in un corsivo di prima pagina sul Corriere della Sera — allora diretto da Piero Ottone — si può leggere: «Ogni vigilia elettorale porta gli attentati e le provocazioni dei fascisti, come porta alle stolide imprudenze di gruppuscoli velleitari di estrema sinistra» (17-4-1975); nello stesso periodo L’Espresso, che fin dall’inizio cavalca la tigre della contestazione, per la penna di Giorgio Bocca rimbrotta affettuosamente la sinistra extraparlamentare, definendo i militanti di LC «dei rompiscatole insuperabili» (anno XXI, n. 15, 13-4-1975). E la bonaria definizione si attaglia forse a quanti sono allora rimasti in tale movimento, ma certo non a quanti, proprio nel 1975, passano alla pratica della lotta armata (vedi nota 61): ma il redattore de L’Espresso non se ne accorge, e il giornalista «pentito» è un soggetto raro! Eppure — ammette oggi Minam Mafai, presidente della Federazione Nazionale della Stampa — «noi giornalisti … non vedemmo né capimmo tutto quello che potevamo capire e vedere. Non vedemmo e non capimmo in tempo questo passaggio aspro tra il ’68 e ciò che veniva dopo. Non lo capimmo nemmeno di fronte al cadavere di Feltrinelli dilaniato sotto il traliccio di Segrate. L’ipotesi del “complotto” ci fece scrivere per anni “le sedicenti BR”, ci fece irridere all’inchiesta del giudice Viola che nel ’72 scopriva in Via Boiardo il primo “carcere del popolo” […]» (cit. in P. DAMOSSO, art. cit.).
Per quanto riguarda il potere politico, un esempio clamoroso è costituito dall’oblio nel quale al ministero degli Interni viene lasciato cadere, nel 1970, il rapporto del prefetto di Milano, Libero Mazza, in cui si documenta per la prima volta la potenzialità sovversiva dell’ultra-sinistra: cfr. il testo completo di tale documento in T. BARBATO, op. cit., pp. 196-198.
(74) Cfr. G. BOCCA, Il terrorismo italiano 1970-1980, cit., pp. 7-16; IDEM, Noi terroristi. Dodici anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti, cit., pp. 40-42; e S. S. ACQUAVIVA, Il seme religioso della rivolta, Rusconi, Milano 1979.
(75) Cfr. SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione su alcuni aspetti della «teologia della liberazione» «Libertatis nuntius», del 6-8-1984; e IDEM, Istruzione su libertà cristiana e liberazione «Libertatis conscientia», del 22-3-1986.
(76) Cfr. P. BLANQUART e L. BEIRNAERT, Fede cristiana e rivoluzione, in AA. VV., Verso una teologia della violenza?, trad. it., Queriniana, Brescia 1969, p. 176: «Il cristiano vive così il suo rapporto con la rivoluzione, […] attraverso un’ideologia spontaneamente armonizzata con l’azione: un’ideologia cristiana rivoluzionaria, punto d’incontro intellettuale tra la sua fede e la sua scelta politica razionalmente fondata, luogo in cui si ritrova nella sua totalità perfettamente a suo agio».
(77) GUALBERTO GISMONDI, Terrorismo e coscienza cristiana, Gribaudi, Torino 1979, p. 119.
(78) P. BLANQUART e L. BEIRNAERT, op. cit., p. 174.
(79) Molto più forte è la sua influenza in America Latina, dove il guerrigliero marxista si produce quasi esclusivamente passando attraverso l’ideologia cristiano-rivoluzionaria, estremamente diffusa all’interno delle «comunità di base» del cattolicesimo centro e sudamericano: cfr. ANTONIO AUGUSTO BORELLI MACHADO, Le Comunità Ecclesiali di Base in Brasile: una crociata senza croce, in Cristianità, anno X, n. 92, dicembre 1982.
(80) EMANUELE SAMEK LODOVICI, I cattolici nella tempesta, in AA. VV. Dov’è finito il 68? Un bilancio per gli anni 80, cit., p. 138.
