Da La bianca Torre di Ecthelion del 24/01/2018. Foto da articolo
Google stila liste di proscrizione contro i propri impiegati. È facile: basta che siano bianchi, maschi, eterosessuali e conservatori. Lo denunciano James Damore e Dabin Gudeman, dipendenti del colosso del web che ha sede a Mountain View, in California, con una class action promossa l’8 gennaio davanti alla Corte superiore della contea californiana di Santa Clara dallo studio Dhillon Law Group di San Francisco di cui è titolare l’avvocato Harmeet Kaur Dhillon, già vicepresidente del Partito Repubblicano della California. Rischio di sciovinismo stile “white supremacy”? Impossibile. L’avvocato Dhillon è infatti una donna, è di religione sikh e ogni tanto si copre pure il capo con una pashmina, visto che è nata 50 anni fa a Chandigarth, nel Punjab indiano. Il 19 luglio 2016, secondo giorno della Convenzione nazionale Repubblicana che due giorni dopo incoronò Donald J. Trump candidato presidenziale, salmodiò una preghiera sikh in lingua punjabi con il capo coperto come di rito.
Ebbene, per denunciare gli abusi di Google la Dhillon ha presentato al tribunale californiano un documento di 161 pagine che illustra in modo circostanziato l’ostilità aperta contro tutti quei dipendenti che non si prostrano al diktat egualitarista con cui l’azienda discrimina per mero intento ideologico i maschi bianchi nelle assunzioni, negli spostamenti e nelle promozioni.
La storia ha girovagato tutta la settimana scorsa sul web. Un breve articolo di Mattia Ferraresi su Il Foglio ne ha informato anche i lettori italiani. Quello che però quell’articoletto non dice è che a monte c’è dell’altro, pure a suo tempo emerso anche in italiano.
Vi è cioè la memoria “anti-aziendale” di 10 pagine che Damore, ingegnere informatico, ha scritto in luglio con il titolo Googles Ideological Echo Chamber, facendola circolare tra i suoi ex colleghi. In essa Damore denuncia le suddette pratiche insopportabili da parte di Google, ma pure si lascia andare a giudizi sessistici decisamente antipatici (se non pure altro) che, ispirati tra l’altro a un evoluzionismo trito, ritrito e scaduto, sostengono l’esistenza di una differenza biologica tra uomini e donne che renderebbe le seconde meno adatte dei primi a ruoli di responsabilità nell’industria hi-tech. Sul “caso” esiste persino una voce Wikipedia in inglese che differisce un po’ da quella in italiano.
A causa di quelle 10 pagine, in agosto Damore ha perso il posto in Google.
Convivono dunque due fatti. La prima è la discriminazione intollerabile perpetrata da Google contro chi obbietta al suo egualitarismo falso e stucchevole; la seconda è il giro mentale altrettanto intollerabile, falso e stucchevole che emerge dalla memoria di Damore. A quest’ultima mostra del resto forte simpateticità – tra altri – un personaggio famoso e famigerato come Peter Singer, il “profeta” della “liberazione animale” che, in un articolo dal costrutto piuttosto arzigogolato, dice a nuora che la propria difesa di Damore sarebbe solo un omaggio alla libertà di espressione qualsiasi cosa si pensi di ciò che l’ex dipendente di Google ha detto per fare in realtà intendere a suocera che, per gran parte del testo, egli altro non fa che ripetere per filo e per segno proprio il pensiero antipatico di Damore.
Ora, “il caso Damore” sarebbe solo un fatto marginale e meramente americano se non mettesse il dito dentro quella piaga sanguinante che potremmo chiamare la notte in cui tutte le vacche sono nere. Ovvero, se non si distingue accuratamente la discriminazione anticonservatrice promossa da Google dal “pensiero antipatico” dei tanti Damore in circolazione, si commette un errore madornale che fa esattamente il gioco dei liberal. Si confonde, cioè, il pensiero conservatore, che doverosamente contrasta il pensiero liberal, con i cortocircuiti sessisti e razzisti. È ciò in cui la dirigenza liberal di Google, che ha annunciato controquerele, probabilmente spera. Tocca dunque all’avvocato Dhillon agire oculatamente con il microtomo, evitando di cascare in una trappola mortale.
Marco Respinti