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I governi e le banche centrali non creano ricchezza

27 Febbraio 2018 - Autore: Maurizio Milano

di Maurizio Milano

Le finanze pubbliche e il Welfare State dell’Italia sono fragili a causa di un mix letale di statalismo e di oppressione fiscale, di debito pubblico fuori controllo e d’inverno demografico. La spesa pubblica è a livelli monstre: circa 839 miliardi di euro nel 2017, pari al 49% del Prodotto Interno Lordo. Essendo una buona proxy dell’effettiva pressione fiscale sul Paese, ipotizzare di espanderla ulteriormente equivarrebbe ad auspicare, senza forse rendersene conto, un ulteriore giro di vite su famiglie e imprese, azzoppando sul nascere ogni speranza di ripresa dell’economia e dell’occupazione. Ma se non è possibile aumentare la spesa pubblica, come si genera allora un sano sviluppo economico di un Paese?

Nella visione keynesiana, dominante nell’accademia e nelle politiche dei governi dal secondo dopoguerra, la  crescita è legata alla cosiddetta “domanda aggregata”. Il focus non è quindi sulla produzione, ma sul consumo: in caso di “risorse inutilizzate”, la crescita ‒ insegnava l’economista inglese John Maynard Keynes (1883-1946) ‒ dovrà essere “stimolata” dal governo e dalla Banca Centrale, con varie combinazioni di politiche “espansive” sia fiscali (aumento della spesa pubblica) sia monetarie (manipolazione al ribasso dei tassi d’interesse) onde arrivare alla “piena occupazione”.

Il protagonista diviene quindi lo Stato “Leviatano”, forte di un apparato burocratico smisurato e di un “braccio armato” efficace, la Banca Centrale, la quale alla bisogna provvede a “monetizzare” il debito pubblico accumulato inflazionandolo a spese dei creditori/risparmiatori. Il mito della “pianificazione centrale” – ancorché sconfessato dalla storia economica con l’implosione dei sistemi socialcomunisti in cui queste logiche sono state portate alle estreme conseguenze, generando vere e proprie “catastrofi antropologiche” – ha fornito e continua a fornire ai governi di mezzo mondo l’alibi per adottare politiche dirigistiche che allargano a dismisura il perimetro della spesa pubblica, degli apparati burocratici e clientelari, dell’oppressione fiscale e del debito, fino all’ipertrofia raggiunta dagli attuali Stati assistenziali e imprenditori.

Qualcuno crede davvero che lo Stato abbia il potere di “accrescere il benessere”, aumentando virtualmente senza limiti la spesa pubblica, e di “creare posti di lavoro” a piacimento? Se fosse vero, perché allora attendere le crisi per farlo? Facciamolo sempre! L’esperienza e il buon senso dimostrano invece che lo Stato non “crea” nulla, ma può “solo” ridistribuire i redditi e la ricchezza prodotti dal Paese, con logiche non necessariamente eque, trasparenti, efficaci. Né ci si può neppure illudere che la ricchezza la generi la Banca Centrale, creando alchemicamente denaro ex nihilo con un “fiat money” faustiano, per poi pompare liquidità senza valore intrinseco nel sistema economico-finanziario.

Il rischio, poco percepito, delle succitate politiche fiscali e monetarie ultra-espansive è quello di scoraggiare il risparmio e d’incentivare l’azzardo morale e i cattivi investimenti, generando “cicli economic” e borsistici di boom-and-bust: crescite forti senza però fondamenta, seguite inevitabilmente dallo scoppio improvviso di bolle. Da inizio secolo ne abbiamo già vissute tre: nel 2000 vi fu lo scoppio della bolla legata alla cosiddetta new economy, con il tracollo, anche borsistico, del settore tecnologia-media-telecomunicazioni; quindi vi è stata la bolla immobiliare-finanziaria scoppiata nel 2007-2008, con il tracollo dei prezzi degl’immobili e i fallimenti a catena di banche mondiali di primaria importanza; infine, nel 2011, si è verificata la crisi dei debiti sovrani che ha rischiato di portare in default i conti pubblici di Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia. Bolle scoppiate a seguito di crescite gonfiate artificialmente, con ampio ricorso alla leva finanziaria, che lasciano dietro di sé instabilità e trasferimenti indebiti di ricchezza, inficiando le prospettive di crescita reale del Paese su orizzonti strategici: lo insegna in modo chiaro la Scuola austriaca di economia, le cui radici affondano nei pensatori “tardo scolastici” soprattutto dell’Università di Salamanca, in Spagna, nel secolo XVI. Una scuola di pensiero economico che, assieme al magistero sociale della Chiesa Cattolica, ha molto da insegnare.

 

Martedi, 27 febbraio 2018, San Gabriele dell’Addolorata

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