(81) Non bisogna inoltre dimenticare che l’identificazione, dal dopoguerra in avanti, dell’azione politica cattolica con quella modernista della Democrazia Cristiana, impedisce la presenza di un’alternativa politica e sociale realmente espressione della cultura cattolica e capace di coagulare intorno a sé anche le attese giovanili. Sulla «questione democristiana», cfr. G. CANTONI, op. cit., soprattutto pp. 33-54.
(82) E. SAMEK LODOVICI, I cattolici nella tempesta, cit., p. 149. Lo stesso concetto è confermato autorevolmente in JOSEPH RATZINGER, Rapporto sulla fede, intervista a cura di Vittorio Messori, Edizioni Paoline, Torino 1985: «[ …] da parte di molti cattolici c’è stato in questi anni uno spalancarsi senza filtri e freni al mondo, cioè alla mentalità moderna dominante, mettendo nello stesso tempo in discussione le basi stesse del depositum fidei che per molti non erano più chiare» (p. 34).
(83) Per esempio GS, Gioventù Studentesca, si sfascia quasi completamente «fornendo — secondo il terrorista Roberto Semeria — alla sovversione gran parte dei quadri» (cit. in G. BOCCA, Noi terroristi. Dodici anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti, cit., p. 40). Monsignor Luigi Giussani, animatore di GS e fondatore di CL, Comunione e Liberazione, individua con chiarezza la causa principale della ferita profonda subita dal suo movimento: «La nostra tentazione è l’utopia. Intendo per utopia qualcosa ritenuto buono e giusto da realizzare nel futuro, la cui immagine e il cui schema di valori è creato da noi […]. Nel ’68 […], perché ormai l’unica cosa che si stimava era il progetto culturale e politico, i più scivolarono e tradirono. Che cosa tradirono? La presenza: il progetto aveva sostituito la presenza, l’utopia l’aveva scalzata» (cit. in L. AMICONE, op. cit., pp. 53-54).
(84) J. RATZINGER, op. cit., p. 201.
(85) IDA FARÈ e FRANCA SPIRITO, Mara e le altre. Le donne e la lotta armata: storie, interviste, riflessioni, Feltrinelli, Milano 1979, p. 27.
(86) Ibid., p. 31.
(87) A. SILJ, op. cit., p. 184. La formazione cattolica di Renato Curcio durante le scuole medie superiori manifesta quelle contraddizioni che diventeranno in seguito la drammatica caratteristica del postconcilio: «Il direttore dell’Istituto Ferrini, ad Albenga, era un prete — quel don Lasagna al quale Curcio era molto legato. Ma questo prete leggeva Marx, sosteneva che Lenin era uno dei massimi pensatori moderni, e negli anni precedenti la sua morte (avvenuta quando aveva 48 anni, nel 1966) maturava il proposito di abbandonare la Chiesa» (ibid., p. 185).
(88) ERNST BLOCH, Ateismo nel cristianesimo, trad. it., Feltrinelli, Milano 1976, p. 32; cfr. anche GIANFRANCO MORRA, Marxismo e religione, Rusconi, Milano 1976.
(89) Cfr., per esempio, FRANCO FERRARESI, La destra radicale, Feltrinelli, Milano 1984; IDEM, La destra eversiva, in D. DELLA PORTA (a cura di), op. cit., pp. 227-292; ROSARIO MINNA, il terrorismo di destra, ibid., pp. 21-74; AA. VV., L’eversione di destra a Roma dal ’77 a oggi: spunti per una ricostruzione del fenomeno, in Questione giustizia, n. 4, 1983, pp. 935-979; e MONICA ZUCCHINALI, A destra in Italia oggi, SugarCo, Milano 1986.
(90) Sulle diverse culture di destra, considerate in rapporto al fascismo, cfr. G. CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a P. CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit., pp. 19-29.
