Un triste film che si ripete
di Valter Maccantelli
Good Morning, Vietnam – celeberrimo film del 1987 – racconta la storia di un membro dell’ufficio stampa dell’USAF, Adrian Cronauer (interpretato da Robin Williams), inviato a Saigon per condurre una trasmissione per la radio delle forze armate. La narrazione si apre con il saluto, diventato celebre, “gooooood morning, Vietnam” con cui Cronauer inizia ogni puntata e si conclude con l’immagine dell’aereo che lo riporta a casa mentre va in onda la sua ultima registrazione in cui saluta con un “goooooodbye Vietnam”.
Chi ha vissuto il mezzo secolo a cavallo del cambio di millennio ricorda molto bene i reportage di quell’aprile del ‘75 in cui gli elicotteri evacuavano l’ambasciata americana dal tetto mentre i primi Vietcong sfondavano i cancelli del parco, dando inizio alla mattanza dei “collaborazionisti” in barba ad ogni garanzia precedentemente fornita nei “colloqui” di pace.
A leggere le notizie provenienti da Kabul in questi giorni sembra di rivedere lo stesso copione, incluse le pelose dichiarazioni di “non abbandono” degli afgani di cui sono prodighi i ministri degli esteri di tutti i paesi occidentali coinvolti, Ministro Di Maio in testa.
Il paragone viene spontaneo vista la somiglianza del format ma se vogliamo capire le ragioni, il contesto e le conseguenze di questa nuova pagina del manuale degli errori occidentali dobbiamo soffermarci più sulle differenze che sulle similitudini.
Dal punto di vista geopolitico – e non solo – quello del 1975 era un pianeta diverso. Quello fu l’anno culminante della Guerra Fredda in cui il comunismo arrivò a dominare il maggior numero di nazioni della sua storia ed era in pieno corso lo scontro – il cosiddetto” gioco del domino” – fra l’espansionismo comunista sovietico e la strategia occidentale del suo contenimento.
Anche l’intervento militare degli Stati Uniti d’America e di alcuni suoi alleati in Afganistan nel 2001 nasce da una necessità di contenimento. In questo caso però, subito dopo l’11 settembre, si trattava di impedire che il terrorismo islamico di Al Qaeda e del suo leader Osama Bin Laden (1957-2011) convolasse a nozze con il regime talebano del Mullah Omar (1959-2013?), dando così origine ad uno stato terroristico che avrebbe rappresentato un rifugio sicuro per i tagliagole islamici di tutto il Medio Oriente. Un califfato sullo stile ISIS con tredici anni di anticipo.
Questa fase dell’intervento militar-poliziesco in funzione antiterroristica fu in realtà assai breve: iniziò con i bombardamenti anglo-americani dell’ottobre 2001 e si concluse in dicembre con l’accerchiamento degli irriducibili della brigata internazionale di Bin Laden a Tora Bora.
Ad essa avrebbe dovuto seguire una fase “politica” di stabilizzazione dell’Afganistan per impedire il ritorno di Talebani e soci. Gli errori fatali cominciano qui. L’idea di dare all’Afganistan un governo e, soprattutto, un esercito centrale alla maniera euroatlantica comincia da subito a confliggere con la natura del popolo e del territorio da sempre governato da clan e da alleanze tribali: famosa è l’Alleanza del Nord, ad impronta etnica tagika, sostenuta dagli occidentali contro gli stessi Talebani, a dominante etnica Pashtun.
Sull’equilibrio di queste forze locali si sarebbe dovuto puntare con realismo e buon senso. Si è scelto invece di puntare sull’esportazione di un modello di democrazia all’occidentale, liberal-umanitaria e di stampo tecnicamente “imperialista”, in grado di entusiasmare solo una ridotta élite progressista, che oggi è sul tetto delle ambasciate occidentali in attesa di evacuazione, ma, per contro, capace di eccitare gli animi dei capi clan delle campagne e delle montagne e di lasciare perplessa la popolazione, stordita dal colpo di flash di una modernizzazione paracadutata dalla terra dei nemici e in palese contrasto con il sistema di vita tradizionale.
Man mano che questo processo di modernizzazione a tappe forzate dimostrava i suoi limiti si è voluto premere ancora sull’acceleratore, incrementando l’azione militare a supporto di governi e relativi eserciti sempre più artificiali e distanti dalla realtà del paese. Se quella che portò alla nomina ad interim di Hamid Karzai – non certo l’uomo del destino – nel 2002 era ancora almeno formalmente la loya jirga, la grande assemblea dei clan, le elezioni “a suffragio universale” che hanno eletto una prima volta nel 2014 e una seconda nel 2019 l’economista di formazione statunitense Ashraf Ghani (dimessosi il 15 agosto) rappresentano il culmine di questo distacco.
Le elezioni del 2019, volute e osannate dai media occidentali, hanno richiesto 5 mesi di conteggi, riconteggi e sparatorie, il vincitore ha evitato il ballottaggio per lo 0,56 % dei voti espressi da 1,9 milioni di votanti su 9,6 milioni di iscritti alle liste per una nazione di 38 milioni di abitanti.
Come giustamente nota in una bella intervista al Corriere della Sera dello scorso 13 agosto il Gen. Marco Bartolini – nel 2003 comandante del contingente italiano In Afganistan e nel 2008-2009 Capo di Sato Maggiore della missione NATO ISAF (International Security Assistance Force) – questo processo di inclusione della realtà clanica del paese è stato più volte suggerito dagli stessi vertici militari USA, dal Gen. David McKiernan al Gen. Stanley McChrystal, evidentemente convinti dall’esperienza sul campo e tutti rigorosamente silurati per dissidio con gli apparati del Dipartimento di Stato.
L’epilogo lo vediamo in questo caldo Ferragosto 2021: dopo vent’anni esatti di guerra, 38.000 Afgani, 2.400 americani, 53 italiani morti, un numero imprecisato di feriti, mutilati e sfollati, 2.000 miliardi di dollari spesi (1.000 secondo altre stime), dopo la solita evacuazione d’urgenza, la questione si ritiene che verrà decisa dal confronto fra il figlio del Mullah Omar, Mullah Muhammad Yaqoob, e il figlio del Comandante Massoud (1953-2001), Ahmad Massoud.
Lunedì, 16 agosto 2021