(91) Il fatto è notorio e basta scorrere quotidiani e periodici degli anni Settanta: ben oltre la realtà degli accadimenti si è formata una sorta di «psicosi del golpismo», che ha coinvolto anche magistrati, fino a renderli preda di pericolosi pregiudizi. Per esempio, Rosario Minna, del tribunale di Firenze, a proposito della strage alla stazione di Bologna afferma: «Su questo che è il maggior reato commesso dalla destra in Italia, si è aperta un’istruttoria penale che per le notizie pubblicate appare molto travagliata» (op. cit., p. 70). Il che è come scrivere: «non si sa chi è stato, ma ve lo dico». Un giudice di Bologna, dal canto suo, accusa l’ordinovista Massimo Batani di concorso in strage per l’attentato al treno Italicus, ma dimentica di averlo egli stesso fatto arrestare tre mesi prima dell’attentato (cfr. Il Sabato, anno VIII, n. 1, 5-1-1985).
(92) Che sia esistita a destra una mentalità golpista, soprattutto in ambienti di ex aderenti alla Repubblica di Salò, è indubbio, ma che si sia potuta tradurre in progetto non velleitario è assolutamente improbabile, fra l’altro perché — come osserva Giorgio Bocca — «[…] i servizi che rappresentano in Italia gli interessi della potenza imperiale e del comando della NATO non vogliono spingere il gioco oltre un certo limite: la Democrazia Cristiana non sembra sostituibile come partito di governo» (G. BOCCA, Il terrorismo italiano 1970-1980, cit., p. 53).
(93) Per la strage di Brescia — l’unica «mirata» in senso politico, in quanto l’ordigno esplode mentre era in corso un comizio sindacale —, il processo di primo grado si è concluso con la condanna all’ergastolo di Ermanno Buzzi, un mitomane neonazista poi ucciso in carcere da Pierluigi Concutelli e da Mario Tuti, due terroristi neri, in quanto da essi considerato un «indegno» e una «losca figura» (Corriere della Sera, 10-2-1987). Il dibattimento di secondo grado si è concluso con l’assoluzione per insufficienza di prove dell’imputato per strage Cesare Ferri, il 23 maggio 1987.
Per la strage di piazza Fontana, dopo diciassette anni di inchieste tutti i processi si sono definitivamente chiusi con l’assoluzione degli imputati, mentre per la strage del treno Italicus la Corte d’Assise d’Appello di Bologna ha ribaltato la sentenza assolutoria di primo grado, comminando due condanne all’ergastolo a estremisti neofascisti.
Per l’eccidio alla stazione di Bologna è in corso il dibattimento di secondo grado.
(94) Cfr. GIUSEPPE DE LUTIS (a cura di), La strage. L’atto d’accusa dei giudici di Bologna, Editori Riuniti, Roma 1986.
(95) Ibid., p. 245.
(96) Cfr. ibid., pp. 228-248.
(97) Per esempio, Marco Affatigato — latitante in Francia, ma controllato dai servizi segreti, che gli commissionano perfino la stesura di un proclama insurrezionale pre-golpistico — viene dato per morto nell’incidente aereo di Ustica — dove, nell’estate del 1980, è misteriosamente esploso in volo un DC 9 — e quindi fatto riapparire, all’indomani della strage, nell’identikit del presunto responsabile dell’eccidio! (cfr. ibid., pp. 248-254).
(98) Ibid., pp. 260-274.
(99) Ibid., p. 273.
(100) Per esempio, nel corso del dibattimento del processo di secondo grado per la strage di Brescia, il «pentito» Angelo Izzo ha ritrattato le affermazioni che accusavano della strage il neofascista Cesare Ferri, dopo averle confermate e ribadite per ben ventotto volte davanti ai giudici istruttori, spiegando di aver raccontato quelle «falsità» per «timore di un nuovo arresto» (Corriere della Sera, 3-2-1987).
(101) Il mistero del terrorismo dinamitardo e stragista è veramente inquietante. Alcuni autori hanno tentato di chiarirlo denunciando progetti destabilizzatori di carattere internazionale, attribuiti soprattutto a servizi segreti oppure a centri di potere della «destra capitalista» (cfr., per esempio, G. GALLI, La Destra in Italia, Gammalibri, Milano 1983, p. 49), ma senza nessun riscontro fattuale. Attenendosi ai fatti, sono possibili alcune considerazioni di genere: fra le sigle usate dai terroristi dinamitardi ve n’è una particolarmente enigmatica, Ordine nero. Questo gruppo compare nel 1974 e «sparisce» nel 1976; gli sono attribuiti trentadue attentati, fra cui la strage di Brescia e quella del treno Italicus. Il giudice Rosario Minna lo definisce «misteriosissimo» (op. cit., p. 52): ci si può chiedere come mai, pur avendo l’area dell’eversione nera espresso numerosi pentiti, ancora oggi poco o nulla si sappia di questa organizzazione. Anche questo caso richiama l’attenzione sull’opera dei servizi segreti italiani e dell’ufficio Affari Riservati del ministero degli Interni (cfr. F. FERRARESI, La destra eversiva, cit., pp. 259-260).
(102) MIMMO MIGNETTA, Il fascista convertito, intervista a cura di Alessandro Banfi, in Il Sabato, anno VIII, n. 10, 9-3-1985.
(103) Per una rapida disamina, cfr. F. FERRARESI, La destra eversiva, cit.; circa l’influenza del pensiero evoliano sulla destra politica italiana del dopoguerra, cfr. M. ZUCCHINALI, op. cit., pp. 29-89.
(104) Fra le più importanti, il FdG, Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale; ON, Ordine Nuovo, guidato da Pino Rauti e da Clemente Graziani — il primo nel 1969 rientra nel MSI, mentre il secondo raduna i «dissidenti» e fonda il Movimento politico Ordine nuovo, MpOn, condannato nel 1973 per ricostituzione del partito fascista —; AN, Avanguardia Nazionale, diretta da Stefano Delle Chiaie — fondata nel 1960, sciolta e poi rifondata nel 1970, nel 1976 subisce la stessa sorte del MpOn (cfr. F. FERRARESI, La destra eversiva, cit., pp. 240-242 e 255-269).
(105) Nell’insegnamento di Julius Evola, uomo di destra è chi sa scegliere la via più dura, che continua a combattere anche sapendo che la battaglia è ormai perduta, perché — secondo l’antico detto «fedeltà è più forte del fuoco» — infine vince chi ha «il senso dell’onore o dell’onta»; e questa concezione «crea una differenza sostanziale, esistenziale fra gli esseri, quasi come fra una razza e un’altra razza» (Orientamenti, 2a ed. riveduta, Edizioni Europa, Roma 1971, p. 7).
(106) R. MINNA, op. cit., p. 62; cfr. anche le testimonianze raccolte in MASSIMO ROMANÒ, «Mi ricordo, ero in guerra», in Avvenire, 25-10-1985.
(107) Rosario Minna sostiene che i giovani «respirano un’aria generale che dopo il 1970 è ormai di rottura irresolubile con il passato», cioè con il conservatorismo e con l’etica tradizionale (op. cit., p. 60); Franco Ferraresi rileva «il ricambio generazionale e l’esplosione del giovanilismo che comporta l’instaurarsi di una certa corrispondenza fra estremismo nero e la nuova contestazione di sinistra», cioè quella di Autonomia (La destra eversiva, cit., p. 270). Cfr. anche MARIO BACCIANINI e LUIGI FENIZI, La Nuova Destra, in MondOperaio, anno 39, n. 7, luglio 1986, p. 44.
(108) Così sommandosi a una tendenza già presente nell’area di destra dall’inizio della contestazione e che propugnava fin da allora un’alleanza con la sinistra contro il sistema e una sorta di socialismo nazionale rivoluzionario: cfr. alcuni spunti interessanti in GIUSEPPE BESSARIONE, Lambro – Hobbit. La cultura giovanile di destra in Italia ed in Europa, Arcana, Roma 1979; e F. FERRARESI, La destra eversiva, cit.
(109) Cit. in F. FERRARESI, La destra eversiva, cit., pp. 274-275; e FRANCO FREDA, Disintegrazione del sistema, Ar, Padova 1969, pp. 34-59. Le posizioni di Franco Freda sono alquanto sui generis, poiché egli unisce l’ideale di uno stile di vita «superomistico» — un certo tipo di monaco-guerriero pagano — alla dottrina politica nazionalsocialista e a una strategia corrispondente volta ad alleare ogni forza per distruggere il sistema. Quindi, secondo Franco Freda è necessario superare la dialettica tra destra e sinistra per abbattere insieme la società borghese, e questo obbiettivo si raggiunge «attraverso un unico ponte operativo», a patto che «la lotta unitaria al sistema precisi i propri obiettivi in modo radicale […] in quei termini coerenti, drastici e risolutivi che solo la violenza possiede» (ibid., p. 71).
(110) Cfr. AA. VV., L’eversione di destra a Roma dal ’77 ad oggi. Spunti per una ricostruzione del fenomeno, cit.
(111) Cfr. ibidem; e F. FERRARESI, La destra eversiva, cit., pp. 284-285.
(112) Per i rapporti fra terrorismo e ideologia della Rivoluzione, cfr. ROMEO PELLEGRINI PALMIERI, Dottrina e pratica del terrore nella ideologia della Rivoluzione, in Cristianità, anno X, n. 91, novembre 1982; sulla Rivoluzione come categoria «teologica», cfr. P. CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit.; sull’analogia fra i movimenti gnostici dell’antichità e quelli socialisti moderni, cfr. IGOR SAFAREVIC, Il socialismo come fenomeno storico mondiale, trad. it., «La casa di Matriona», Milano 1980, e NORMAN COHN, I fanatici dell’Apocalisse, trad. it., Comunità, Milano 1976; sull’essenza gnostica delle dottrine politiche di Thomas Hobbes, Karl Marx e Friedrich Nietzsche, cfr. ERIC VOEGELIN, La nuova scienza politica, con un saggio introduttivo di Augusto Del Noce su Eric Voegelin e la critica dell’idea di modernità, trad. it., Borla, Torino 1968; e IDEM, Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, trad. it., Rusconi, Milano 1970; pure di estremo interesse, ma in una prospettiva liberalsocialista, L. PELLICANI, I rivoluzionari di professione. Teoria e prassi dello gnosticismo moderno, 2a ed., Vallecchi, Firenze 1976.
(113) Per questa schematizzazione seguo sostanzialmente E. VOEGELIN, Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, cit., pp. 19-22.
(114) L. PELLICANI, I rivoluzionari di professione. Teoria e prassi dello gnosticismo moderno, cit., p. 164.
(115) Cfr. R. PELLEGRINI PALMIERI, art. cit.; così Vladimir Iliyc Lenin, criticando gli estremisti, non li riprova perché immorali, ma in quanto «puerili», quindi non consci dell’importanza tattica del compromesso, e cosi via (L’estremismo, malattia infantile del comunismo, in V. I. LENIN, Opere scelte in sei volumi, cit., vol. VI, Roma-Mosca 1975, pp. 5-83). L’indagine sulla motivazione del gesto terroristico non si deve fermare al momento dell’azione, ma risalire alle cause, come spiega Marco Barbone: «Quello che è difficile capire è che la dimensione ideologica fa perdere il rapporto concreto con la vita e con la morte» (intervista cit.).
(116) «Il terrore, dunque, è la tecnica che esprime appieno il progetto totalitario della Rivoluzione gnostica: dominare tutta la realtà e imporre ad essa i suoi decreti senza limitazioni o freni di sorta» (L. PELLICANI, I rivoluzionari di professione. Teoria e prassi dello gnosticisrno moderno, cit., p. 240); sulla pedagogia del terrore rivoluzionario, cfr. IDEM, Dinamica delle rivoluzioni, SugarCo, Milano 1974; e R. PELLEGRINI PALMIERI, art. cit.
(117) Cfr. R. PELLEGRINI PALMIERI, art. cit.: «l’attacco terroristico è condotto, infatti, mirando al più individuale degli istinti, quello di autoconservazione, e consiste essenzialmente in un continuo ricatto, in cui, a favore delle mire rivoluzionarie, gioca la forza istintuale più potente che il vivente possiede, l’istinto di conservazione nella sua forma più fondamentale e tenace: quella passiva consistente non nel “procurarsi un bene”, ma nel “salvarsi da un male”».
(118) MARIO MORETTI, Io, Moro e le BR, intervista a cura di Giorgio Bocca, in L’Espresso, anno XXX, n. 48, 2-12-1984; cfr. anche le risoluzioni strategiche delle BR, in GIAMPAOLO PANSA, Storie italiane di violenza e terrorismo, Laterza, Bari 1980.
(119) Cit. in JACOB L. TALMON, Le origini della democrazia totalitaria, trad. it., il Mulino, Bologna 1967, p. 159.
(120) LEV TROTSKIJ, La loro morale e la nostra, trad. it., Laterza, Bari 1977, p. 102.
(121) IDEM, Terrorismo e comunismo. Anti-Kautsky, trad. it., Avanti!, Milano 1921 , p. 65.
(122) V. I. LENIN, I compiti delle associazioni giovanili, in IDEM, Opere scelte in sei volumi, vol. VI, cit., pp. 178-179.
(123) Cfr. N. DALLA CHIESA, op. cit., pp. 69-80.
(124) E. SAMEK LODOVICI, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Ares, Milano 1979, p. 113. A proposito del socialismo reale, Augusto Del Noce spiega che esso «è il modo in cui il marxismo che doveva cangiare la storia e creare un’umanità nuova, quanto a dire una superumanità o una realtà “totalmente altra” […], è “rientrato nella storia”: alla condizione di infrangere l’unità tra il motivo utopistico e il realistico-politico, a beneficio del secondo» (Le radici filosofico-politiche dell’ateismo contemporaneo, in Il Nuovo Areopago, anno 2, n. 2, estate 1983, p. 18). Cfr. anche VITTORIO MATHIEU, La speranza nella rivoluzione. Saggio fenomenologico, Rizzoli, Milano 1972.
(125) Cfr., per esempio, l’interpretazione di autori quali L. PELLICANI, rivoluzionari di professione. Teoria e prassi dello gnosticismo moderno, cit.; e S. S. ACQUAVIVA, Il seme religioso della rivolta, cit.; fra gli svariati articoli, cfr. anche ALBERTO MORAVIA, Un terrorismo vecchio di secoli, in Corriere della Sera. 1-11-1977.
(126) A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, il Mulino, Bologna 1964, p. 12.
(127) CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum, n. 10.
(128) ALAIN BESANÇON, Le origini intellettuali del leninismo, trad. it., Sansoni, Firenze 1978, p. 4.
(129) Ibid., p. 8.
(130) KARL MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in KARL MARX e FRIEDRICH ENGELS, Opere scelte, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1976, p. 65. L’asserto di Jean-Jacques Rousseau sull’innata bontà dell’uomo è, secondo Jacques Maritain, l’esito del protestantesimo e del razionalismo e porta a sostenere che «lo stato di sofferenza e di pena è uno stato essenzialmente contro natura, introdotto dalla civiltà, e da cui la nostra natura reclama ad ogni costo che ci affranchiamo» (Tre riformatori: Lutero, Cartesio, Rousseau, trad. it., Morcelliana, Brescia 1979, p. 178). Augusto Del Noce osserva che, in tal modo, la redenzione da parte di Dio è sostituita dal mito dell’autoredenzione da parte dell’uomo: «al fondo del nuovo gnosticismo c’è la negazione del peccato originale, e la sua storia serve a lumeggiare come, posta tale negazione, tutto l’edificio del cristianesimo sia destinato a crollare» (Eric Voegelin e la critica dell’idea di modernità, cit., p. 25).
(131) Questa concezione della politica, inaugurata dai puritani inglesi (cfr. MICHAEL WALZER, The Revolution of the Saints. A study of the Origins of Radica1 Politics, Atheneum, New York 1969), viene esaltata durante la Rivoluzione francese e perfezionata da Vladimir Iliyc Lenin in dottrina dell’azione politica, cioè della prassi rivoluzionaria. I totalitarismi comunisti e quello nazionalsocialista costituiscono gli esempi più drammatici della trasformazione della politica in mistica rivoluzionaria, cioè, secondo Eric Voegelin, in metodo collettivo per trasformare l’essere (Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, cit., pp. 21-22): la politica sostituisce l’ascesi personale nell’itinerario verso Dio e diventa mistica collettiva al punto che — a tale proposito — si è potuto parlare non di scomparsa ma di «spostamento del sacro» (JULES MONNEROT, Sociologia del comunismo, trad. it., Giuffrè, Milano 1970, p. 502).
(132) M. BARBONE, intervista cit.
(133) V. I. LENIN, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, cit., p. 53.
(134) 1 Gv. 4,8.
(135) Il capovolgimento etico operato dall’antropologia rivoluzionaria è descritto con chiarezza da Mario Ferrandi: «è vero, io ho commesso dei crimini, e molto grossi, però non mi sento un criminale, tutto quello che ho fatto l’ho compiuto sicuro di fare del bene» (cit. in PIETRO CALDERONI, Ecco il vescovo dei terroristi, in L’Espresso, anno XXX, n. 32, 12-8-1984).
(136) Intervista a il Giornale, 30-11-1984.
(137) Come spiega Luigi Lombardi Vallauri, la saldatura tra complesso ideologico abortista e «scientismo tecnologico dominativo» segna la «simultaneità del trionfi e della crisi della cultura borghese-emancipata», cioè del «laicismo illuminato»: infatti, la manipolabilità dell’essere consacrata in «legge», mentre segna il trionfo di questa cultura, ne rivela la valenza nichilistica, quindi l’impossibilità «quasi suicidaria» di ottenere la felicità promessa (Abortismo libertario e sadismo, Scotti Camuzzi, Milano 1976, p. 42).
(138) E. SAMEK LODOVICI, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, cit., p. 243.
(139) Cfr. F. PALMIERI, op. cit., p. 134.
(140) il manifesto, 9-1-1979.
(141) Cfr. il mio Capire o dimenticare il Sessantotto?, cit.
(142) Cfr. MARCO INVERNIZZI, Il Movimento dell’Ottantacinque, in Cristianità, anno XIV, n. 129-130, gennaio-febbraio 1986.
(143) M. BARBONE, intervista cit.
(144) Anche il fenomeno della «dissociazione» presenta elementi di interesse al riguardo, come quelli che si possono ricavare, per esempio, dal Manifesto sulla riconciliazione, firmato da circa duecento terroristi detenuti (cfr. il Giornale, 7-2-1985), oppure dal convegno promosso da terroristi «dissociati» nel carcere di Bergamo (cfr. Avvenire, 18-3-1986); cfr. anche ARRIGO CAVALLINA, La dissociazione dal terrorismo, in Studi Cattolici, anno XXVIII, n. 283, settembre 1984, pp. 499-502.
Il problema del «pentitismo» esula dal tema qui affrontato. Sembra tuttavia che, per un approccio corretto sul piano giuridico — cioè scevro da manicheismi esaltatori oppure denigratori delle fattispecie «premiali» in diritto penale — sia necessario affermare l’eccezionalità del fenomeno criminale terroristico, in quanto fenomeno essenzialmente ideologico. Certamente discutibile sarebbe, pertanto, la trasposizione ad altri fenomeni criminosi del modello utilizzato nella lotta al terrorismo, anche se non si deve escludere aprioristicamente una prudente applicazione di istituti «premiali» nei confronti di chi si dissoci operosamente ed efficacemente da organizzazioni criminali o, comunque, manifesti, con atti concludenti, la volontà di abbondare il proprio passato delinquenziale. Peraltro, soltanto una corretta visione della responsabilità penale e della funzione della pena potrebbe restituire coerenza al sistema penale italiano, evitando gravi conflitti all’interno dello stesso ordinamento giuridico (cfr. sul tema MAURO RONCO, L’azione «personale». Contributo all’interpretazione dell’art. 27 comma I° Costituzione, Bessone, Torino 1984).
Anche il disegno di legge relativo alla cosiddetta «dissociazione», approvato dal parlamento con legge n. 34, del 18-2-1987, presta il fianco a gravi critiche (cfr. A. MANTOVANO, Dai «pentiti» ai «dissociati», in Cristianità, anno XIV, n. 139-140; novembre-dicembre 1986).
(145) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica postsinodale Reconciliatio et poenitentia, del 2-12-1984, n. 7.
(146) Cfr. Ef. 4, 20-24.